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Rapa Nui: L'uomo che fece camminare le statue
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E-book413 pagine4 ore

Rapa Nui: L'uomo che fece camminare le statue

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Info su questo ebook

Pavel Pavel, oltre che per la brillante carriera in ambito ingegneristico, è famoso per aver risolto uno dei maggiori misteri relativi all'isola di Pasqua (Rapa Nui in lingua originale): come vennero spostate, dagli indigeni, le gigantesche statue Moai? Essi non disponevano certo dei nostri mezzi tecnologici, eppure riuscirono a far camminare questi colossi per centinaia di metri. Animato da grande ingegno, nel 1985 Pavel, aiutato soltanto da alcuni amici, realizza a Strakonice, sua città natale, una statua di cemento di 4 metri e mezzo per 12 tonnellate, e riesce a spostarla utilizzando esclusivamente strumenti disponibili nel Neolitico. Entusiasta, scrive al celebre esploratore ed etnologo Thor Heyerdahl, per relazionare i risultati del suo esperimento, e questi, di risposta, lo invita a unirsi alla sua équipe in un viaggio sull'isola di Pasqua, per replicare il tutto con un Moai reale. Nel 1986, Pavel si unisce alla squadra di Thor e trascorre ventiquattro giorni a Rapa Nui, che cambieranno definitivamente la sua vita. Il libro illustrato racconta quest'esperienza indimenticabile con una prosa capace di fondere il piglio etnografico con l'informalità della narrativa.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2017
ISBN9788869342738
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    Anteprima del libro

    Rapa Nui - Pavel Pavel

    Rapa Nui

    L’uomo che fece camminare le statue

    Traduzione e cura di

    Miriam Acquaroli

    Etnografia

    23 Maggio 1985

    Gentile Sig. Pavel,

    La ringrazio per la sua lettera del 14 Maggio scorso. Sono stato piuttosto sorpreso nel vedere la foto della riproduzione di una statua dell’isola di Pasqua che veniva spostata, e ancora di più nel leggere la sua lettera dove dice di aver condotto un esperimento inerente al trasporto dei Moai. Sono ovviamente molto interessato ad avere ulteriori dettagli su questo esperimento.

    In una fotografia, la statua viene mossa su dei rulli con l’aiuto di varie leve, il che è facilmente comprensibile. Ma nell’altra sembra che la stia muovendo in posizione eretta, ed è difficile capire come stia effettivamente compiendo il lavoro. Sta ruotando la statua da fianco a fianco, tirando delle corde intorno alla base, mentre la tiene in piedi tramite funi intorno alla testa? O ha trovato qualche modo per inclinarla in avanti senza nessuna rotazione laterale? Sarei lieto di avere una descrizione dettagliata di come l’abbia spostata in posizione verticale, e vorrei complimentarmi per l’idea di aver condotto questo interessante esperimento pratico con un modello di cemento.

    I miei migliori auguri,

    Cordiali Saluti,

    Thor Heyerdahl

    Introduzione alla traduzione inglese

    L’uomo ha tentato di risolvere problemi, ottenere risposte e svelare misteri fin dall’inizio della sua esistenza. I nostri antenati incominciarono a collezionare conoscenze sul mondo che li circondava per puro istinto di sopravvivenza; in seguito, esploratori bramosi di oro, preziose spezie e materie prime cercarono, trovandole, terre lontanissime e nuovi continenti. E non si fermarono fino a che non tracciarono la mappatura del mondo intero. Oggi anche noi, in fin dei conti, ci ritroviamo a svelare gli enigmi dell’universo e siamo sempre più alle prese con la scienza e con la ricerca di nuove soluzioni per trattare gravi malattie o metodi alternativi per lo sfruttamento delle risorse.

    Questo è ciò che chiamiamo progresso e che ci fa guardare al futuro con speranza e grandi aspettative. Piuttosto naturale e lecito, direte, ma cosa succede se guardiamo indietro?

    Improvvisamente, l’uomo del terzo millennio diventa insicuro e comprensibilmente confuso. I misteri non sono solo davanti a noi, ma anche dietro. Sono sparsi lungo la strada che l’essere umano ha già percorso in passato e che dovrebbe essere ormai accantonata alle nostre spalle.

    Ma com’è stato questo percorso? In realtà, anch’esso è stato, tutto sommato, naturale. Ogni nuova invenzione e soluzione tecnica volta al progresso ha rimpiazzato la tecnologia originaria, le procedure di lavoro o i trucchetti dei primi artigiani, facendoli mano a mano scomparire e lasciando spazio a processi più moderni, veloci, semplici ed efficaci. Le vecchie tecniche obsolete vengono messe da parte e dimenticate, ma solo fino al momento in cui l’uomo torna a pensarci e si ritrova faccia a faccia con un altro mistero: come riuscirono i nostri antenati a fare tutto ciò che oggi possiamo ammirare? Ci chiediamo come gli egiziani eressero le piramidi, come venne costruito il santuario di Stonehenge e rimaniamo attoniti di fronte al livello di conoscenza dell’astronomia mostrato dalle antiche civiltà del passato. Il totale disorientamento nei confronti degli antichi costruttori e ingegneri ha condotto alcuni autori persino a ritenere che ci siano di mezzo gli extraterrestri.

    Il libro che state tenendo in mano narra la semplice storia dello svelamento di uno dei misteri archeologici più famosi al mondo. Seguitemi nel mio percorso alla scoperta di come le statue giganti dell’isola di Pasqua furono trasportate. Seguitemi nel mio viaggio a Rapa Nui.

    Pavel Pavel, 2009

    Introduzione alla terza edizione

    Sono passati ventuno lunghi anni da quando osai scrivere al famoso esploratore norvegese Thor Heyerdahl del mio esperimento con le statue Moai a Strakonice. La sua riposta cambiò completamente la mia vita. Nel 1986 diventai un membro della sua seconda spedizione all’isola di Pasqua e potei contribuire a rispondere alla domanda su come le famose statue giganti furono spostate dagli abitanti dell’isola. Ho condiviso le esperienze di viaggio coi miei lettori nella prima edizione di questo libro, pubblicata nel 1988.

    Allora non potevo sapere che sarei ritornato in questo posto remoto che a quel tempo avevano visitato solo in pochi, né che avrei visitato altri Paesi esotici fino ad allora solo sognati.

    Nel 2000 è venuta al mondo la seconda edizione estesa del libro Rapa Nui, e così i lettori hanno potuto leggere del mio secondo viaggio all’isola di Pasqua alla fine del 1996 e di quelli in Sud America e Canarie.

    Oggi il libro è giunto alla sua terza edizione. Sono felice di avere l’opportunità non solo di rivisitare il mio memorabile viaggio del 1986, ma anche di condividere le nuove scoperte e i risultati del mio lavoro nel campo dell’archeologia sperimentale, raccolti negli anni successivi alla spedizione. E sono elettrizzato al pensiero che oggi mi potrei star rivolgendo a potenziali visitatori di questo luogo misterioso che i suoi abitanti chiamano Rapa Nui.

    Pavel Pavel, 2006

    Mercoledì 22 Gennaio 1986 - Giorno 1

    Il ritorno di Thor

    La voce rauca dall’altoparlante di bordo informò i passeggeri che il nostro aereo stava giungendo a destinazione e che in un paio di minuti avremmo avvistato l’isola di Pasqua. Ciò scatenò un’ondata di agitazione e tutti iniziarono a lottare per i posti finestrino. Sebbene portata avanti con accettabili norme sociali, la lotta era comunque consistente.

    Avevamo passato cinque tranquille ore di volo sopra la vastità del Pacifico. Per oltre quattromila chilometri la sola cosa visibile era stata la superficie blu dell’oceano più grande del mondo.

    Thor Heyerdahl ci convocò in prima classe dove Beng, il regista, ci indicò come scendere all’aeroporto di Rapa Nui. Rapa Nui, Mataki-te-rangi e Te Pito o te Henua sono i nomi originali di quella che noi conosciamo come isola di Pasqua. Le mappe la indicano col suo nome spagnolo: Isla de Pascua.

    Ero un membro della seconda spedizione organizzata dal museo norvegese Kon-Tiki e guidata da Thor Heyerdahl insieme al Professor Arne Skjølsvold, il Capitano di nave in pensione Arne Hartmark e Gonzalo Figuero del Cile. Eravamo accompagnati da una troupe della televisione svedese composta da quattro membri incaricati di immortalare tutti gli eventi significativi. Il ritorno sull’isola dopo trent’anni di Thor Heyerdahl e del suo inseparabile collaboratore Arne Skjølsvold, non poteva non essere consacrato.

    La sottile striscia di terra marrone che comparve all’orizzonte diventò mano a mano sempre più grande. Le macchine fotografiche impazzirono. Incastrandomi tra i fotografi, riuscii a occupare l’ultimo piccolo punto di osservazione da un oblò, dove mi riempii gli occhi dell’isola che stavamo approcciando, mentre una parte di me continuava a ripetersi che non era un sogno. Non ci fu bisogno di darmi un pizzicotto, poiché i gomiti e le ginocchia puntati dei miei compagni fotografi erano una prova sufficiente. Dopo cinque anni di piani e fantasie sull’isola di Pasqua, essa mi stava apparendo davanti in tutta la sua gloria.

    Avvicinandoci, potei riconoscere i profili conici dei vulcani e le sporadiche macchie verdi di boschetti e foreste. Esattamente in quell’istante provai il sentimento di chi crea un sogno, lo dipinge a colori vividi e alla fine ci si trova faccia a faccia. Quante volte avevo letto descrizioni dell’isola che dicevano fosse misteriosa e bellissima? Ci credevo in tutto e per tutto, e adesso avevo sotto di me una terra che sembrava strana e brulla, senza traccia di umani.

    L’isola ora, era così vicina che potevo distinguere ogni dettaglio e la mia macchina fotografica iniziò a competere entusiasticamente con le altre attorno a me. L’aereo volteggiava sopra un enorme versante collinare dalle nette scogliere che scomparivano tra le onde schiumose del mare. Non poteva essere altro che il maestoso Poike, una delle punte dell’isola triangolare. Vicino Poike c’è il vulcano Rano Raraku, pensai schiacciando il naso sull’oblò. Il pilota doveva avermi letto nel pensiero perché cominciò a virare e scendere fino a che, dietro l’ala, potei vedere la spaccatura nera di un cratere con un piccolo lago blu al centro. Era proprio il Rano Raraku, selvaggio e meraviglioso.

    Eppure, c’era ancora qualcosa che mi mancava per essere pienamente felice. Usai la lente della macchina per scrutare l’isola più da vicino e ispezionare il paesaggio. Ero alla ricerca delle misteriose sculture che rappresentavano il motivo della mia presenza in quell’aereo. E finalmente, mentre sorvolavamo lentamente il vulcano, le trovai. Prima le scorsi attraverso il mirino, poi coi miei stessi occhi. Le statue Moai.

    La giallognola collina erbosa rivelò un gruppo di sottili linee nere. Riuscivo a stento a respirare perché stavo cercando di assaporare al massimo lo spettacolo sotto di noi. Le linee si trasformavano piano piano in sculture, e io morivo dalla voglia di condividere con Thor la felicità che percepivo in quel momento. Mi voltai verso di lui. Era seduto, perfettamente composto, nella fila centrale, e stava parlando con la troupe televisiva. Non riuscivo a crederci. Scioccato, decisi di non preoccuparmi del perché Thor fosse completamente noncurante della mia eccitazione e tornai a osservare lo scenario cangiante. A quel punto, vedendo altri vulcani, mi dimenticai di tutto.

    L’equipaggio era chiaramente esperto, dato che l’aereo volteggiò per un po’ e poi si riallontanò verso il mare aperto, facendo scomparire l’isola dalla nostra vista. Le hostess riuscirono a farci rimettere seduti e ci obbligarono a riallacciare le cinture: eravamo pronti all’atterraggio.

    Lasciai l’aereo secondo l’ordine stabilito portando due grosse borse, una mia e l’altra di Thor. Ero stato incaricato di occuparmene io, così che lui potesse essere più libero.

    Capii in fretta perché aveva quest’esigenza: in un attimo venne letteralmente travolto da persone che volevano salutarlo stringendogli le mani. Anche le mie stringevano qualcosa: valigie. La folla che attendeva ai piedi della scala dell’aereo e che acclamava gridando, era guidata da un robusto giovane in occhiali; intesi subito che era il governatore dell’isola, il dottor Sergio Rapu, un entusiasta archeologo nonché amico di Thor.

    Gli isolani abbracciarono i vecchi conoscenti col loro saluto: "Ia orana oe. Io, invece, non fui abbracciato da nessuno. In piedi di fianco a Thor, adocchiai gelosamente la collana di fiori che i nativi gli avevano messo al collo e ne approfittai per osservare tutti i movimenti che stavano avvenendo intorno a noi. Siccome me ne stavo lì impalato così, devo aver impietosito qualcuno che, rivolgendomi un gentile Ia orana oe" di benvenuto, infilò anche a me una collana di fiori.

    La folla ci spinse alla fine della pista, dove ci aspettava una sorpresa: un gruppo di danza folkloristica che eseguì un piccolo show. Musicisti indigeni con fasce colorate sul capo e gonne di paglia iniziarono a suonare melodie vivaci e a cantare una canzone molto coinvolgente. Mentre andavamo verso di loro, due indigeni completamente pitturati e piuttosto spaventosi ci corsero incontro gridando barbaramente. Thor Heyerdahl non era affatto meravigliato e osservò il minaccioso comportamento con un sorriso sapiente. Era consapevole di cosa stava per succedere: ben presto ai suoi piedi furono posati i vari regali, vale a dire polli vivi legati, patate dolci in un cesto intrecciato con foglie di palma e un casco di banane sormontato da un fiore viola scuro.

    Improvvisamente la musica diminuì, diventò più calma e melodica e delle indigene vennero verso di noi con uno strano movimento oscillatorio.

    Le ragazze portavano fasce piumate in testa e gonnelline realizzate con piume bianche, che turbinavano al ritmo selvaggio della danza hula. Lasciai entrambe le borse e mi misi a sgomitare con una macchina fotografica sopra la testa per farmi strada tra la massa di turisti che circondava le ballerine. Ne valse la pena: c’era l’imbarazzo della scelta su dove guardare. In fondo, avevo la scusa di dover scattare delle istantanee per i miei connazionali, altrimenti non avrebbero mai creduto a come gli stranieri vengono accolti in quest’isola.

    Buongiorno, Moai

    Una volta liberati dalle formalità doganali, lasciammo l’aeroporto e ci dirigemmo verso le auto in attesa. Gli interni dei veicoli erano infuocati per il sole e le casse sparavano musica polinesiana. Ero così sopraffatto dal caldo, emozionato per questo Paese lontano, e frastornato dal caos del benvenuto, che non riuscivo a capire dove ci stessero portando.

    Parcheggiammo di fronte a un bungalow bianco che si rivelò essere il nostro alloggio, un pittoresco albergo risplendente in un mare di verde. In realtà era un semplice edificio arioso con una copertura di amianto ondulato; un sentiero conduceva a una scalinata di pietra che terminava con un terrazzo ovale, dal quale, costeggiando colonne sottili, passammo alla veranda. Diverse sedie ci tentarono a riposare in quella meravigliosa area ombreggiata.

    Mi venne consegnata la chiave di una stanza singola, la mia casa per i prossimi ventiquattro giorni. Una camera semplice ma decorata con gusto e munita di un letto, una mensola, un comodino e un bagno. Il pavimento era coperto da un tappeto economico e la carta da parati riproduceva uomini-uccello, un motivo che avrei presto scoperto essere molto popolare.

    L’unica finestra della stanza, protetta da una zanzariera, si affacciava sul cortile posteriore. Ciò aveva i suoi vantaggi, infatti, appena disfatte le valigie, mi misi a guardare l’arrivo delle forniture della cucina, come quello di un uomo che trasportava un grande tonno in motorino.

    Non considerando la testa, il pesce doveva essere lungo più di un metro. La direttrice dell’hotel, nonché madre di Sergio Rapu, il governatore, esaminò la merce e ordinò al pescivendolo di filettarlo ed eviscerarlo. Quello tirò fuori da un fodero un coltello affilato e gli fece un’incisione laterale. Mi ricordò i paesini cechi e le loro sagre del maiale, quando il macellaio estrae il grasso dalla bestia. Il pescivendolo applicò la stessa destrezza per filettare il tonno, partendo dalla coda e tenendolo dall’incisione che aveva fatto sulla parte superiore. Non gli ci volle molto a dividerlo e a procedere alla pesatura su una bilancia a molla che si sfilò dalla cintura. La padrona di casa monitorava attentamente le sue azioni.

    Da dietro la tenda, ero emozionato e cercavo di abituarmi all’odore pungente di pesce. Grazie a Dio, una brezza umida pulì subito l’aria una volta terminata l’operazione di consegna.

    Ma prima di tornare alle mie valigie, nel cortile arrivò un altro fornitore, che scaricò un enorme casco di banane verdi sulla tavola di legno di fronte alla mia finestra. I frutti furono lasciati lì a maturare per tre giorni fino a che diventarono gialli. Solo allora furono commestibili. Il buon odore di banana nella mia camera durò per giorni.

    Decisi di lasciare le valigie a più tardi e cedetti alla tentazione di esplorare i dintorni da solo, indisturbato.

    La terrazza dell’hotel offriva una vista da favola. Il vasto Pacifico blu si estendeva sulla sinistra, dove si ammirava anche la profonda rientranza della baia da cui partiva una pendenza di diverse centinaia di metri allungata verso di me. Sulla destra, a circa due chilometri, c’era il villaggio di Hangaroa con le case che spuntavano dai lussureggianti giardini e campi, e dietro al paese si ergevano a distanza i due coni dei crateri adiacenti al vulcano Tereavaka, coperti da erbetta verde. Lo stesso Tereavaka era appollaiato maestosamente sopra la baia, chiudendo così la vista. Coi suoi cinquecentosei metri era la montagna più alta dell’isola e il suo mantello erboso giallo e marrone, bruciato dal sole, era un perfetto sfondo per l’oceano blu, il cielo e la vegetazione dilagante del villaggio.

    Partii per una passeggiata verso la spiaggia e il piccolo porto di pescatori.

    Due giganti Moai alti cinque metri dominavano la baia. Erano loro la ragione per la quale ero venuto sull’isola e questa era la prima volta che li vedevo così da vicino.

    Il primo giorno sull’isola di Pasqua si concluse in gran stile, con una cena cerimoniale organizzata da Sergio Rapu, allo stesso tempo governatore dell’isola e proprietario dell’hotel. L’avevo già incontrato velocemente all’aeroporto, ma questa era la mia occasione di conoscerlo adeguatamente.

    La carnagione scura provava le sue origini indigene. Parlava allegramente con chiunque e devo dire che mi piacque molto. Indossava una camicia a maniche corte e pantaloni di lino. La sua gioia nel rivedere Thor Heyerdahl era enorme, ma era unita indubbiamente anche al fatto di avere un gruppo così grande sotto il suo tetto. Ad ogni modo la sua felicità era spontanea, onesta e contagiosa, e fu molto abile nel darci un sintetico saluto di benvenuto sull’isola. Gli fui assai grato: appena vidi la tavola imbandita di vivande all’apparenza squisite, sia che mi fossero note sia sconosciute, mi resi conto di avere una fame da lupi.

    L’ultima volta che avevamo mangiato era sull’aereo a mezzogiorno, mentre la cena venne servita alle nove di sera. Il mio stomaco affamato risentì automaticamente anche delle due ore di fuso orario che avevamo accumulato durante la traversata.

    A tavola fummo raggiunti da diverse autorità locali. A quel tempo i loro nomi non mi dicevano niente, ma li avrei poi rivisti in varie occasioni della vita e avrei preso sul mio quaderno molti appunti sui nostri incontri. Quella volta il mio taccuino era ancora vuoto e senza speranze. Tutti erano incuriositi da come avrei spostato le statue, dal perché ne fossi interessato, da come avevo conosciuto l’isola e dalle mie origini. I giornali e le radio li avevano informati che ci sarebbe stato un cecoslovacco nella spedizione, e Thor Heyerdahl si curò di spiegare ogni volta ai giornalisti chi era chi e qual era il compito di ciascun membro. Ero eccitato per l’interesse che si era creato e mi sentivo al settimo cielo quando qualcuno a tavola dimostrava di sapere qualcosa della Cecoslovacchia. Fu un appassionato di calcio che si ricordò del secondo posto ai mondiali del 1962 in Cile. I nostri erano stati battuti, in finale, tre a uno dal Brasile.

    Mi arrivavano così tante domande da tutti i lati che non ebbi tempo di gustarmi le leccornie offerte. Pensai che avrei dovuto imparare a mangiare e parlare allo stesso tempo, dato che parlare a bocca piena sembrava essere un’abitudine locale. A bocca piena, comunque, riuscii a dire al tifoso che, se non fosse stato per il Brasile, avremmo potuto essere i campioni del mondo nel ‘62, ma poi cambiai subito discorso quando mi chiese dello stato del calcio in questi giorni. Il mio inglese scolastico mi permetteva di fingere che a volte le domande fossero semplicemente troppo difficili da capire, per me.

    Quando la serata stava per finire, fummo invitati dal dottor Rapu sulla terrazza a goderci uno spettacolo serale del gruppo di danza. Si ripeté la stessa scena del pomeriggio all’aeroporto. I ballerini dipinti si precipitarono verso Thor gridando e porgendogli infine un regalo, un remo magnificamente inciso. Appena Thor lo accettò, ragazze olivastre graziosamente vestite con gonnelline di paglia si misero a ballare e a cantare canzoni polinesiane. Si esibirono in molte danze e vennero apprezzate con scroscianti applausi. Era tardi, e per il primo giorno avevo già visto abbastanza. Il mio ultimo pensiero, prima di addormentarmi esausto, tornò all’isola. Com’era davvero? Cosa mi aspettava là fuori?

    Cosa so io dell’isola?

    Il 25 Settembre 1513, Vasco Nùñez de Balboa passò attraverso lo stretto di Panama e si ritrovò in un oceano sconosciuto. Poteva forse essere l’oceano delle isole colme di oro e spezie preziose, della cui esistenza gli Europei erano fermamente convinti? La risposta definitiva era oltre il canale che separava l’America del Sud dalla Terra del Fuoco, e che fu scoperto da Ferdinando Magellano dopo quasi un anno di ricerche.

    Gli spagnoli, i portoghesi, e più tardi gli olandesi scoprirono un’isola pacifica dopo l’altra. La Nuova Guinea, l’Australia, la Nuova Zelanda, le isole Marchesi e uno dei più grandi arcipelaghi corallini, Tuamotu, erano già noti da qualche tempo prima che fosse organizzata la spedizione olandese dell’ammiraglio Jacob Roggeveen. Nel 1722, in una zona sperduta dell’oceano, la spedizione si imbatté quasi inaspettatamente in un’isoletta con diverse migliaia di abitanti.

    Secondo le stime attuali, sarebbero potute vivere lì un massimo di cinquemila persone. Essendo il giorno di Pasqua, il posto venne chiamato isola di Pasqua, in onore della festività.

    Il primo incontro documentato degli autoctoni con la nostra civiltà fu un assaggio di cosa gli abitanti locali si sarebbero dovuti aspettare dai bianchi in futuro. Un indigeno fu abbastanza coraggioso da saltare su una nave e commettere un piccolo furto: questa fu una ragione valida perché l’equipaggio iniziasse a sparare, uccidendo conseguentemente parecchi aborigeni.

    Non conosco esattamente la storia delle altre isole del Pacifico, ma potrei comparare la storia di Rapa Nui con la conquista delle civiltà precolombiane del Centro America. L’isola era lontana da tutto e tutti, e l’equipaggio non si faceva scrupoli per soddisfare i propri bisogni e voglie, grazie all’acqua da bere, la frutta fresca e le belle polinesiane che, volontariamente o meno, rendevano più interessante l’altrimenti noiosa vita dei lunghi viaggi per mare.

    Per una nave che ancorava qui, era una rara eccezione ripartire senza lasciare morti a riva. Tutto poteva essere un buon motivo per usare violenza, da un piccolo furto alla resistenza opposta quando i membri dell’equipaggio volevano ottenere provviste e donne. Gli indifesi nativi a volte venivano uccisi persino per puro divertimento. Suppongo che l’opinione pubblica non contasse in quei giorni. Sappiamo tutti bene che milioni di Indiani in Centro e Sud America furono soppressi con qualsiasi mezzo di sterminio. In un tale contesto, chi si sarebbe preoccupato di qualche aborigeno morto su un’isola dispersa? Tuttavia, il peggior e più orripilante disastro doveva ancora arrivare.

    Era il 1862. Sei barche peruviane giunsero sull’isola in cerca di schiavi. Ne furono catturati migliaia, tra cui uomini istruiti, nonché la famiglia reale. Furono portati tutti a estrarre guano. Il vescovo di Tahiti, insieme alla Francia, cominciò a esercitare pressione perché i prigionieri venissero liberati, e quando finalmente ci riuscì, solo quindici sopravvissuti poterono tornare all’isola. Il resto morì per i maltrattamenti o per il vaiolo.

    I superstiti che tornarono a casa diffusero il virus tra gli isolani e sembrò non esserci rimedio alla strage. Pagarono tributo all’insidiosa malattia sia bambini che adulti. Come insulto finale, l’avventuriero francese Jean Onezime Dutroux-Bornier si dichiarò re dell’isola. Durante il suo cruento regno, alcuni locali dovettero lasciare il luogo natio per salvarsi la vita. Quando l’autocrate fu finalmente ammazzato dai suoi stessi alleati, non erano rimaste che centoundici persone ad abitare quelle terre.

    Dal 1888 l’isola appartiene al Cile. Fino a tempi recenti tutte le decisioni venivano prese da una comunità di allevatori le cui cinquantamila pecore pascolavano per l’isola, mentre gli indigeni vivevano miseramente dietro al filo spinato di un unico villaggio.

    Elencare queste tragedie mi fa gelare il sangue. Per i bianchi, gli isolani erano stati puri schiavi. La loro vita iniziò a migliorare leggermente quando i pochi abitanti rimasti furono affidati alla missione cattolica e la situazione si tranquillizzò. Ad ogni modo, i locali erano tenuti a rimuovere le conoscenze apprese da generazioni e a rimpiazzarle con quelle nuove dei bianchi. Le meravigliose statue di legno e le esclusive tavolette con la misteriosa scrittura rongo rongo furono bruciate nei falò, esattamente come i libri cechi bruciati in Boemia durante la colonizzazione gesuita, per l’ancora maggior gloria dello stesso Dio.

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