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Contenti tutti, contento io: Cosa dicono le neuroscienze, l’economia, i diritti umani e l’estetica sulla ricerca della felicità
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Contenti tutti, contento io: Cosa dicono le neuroscienze, l’economia, i diritti umani e l’estetica sulla ricerca della felicità
E-book260 pagine3 ore

Contenti tutti, contento io: Cosa dicono le neuroscienze, l’economia, i diritti umani e l’estetica sulla ricerca della felicità

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Info su questo ebook

La felicità è innanzitutto un’esperienza privata, difficile da ricondurre a una definizione obiettiva e universalmente valida. Un tentativo in questo senso, tuttavia, può essere fatto. Partendo da diversi approcci e punti di vista gli autori di questo libro definiscono i contorni biologici e psicologici di ciò che cerchiamo nella felicità, collegandola al godimento di diritti e libertà individuali e collettive, all'altruismo e alla bellezza, alle relazioni sociali ed economiche.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2021
ISBN9791280099082
Contenti tutti, contento io: Cosa dicono le neuroscienze, l’economia, i diritti umani e l’estetica sulla ricerca della felicità

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    Anteprima del libro

    Contenti tutti, contento io - Francesco Orzi

    Prefazione

    La felicità è un obiettivo, o forse l’obiettivo, della nostra vita, ma nonostante questa priorità e nonostante ciascuno di noi abbia un’idea di cosa la felicità sia, la definizione rimane elusiva. È così che l’argomento rimane tipicamente confinato al mondo letterario, filosofico o etico, spesso sganciato dalla pratica quotidiana o limitato a dichiarazioni roboanti quanto disattese. Allo stesso tempo l’attenzione pervasiva dei media sulla qualità di vita sembra privilegiare la via facile, cioè quella di reddito, salute, prestigio sociale e beni materiali come principale veicolo utile a guadagnare la felicità. La domanda è se effettivamente siano questi i parametri da considerare per raggiungere l’obiettivo.

    La risposta implica un’analisi che è difficile portare avanti con la metodologia consona a impostazioni scientifiche e rimane quindi vincolata alla moltitudine di ideologie, di convinzioni etiche o scelte religiose, che è doveroso rispettare ma è impossibile valutare oggettivamente. La felicità per sé è un’esperienza privata e in quanto tale è difficile da obiettivare, misurare o riprodurre; non presenta quindi quegli elementi che sono essenziali per una valutazione scevra da pre-giudizi.

    Ma un tentativo può essere fatto. E deve essere fatto da diversi punti di vista, che includano l’antropologia, la storia, l’economia, le neuroscienze, l’arte e la politica sociale. Intanto, la realtà evolutiva ci autorizza a usare un approccio riduttivo e considerare la felicità, nella sua essenza più elementare, come un’emozione positiva. Questo assioma ci permette di utilizzare modelli animali e attingere quindi a una biologia della felicità da studiare in laboratorio. Esiste poi un’economia che usa modelli comportamentali e approcci quantitativi per descrivere le nostre scelte in ambito economico. Queste discipline, nel loro insieme, ci mostrano un’intrinseca, istintiva tendenza umana alla cooperazione, che coesiste con l’aggressività competitiva. Si può infatti dimostrare che molte nostre scelte non sono spiegabili in termini di profitti o benefici egoistici.

    C’è quindi qualcos’altro che guida le nostre scelte. C’è una natura umana, che spinge anche alla cooperazione. Il punto chiave da provare è che l’assecondamento di questa natura possa generare emozioni positive. La cultura, la bellezza, la promozione di politiche che privilegiano la libera scelta dell’individuo anche in condizioni drammatiche, la promozione dei diritti umani sarebbero gli strumenti che sublimano le emozioni di base e contribuiscono a generare quella eudemonia di aristotelica memoria, contrapposta alla edonia.

    Ne emerge una felicità come condizione cognitiva oltre che emotiva. Una felicità da guadagnare con impegno, studio, esperienza e anche con fatica. Ne emerge una felicità come frutto di quell’«arte del vivere» che Gioia di Cristofaro Longo descrive, sottolineando il ruolo dell’adesione ai diritti umani, «intesi come quell’insieme di valori, norme, attitudini, orientamenti che ispirano i comportamenti delle persone considerate sia singolarmente che collettivamente».

    Questa è quindi la tesi di fondo affrontata nel libro: altruismo, adesione ai diritti umani e bellezza come una sublimazione culturale di emozioni di base. Una sublimazione da raggiungere attraverso il lavoro culturale e la pratica.

    Ma quale cultura? Quale pratica? Ovviamente ci riferiamo a percorsi politici e sociali volti ad affermare i valori ispiratori fondamentali della cultura dei diritti umani quali la libertà, l’uguaglianza, la giustizia, la solidarietà. Ma esiste anche la cultura di chi crede che la felicità possa essere raggiunta facendosi saltare in aria con un esplosivo in un mercato di «infedeli», comperando una Ferrari rossa, cercando amori facili, ritirandosi in un monastero di clausura o sniffando cocaina. Siamo sicuri che la nostra cultura sia migliore di quelle che portano a queste scelte? Una domanda provocatoria, certamente. Ma la risposta non è scontata. Proviamo a liberarci dalle nostre pretese di essere migliori di altri e proviamo a darci una risposta che abbia una base quanto più libera da pre-giudizi.

    Ci sembra necessario sottolineare che il libro è consapevolmente eterogeneo. Abbiamo voluto adottare un approccio interdisciplinare e quindi rivelare gli aspetti positivi di apertura a più punti di vista, ciascuno dei quali sarebbe intrinsecamente insufficiente a cogliere in toto il senso della felicità.

    Il libro suggerisce un percorso, che è comunque circolare. Si può anche partire dall’ultimo capitolo e tornare indietro. «Paradisi prossimi venturi» indaga il ruolo seduttivo ma ambiguo della bellezza. Il capitolo «L’arte della vita: diritti umani e cultura della felicità» sottolinea il significato dell’adesione attiva ai comportamenti volti alla promozione e sviluppo dei diritti umani. «Il diritto alla felicità» riporta le esperienze vantaggiose associate alla conquista di libertà spesso negate. Due capitoli («Felicità e altruismo» e «Felicità e reddito») illustrano il punto di vista di un’economia che mira al benessere e non più solamente al profitto. I primi due capitoli («Diritti umani e felicità: un punto di vista neurobiologico» e «Imparare a essere felici» riportano il tema della felicità al substrato biologico ed educazionale suggerendo, sulla base di osservazioni scientifiche, il vantaggio emotivo dell’altruismo.

    Il percorso quindi finisce, o inizia se preferite, con le neuroscienze. In questo modo vorremmo sottolineare che l’argomento dell’intero libro si colloca nell’ambito della scienza. Scienza intesa in senso lato, come un approccio che tenta di essere neutrale rispetto a scelte ideologiche, religiose o etiche.

    F.O.

    I.

    Diritti umani e felicità: un punto di vista

    neurobiologico.

    di Francesco Orzi

    Cercheremo di affrontare il tema della felicità e del suo rapporto con i diritti umani dal punto di vista delle neuroscienze. È un approccio ovviamente parziale e imperfetto, come tutti i punti di vista, ma le neuroscienze hanno il vantaggio di offrire una prospettiva privilegiata perché basata su osservazioni e dati. Questo punto di vista è quindi intrinsecamente più lontano dall’errore di altri approcci basati esclusivamente sulla speculazione.

    Questa prospettiva privilegiata, però, si paga. E si paga cara. Essendo basata sull’osservazione e la sperimentazione, la neurobiologia deve considerare forme di felicità che siano in qualche modo quantificabili e riproducibili. Questo implica un approccio riduttivo. Bisogna ricorrere a modelli, anche e soprattutto a modelli animali, che forniranno una semplificazione forzata dell’esperienza umana. Quindi, per poter avere un approccio sperimentale, la parola felicità necessita di essere definita e ricondotta, o meglio ridotta, a emozioni elementari presenti in diverse specie animali.

    La vera sfida sarà poi speculare sulla relazione tra queste emozioni positive di base e quella felicità tipicamente umana, connessa a funzioni cognitive come il ragionamento astratto, l’attenzione per la bellezza o la riflessione sul senso della vita. Il tema ritorna così alla differenza concettuale tra edonia («piacere») ed eudemonia («vita ben vissuta») risalente ad Aristotele e ancora presente nella recente letteratura (Kringelbach e Berridge, 2017).

    Felicità ed emozioni positive

    C’è quindi un presupposto di base che dobbiamo accettare per procedere. Dobbiamo supporre che la felicità umana sia riconducibile nella sua essenza a forme emotive elementari. In altre parole, dovremmo adottare il punto di vista evolutivo che considera una sorta di continuum tra le espressioni affettive di una lucertola, di un gatto e dell’uomo, con una distribuzione gerarchica della qualità dell’esperienza. Si tratta di un presupposto che molti potrebbero non accettare. Pensate alla felicità che può derivare da osservare un’opera d’arte o dal sapere che un amico ha superato una brutta malattia. Pensate a quell’insieme di sensazioni che possono accompagnare l’adesione ai diritti umani e alla loro promozione. Se considerate queste esperienze qualitativamente diverse al punto da non essere per nulla riconducibili nei loro elementi essenziali alle emozioni animali, se pensate che in questa felicità «alta» ci sia un quid non afferrabile, magari espressione di una realtà metafisica, potreste considerare di saltare questo capitolo.

    Diritti umani e cooperazione

    Se l’approccio neurobiologico ci impone di essere riduzionisti verso l’eudemonia e trovare in essa elementi di quell’edonia potenzialmente riferibile a modelli animali, lo stesso approccio ci obbliga a essere riduzionisti anche nei confronti dei diritti umani. La domanda da porsi è quindi: nell’aderire ai diritti umani, nell’agire per la loro promozione, nell’intraprendere comportamenti altruistici possiamo trovare, per quanto in nuce o marginali, elementi riferibili a comportamenti animali di cooperazione? L’adesione, o l’opposizione, a sentimenti, programmi, politiche che riguardano i diritti umani sono il risultato di una scelta ideologica, religiosa e comunque culturale o sono l’espressione di un fondamento biologico?

    Se ammettiamo un fondamento neurobiologico dovremmo cercare di interpretarlo in una cornice evolutiva e fare riferimento, per esempio, a comportamenti animali che presentino aspetti di tipo altruistico associabili, anche se vagamente, a motivazioni di fondo presenti nella cultura dei diritti umani. Conviene quindi forse abbandonare temporaneamente la dizione «diritti umani», che potrebbe fuorviare un’analisi che vorrebbe invece essere neutra (per quanto possibile) sul piano culturale. Dovremmo quindi forse usare parole diverse come, per esempio, «cooperazione» e al suo opposto «aggressività» e cercare di trovare esempi di questi comportamenti nel mondo animale o individuare modelli sperimentali che possano suggerire i meccanismi che li sottendono.

    E quale relazione può esistere tra comportamenti di cooperazione ed emozioni positive? Se tale relazione esistesse siamo autorizzati a trasferirla al rapporto tra diritti umani e felicità? Potrebbe la felicità, o la ricerca della felicità, essere una motivazione a perseguire, promuovere e aderire a comportamenti in linea con i diritti umani?

    Possiamo anticipare che dati recenti suggeriscono un legame tra generosità e forme di felicità o sensazioni di benessere (Aknin et al., 2012, 2015; Andreoni, 1990; Helliwell and Aknin, 2018). Il legame lascia supporre che tali emozioni positive costituiscano una motivazione a operare con generosità (Park et al., 2017). Di questi aspetti, in particolare, si tratterà nel capitolo successivo.

    Il sentire positivo avrebbe quindi la funzione di incentivare comportamenti utili in termini evolutivi e la cultura agirebbe come uno strumento per rafforzare, indirizzare e potenziare o sublimare meccanismi adattivi innati (Damasio, 2019). La felicità probabilmente non è l’unica motivazione di comportamenti altruistici. Altre motivazioni, come reciprocità o prestigio, che riguardano il ruolo dell’individuo nel gruppo sociale e il contesto culturale, giocano un ruolo rilevante. Ma cerchiamo di procedere in ordine.

    Il percorso da fare quindi riguarda l’individuazione di comportamenti altruistici (o apparentemente tali) in specie animali e riconoscere quindi il loro ruolo evolutivo. Si tratta poi di identificare i meccanismi neurobiologici che motivano l’individuo alla cooperazione o all’aggressività. Il passaggio successivo è scoprire gli aspetti affettivi, i vari tipi di sentire, che accompagnano questi comportamenti e valutare se la ricerca neurobiologica dia prove che queste qualificazioni affettive contribuiscono a motivare comportamenti di cooperazione. Da qui bisogna poi speculare sulla relazione tra tale emotività e la felicità sofisticata, quel senso di appagamento e di pace con sé stessi che può accompagnare l’impegno per la promozione dei diritti umani.

    Natura umana: aggressività e cooperazione

    Aggressività e cooperazione sono comportamenti diffusi in molte, o forse tutte, le specie animali. Sono schemi comportamentali innati, favoriti dall’evoluzione per aumentare la probabilità di sopravvivenza e comunque favorire l’adattamento all’ambiente. Per schemi comportamentali intendiamo processi di natura neurobiologica, relativamente stereotipati, mediati da configurazioni biochimiche-anatomiche di specifiche aree cerebrali. In altre parole, il sistema nervoso è strutturato (gli anglosassoni usano la parola wired, per analogia con la circuiteria di un sistema elettronico) fin dalla nascita per mettere in atto alcuni comportamenti di base, istintivi,¹ qualora si presentino alcuni stimoli.

    Questa struttura, o circuiteria, si può parzialmente modificare nel tempo, può essere controllata da altre parti del cervello, può essere inibita o sublimata. Negli esseri umani adulti, quindi, tali istinti possono essere difficili da osservare perché filtrati e modificati dall’attività cognitiva, fino a manifestarsi solo come sottili tendenze psicologiche, pulsioni controllate, preferenze sentite dal di dentro, guide non percepite. Modificazioni nel tempo, mediate da acquisizioni culturali, non sono incompatibili con la nozione di una circuiteria innata, predefinita, che guida nostri comportamenti elementari fin dalla nascita. La circuiteria neurale che sottende i comportamenti istintivi è in realtà molto malleabile e incline a essere modificata dall’apprendimento e dai controlli esercitati da aree cerebrali filogeneticamente moderne. Tale malleabilità può essere considerata nella cornice concettuale dell’intricato rapporto tra nature e nurture, di cui si tratta da quando è nata la cultura umana e su cui acquisizioni scientifiche degli ultimi decenni hanno fornito enormi contributi a conferma della complessa ed efficace interazione.

    Sull’aggressività spenderò poche righe. Il suo significato evolutivo è evidente, soprattutto in contesti in cui le risorse ambientali necessarie per la sopravvivenza sono scarse. Ma non è sempre o necessariamente così. L’aggressività richiede molta energia e può rendere le risorse dell’individuo insufficienti e divenire quindi svantaggiosa. Sui vantaggi e svantaggi del comportamento aggressivo o ingannevole rispetto a quello di cooperazione si può dissertare da vari punti di vista, e negli ultimi decenni notevoli passi avanti sono stati fatti nel definire concettualmente l’argomento con «giochi» come quello del dilemma del prigioniero, trattato nel capitolo successivo. Il prigioniero ha un vantaggio nell’ingannare il compagno di cella rispetto a collaborare, ma se (e soltanto se) anche l’altro collaborasse il vantaggio del collaborare sarebbe maggiore dell’ingannare.

    Noi, e altre specie, abbiamo sviluppato meccanismi biologici per inibire gli istinti aggressivi. A questi si aggiungono quelli culturali e in questo senso è utile da ricordare, per inciso, che l’aggressività si sviluppa dal punto di vista evolutivo in contesti in cui il rapporto tra individui è prevalentemente a due, del tipo faccia a faccia. L’inibizione nei confronti dell’aggressività su larga scala, verso ignoti, tipica per esempio della guerra tecnologica, è meno sviluppata. È un punto per sostenere come l’aggressività dei nostri giorni possa essere particolarmente pericolosa. Un motivo in più per coltivare lo sviluppo culturale, visto che i tempi per l’evoluzione biologica sono decisamente troppo lunghi.

    Ovviamente ci sono diversi tipi di aggressività. La letteratura su questo argomento è vasta e si cimenta, tra l’altro, nel distinguere le varie forme di aggressività: in base all’intensità, alla fenomenologia e alla finalità (Nelson and Chiavegatto, 2001). Semplificando, la variabilità può essere ricondotta a due sottotipi: il sottotipo controllato-strumentale e il sottotipo reattivo-impulsivo. L’aggressività strumentale è mirata e orientata all’obiettivo, è meno dipendente dai sistemi ipotalamico e limbico che sono noti per mediare l’aggressività impulsiva. È l’aggressività tipica del freddo predatore, controllata, diretta allo scopo. È evidente che questo tipo di aggressività può diventare particolarmente raffinata nell’uomo, attraverso meccanismi di controllo corticale associati, per esempio, a processi culturali. Tali modificazioni di aspetti istintivi di base possono avvenire sia nel senso di elaborare tattiche o strategie per provocare danni ad altri a proprio vantaggio, sia nel senso opposto di incanalare le emozioni verso comportamenti socialmente accettati. Si pensi, per esempio, all’aggressività intrinseca a un atto chirurgico, all’aggressività di un poliziotto nei confronti di un criminale o di un partigiano nei confronti di un dittatore. L’aggressività reattiva invece è impulsiva, tipicamente provocata da minacce o frustrazioni. È associata a intensa componente affettiva con espressioni motorie e vocali spesso incontrollate. È l’aggressività di cui tutti noi abbiamo esperienza quando riceviamo un danno o una minaccia.

    L’aggressività è un fenomeno diffuso anche e soprattutto nel mondo animale ed espresso in una varietà di forme diverse. Nonostante tale variabilità, alcuni tratti fenomenologici sono comuni a varie specie e all’uomo. Già Darwin aveva notato che uomini e animali rispondono a sfide sociali con aumento della frequenza respiratoria e del battito cardiaco e con tipiche espressioni mimiche, a suggerire una base biologica comune (McKellar, 1949). Trascuriamo tutti questi aspetti che ci porterebbero fuori tema, ma conviene aver speso queste poche righe sull’argomento per evidenziare come l’aggressività, al pari della cooperazione, possa (o debba) essere considerata in questa sede senza intenti morali, come un comportamento innato, promosso dall’evoluzione, presente in tutto il mondo animale in varie forme. In questa sede ci interessa inoltre sottolineare che l’aggressività è paragonabile, e potremmo dire speculare, alla cooperazione. E forse più che la cooperazione, l’aggressività mostra la stretta relazione tra il comportamento e la sua qualità affettiva e motivazionale, un aspetto che dovremo riprendere descrivendo la cooperazione e i suoi rapporti con la felicità.

    La cooperazione pone un fondamentale problema interpretativo in ambito della teoria della selezione naturale, come riconosciuto da Darwin stesso. La cooperazione infatti, per definizione, implica un sacrificio individuale a favore della comunità. Perché un individuo dovrebbe fare questo, se escludiamo (almeno in questa nostra analisi) un comandamento divino, rivelato da un Mosè, o Allah o Budda, un timore per una pena o l’aspettativa di un premio, tanto più se eterno? Perché un individuo non preferisce ingannare a proprio vantaggio e a scapito degli altri?

    Nel 1906, lo zoo di New York, nel Bronx, espose una persona di etnia pigmea. Due anni dopo, la stessa persona si suicidò. Oggi consideriamo l’intera vicenda inaccettabile e una miseria per la nostra cosiddetta civiltà. Questo esempio, e ovviamente se ne possono scegliere in grande numero, ci dimostra che il tempo ha favorito la promozione dell’individuo e la formulazione di principi e diritti. La cultura ci ha aiutato ad andare avanti. In realtà la parola «avanti» implica una direzione, un percorso verso qualcosa e molti potrebbero criticare questo avverbio come presupposto di un fine ultimo, una verità, unica e prestabilita da raggiungere. Diciamo che la cultura ha accompagnato o indotto cambiamenti da molti ritenuti favorevoli, di

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