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L’illusione di vedere: Note di neuroscienza sulla percezione visiva
L’illusione di vedere: Note di neuroscienza sulla percezione visiva
L’illusione di vedere: Note di neuroscienza sulla percezione visiva
E-book213 pagine2 ore

L’illusione di vedere: Note di neuroscienza sulla percezione visiva

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Info su questo ebook

Il mondo non è come appare.
Siamo immersi in una nuvola di radiazioni elettromagnetiche che viaggiano in tutte le direzioni e con frequenze diverse, incrociandosi, riflettendo, rifrangendo e interagendo con la materia che ci circonda e con noi stessi.
La retina estrae alcune onde e le trasforma in segnali biologici, dai quali il cervello elabora segnali e costruisce significati. Il successo della visione implica meccanismi neurali che sfrondano le informazioni irrilevanti, fanno emergere quelle salienti e organizzano i segnali per risolvere le ambiguità, aggiungendo informazioni che provengono dalla memoria e dal bagaglio cognitivo. Il processo visivo implica, quindi, un’interpretazione «creativa». Il cervello ci permette di interagire con l’ambiente, non tanto di vederlo nella sua realtà oggettiva, che invece ci sfugge.
In un certo senso, chi più chi meno, tutti noi abbiamo allucinazioni.
LinguaItaliano
Data di uscita29 feb 2024
ISBN9791280099297
L’illusione di vedere: Note di neuroscienza sulla percezione visiva

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    Anteprima del libro

    L’illusione di vedere - Francesco Orzi

    I.

    Lucciole per lanterne

    Nella breve introduzione ricordavo che conoscere la funzione visiva può affascinare perché ci aiuta a realizzare che le nostre immagini sono interpretazioni di una realtà che ci sfugge nella sua essenza. Realtà, essenza… Certo, potreste subito dire: «già, ma cos’è realtà, cos’è essenza?». Potreste contestarmi che queste parole sono vaghe, smisurate, enfatiche, pretenziose o semplicemente fuori luogo per un approccio che vorrebbe essere scientifico. Per un ambito, cioè, in cui le parole dovrebbero essere definite e avere un significato operazionale. In effetti credo sia proprio così. Ma il punto chiave che vorrei esprimere in queste pagine riguarda proprio il tentativo di utilizzare solidi dati per fare inferenze su qualcosa che sfugge all’analisi esatta.

    I solidi dati menzionati sono quelli basati su osservazioni, ripetibili e obiettivabili. Ma tale obiettività, come è noto, si paga cara, perché i dati si riferiscono spesso a modelli, che per definizione sono parziali, imprecisi e in parte sicuramente erronei. Così l’approccio riduttivo dei modelli scientifici deve poi integrarsi con altro, per avvicinarsi a conoscere qualcosa della realtà e dell’essenza delle cose. Sto entrando maldestramente in ambiti che sono del tutto fuori dalle mie competenze. Mi fermo, limitandomi a un esempio. Considerate la gravità, quella che tutti sperimentiamo, quella che farà cadere il libro di mano se mollerete la presa. La gravità è un’entità in qualche modo inafferrabile, che non tocchiamo e non vediamo, che ci sfugge nella sua vera essenza. E in effetti è rimasta un mistero per secoli. Molto è stato capito, ma molto c’è ancora da fare. Il processo di comprensione è iniziato quando Galilei ha genialmente pensato di studiarla facendo scorrere bilie su un piano inclinato. Potrei azzardare a dire che gli esperimenti sulla percezione visiva, la costruzione di modelli teorici, le tecniche di neurofisiologia, i vari strumenti di indagini neurobiologiche e neuropsicologiche sono come le bilie di Galileo. Sono strumenti che ci avviano a capire entità che sostanzialmente ci sfuggono. E le bilie vanno comprese, perché sono parte essenziale della conoscenza. Così, troverete anche una breve sezione sui metodi impiegati dai ricercatori. Per chi lavora nella ricerca i metodi sono spesso più importanti dei risultati, nel processo conoscitivo.

    Non sappiamo ancora bene infatti cosa sia vedere e quale sia il rapporto tra la realtà (per quello che intuitivamente possa significare la parola) e le nostre percezioni visive. Ma con le nostre bilie abbiamo ottenuto acquisizioni sufficienti per affermare qualcosa di molto rilevante, qualcosa che filosofi avevano intuito già nel passato, ma che ora è dimostrabile: c’è un divario tra la percezione di un oggetto e la sua vera essenza. Questa nozione credo sia rilevante e credo che valga la pena di conoscerla. Attraverso gli strumenti delle neuroscienze sappiamo ora che le immagini di cui facciamo esperienza sono prodotte dal cervello e quindi non c’è alcuna certezza che la mela che vediamo sia effettivamente fatta come la vediamo, con i suoi colori, la sua forma, macchie, variazioni di superficie. Questa incertezza di base sul valore conoscitivo delle nostre percezioni può essere nozione ovvia ad alcuni, ma non lo è stata fino alle acquisizioni scientifiche degli ultimi decenni e tutt’ora non lo è per molti.

    La nozione che il cervello, e non l’occhio, è la sede della funzione visiva era stata una straordinaria intuizione già nell’antica Grecia. Alcameone di Crotone (IV-V secolo a.C.), secondo le poche, incerte e indirette fonti, fu il primo che sezionò animali viventi. In particolare, la sua attenzione si concentrò a mostrare come è fatto l’occhio. Secondo la testimonianza di Teofrasto, Alcameone ebbe modo di identificare determinati «canali» (poroi) che conducevano le sensazioni dagli organi di senso (orecchie, naso, lingua, occhi) al cervello e rese così possibile la scoperta del collegamento nervoso tra l’occhio e il cervello, dando avvio a riflessioni sulla reale sede delle sensazioni. Un famoso disegno di Leonardo da Vinci riproduce l’anatomia dell’occhio con enfasi sulla connessione diretta tra globo oculare e cervello.

    Ma il ruolo relativo dell’occhio e del cervello è rimasto per secoli un mistero. Ed è comprensibile che sia stato così se consideriamo che il neurone è stato scoperto circa un secolo fa e che la conoscenza dei meccanismi di base del sistema nervoso è iniziata solo da pochi decenni. Per quanto molti aspetti della funzione visiva siano ancora sconosciuti, gli strumenti di studio oggi disponibili ci permettono di cogliere la complessità della percezione visiva. Ci permettono di sbarazzarci dell’idea che vedere sia il banale, consueto atto quotidiano di registrare immagini del mondo che ci circonda. Uso la parola «registrare» per cercare di esprimere quella sensazione di atto unitario, semplice, naturale di cui facciamo esperienza quando vediamo. Forse non ci siamo mai chiesti come l’immagine di una mela, per esempio, sia da noi percepita e quale possa essere la relazione tra la mela vista e la mela reale.

    Non sembra compito difficile vedere una mela. Anche una macchina fotografica coglie l’immagine della mela. Può sembrare che sia così, ma la macchina fotografica non vede la mela, compie solamente la parte iniziale e meno complicata del lavoro: trasduce segnali elettromagnetici riflessi dalla mela in segnali digitali che a loro volta saranno ancora trasformati in modificazioni della materia, per esempio macchie di inchiostro su carta. La macchina fotografica è un mero strumento di trasduzione del segnale elettromagnetico in altro mezzo che produce riflessi elettromagnetici analoghi a quelli prodotti dalla scena fotografata.

    Dunque, la macchina fotografica non vede la mela. Non parliamo qui della fotografia come strategia per creare immagini che possano avere un valore storico, culturale o artistico. Non parliamo cioè di quella componente che il fotografo aggiunge all’espediente tecnico per avere un risultato in cui c’è più di quanto presente nell’immagine catturata. Il fotografo artista usa suoi modelli mentali per arricchire l’immagine del mondo che lo circonda con significati aggiuntivi. La fotografia artistica, in questo senso, è un pregnante esempio della relazione tra conoscere e vedere, uno stimolo a considerare la debolezza e inconsistenza del nostro occhio per sé. La fotografia artistica suggerisce che l’esperienza visiva è mai statica, ma lascia vedere qualcosa che prende origine anche dalle esperienze culturali del fruitore.

    Il punto, peraltro ormai ovvio, è che sarà comunque compito del sistema visivo, del nostro cervello vedere la mela. Uso il corsivo per segnalare ancora l’alone di difficoltà, di indefinito che avvolge il verbo vedere. Se esiste un dualismo non è il classico mente-cervello di cartesiana memoria. Il dualismo è tra stimolo fisico statico e interpretazione dinamica da parte delle nostre strutture neurali. Ma non di vero dualismo si tratta, solamente di un sofisticato algoritmo che aggiunge significati allo stimolo sulla base delle nostre precedenti esperienze. Lo stimolo visivo produce ciò che noi interpretiamo come immagine, ma quell’immagine è inestricabilmente connessa all’interpretazione dello stimolo legata alla relazione vedu-to-vedente. Gioco di parole? Non saprei come evitarlo senza introdurre il difficile rapporto tra immagini, pensiero, linguaggio e soggettività, di cui cercheremo di parlare dal punto di vista neurobiologico. Così variegate e interconnesse sono le strategie che noi usiamo per dare un senso al vedere che le parole a disposizione non sono adeguate e ci si sente costretti a usarne molte, a volte necessariamente in modo improprio.¹

    Se quanto appena affermato sembrasse non chiaro o suscitasse incredulità, conviene menzionare un esperimento. Uno fra i tanti, che recentemente occupano gli spazi degli archivi sulle neuroscienze della percezione visiva. Un gruppo di volontari, che hanno partecipato allo studio, avevano a disposizione un’immagine digitalizzata di frutta (banana, arancia, limone, …). Il loro compito era di modificare al computer il colore dell’immagine fino a vederla acromatica, cioè completamente grigia. Ci aspetteremmo che il grigio raggiunto attraverso la manipolazione dell’immagine al computer sia lo stesso per ogni tipo di frutta, cioè per ogni tipo di colore. Ci aspetteremmo cioè che l’atto di manipolare il colore non abbia relazione con la natura dell’oggetto colorato. Ma l’ipotesi di lavoro dei ricercatori era proprio il contrario di quello che il buon senso ci suggerisce. I risultati dello studio hanno mostrato che, consistentemente, i volontari che hanno partecipato allo studio producevano un tipo di grigio diverso per ciascun tipo di frutta. In altre parole, la percezione del grigio era influenzata dalla conoscenza del colore tipico della frutta. Se non fosse chiaro, proviamo con l’esempio della banana. I partecipanti allo studio, gli osservatori, vedevano la banana di colore grigio soltanto dopo aver aggiunto un po’ di tinta opposta al giallo, cioè per vedere grigia la banana aggiungevano il blu. Analogamente, per vedere grigia l’arancia o grigio il cavolfiore aggiungevano al vero grigio una quota di altro colore. I grigi così ottenuti erano oggettivamente diversi, ma apparivano simili perché la percezione del grigio era influenzata dalla conoscenza del colore della frutta. Questo studio, come altri, mostra che noi tendiamo a vedere la frutta del colore che ci aspettiamo, la banana gialla, l’arancia rossa, il cavolfiore verde, e così via. La nozione che abbiamo a priori del colore della frutta influisce sul nostro modo di percepirlo. Cioè, «esiste un effetto cognitivo di alto livello sui meccanismi percettivi di basso livello. La nostra conoscenza del mondo influenza la nostra percezione» (Hansen et al. 2006). Ritorneremo su questo punto quando parleremo del colore e del processo cognitivo che in neuroscienza viene spesso chiamato top-down.

    Per ora è utile menzionare che anche, e perfino, la memoria ci serve per vedere.

    La percezione visiva è intrinsecamente costruttiva e creativa in natura. Il colore noto degli oggetti, cioè quello che conosciamo essere il colore dovuto, influisce sulla percezione del colore stesso. Il nostro cervello utilizza questa conoscenza per guidare il sistema visivo nel processo di assegnazione dei colori agli oggetti. C’è una ragione evolutiva per questo? Il vantaggio è evidente. Il risultato, infatti, è di rendere invariante l’immagine dell’oggetto nelle diverse condizioni di illuminazione.

    Ovviamente il processo di inferenza non riguarda solo il colore. La trasduzione della luce in segnali neurali non fornisce informazioni dirette su molti aspetti del mondo visivo, tra cui la struttura tridimensionale, la dimensione o il movimento. Le caratteristiche dell’immagine di un oggetto sono estremamente variabili e ambigue a causa degli effetti di proiezione, sovrapposizione o parziale copertura, sfondo o illuminazione. Il successo stesso della visione quotidiana implica meccanismi neurali che sfrondano le informazioni irrilevanti, fanno emergere quelle salienti e organizzano i segnali per risolvere l’ambiguità inerente allo stimolo, aggiungendo informazioni che provengono dalla memoria e dal bagaglio cognitivo. L’interpretazione dello stimolo è basata sulla plausibilità e sull’informazione a priori.

    Tale plausibilità e informazione a priori tipicamente non emergono a livello di consapevolezza. Il processo di fare inferenze è spesso inconscio. C’è differenza nei meccanismi di inferenza conscia e inconscia? È ampiamente condivisa nel mondo delle neuroscienze l’ipotesi che esista un continuum tra inferenza conscia e inconscia, e che esista un metodo generale di inferenza, più o meno sofisticato, nelle diverse specie. Ma tale metodo è in gran parte ancora sconosciuto.

    Recentemente, modelli di sviluppo cognitivo sono stati focalizzati su algoritmi di tipo probabilistico, che fanno riferimento al teorema di Bayes. Nel XVIII secolo, il matematico britannico Thomas Bayes, sviluppò una formula matematica per determinare la probabilità condizionale, cioè la probabilità che un evento si verifichi data la conoscenza a priori dell’occorrenza di quello stesso fenomeno. In altre parole, il teorema di Bayes permette di adattare il calcolo della probabilità all’esperienza.²

    È una sostanziale ipotesi che il processo di inferenza sia da interpretare in senso bayesiano, cioè che tenga conto della conoscenza a priori e della possibilità di errore implicita nell’inferenza. Tale possibilità di errore è verosimilmente appresa dal cervello insieme all’acquisizione di un’associazione tra stimolo e risposta (Aitchison et al. 2021). Complicato? Proviamo con il solito esempio.

    Apprendiamo che certi stimoli percettivi, colore, dimensioni, forma, sono propri della mela. Tale apprendimento si ritiene avvenga attraverso la formazione e/o modulazione di contatti sinaptici delle cellule nervose.³ Ma le mele sono di varie forme, misure e colori. La mela può essere vista da sopra, da sotto, di lato, a varie distanze. La mela può essere spaccata, bacata, coperta da foglie, e così via. Le informazioni percepite sono quindi spesso ambigue o insufficienti a definire con certezza la mela. Nell’associare, attraverso l’apprendimento, alcune caratteristiche percettive alla mela dobbiamo tener conto di tale ambiguità e dei potenziali errori. Tale potenzialità di errore deve quindi essere appresa insieme all’associazione, e deve essere considerata quando vediamo la mela.

    Potremmo vedere una mela se non avessimo memoria e conoscenza di cos’è una mela? Difficile rispondere se non abbiamo elementi sufficienti per definire esattamente cos’è vedere.

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