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Soli Comunicanti
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E-book401 pagine5 ore

Soli Comunicanti

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Soli Comunicanti è un romanzo che mette in immaginifica relazione la scoperta dell'esistenza di vita intelligente nello spazio e la nascita dell'impero Inca. La storia mantiene il lettore sul filo del mistero a lungo, tra episodi di vita aliena su pianeti remoti, avventure in posti sperduti sulla Terra e esperienze di vita passata e presente, evidenziando i profili psicologici dei protagonisti e costruendone pazientemente la reciproca comprensione, dando speranza di successo alle loro ostinate ricerche e alleviandone la solitudine attraverso la prospettiva di una insperata comunicazione.

LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2017
ISBN9781370258215
Soli Comunicanti
Autore

Diego Minen

Diego was born in Udine in 1958. He lives and works there, but very often travels around the world for his job. He holds an engineering degree and is co-founder of an international software company which develops mechanical simulation programs. Among his favorite sports, mountain-biking, windsurfing, off-road motorcycling, swimming and skiing. Besides math homework with his teens kids, reading, crosswording and sudoku are among his passions in the remaining free time. Diego is at his first experience as a novelist, and if somebody asks him why did he decide to write, the answer would likely be “After lots of reading why not challenging myself writing”

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    Anteprima del libro

    Soli Comunicanti - Diego Minen

    1. Nanni

    Ho tenuto il fiato sospeso. Sia per Dario, mio collega astronomo, sia per la tostissima Alma, tanto carina quanto coraggiosa e brava alpinista. Ma il climax (per me) è stato quando Juan Burgos, in una scena movimentata, trova la calma e l’eleganza di dire: Non si può pretendere di svelare i misteri universali se non ci si eleva oltre il normale. Lei e quei dilettanti dei suoi amici non avete nemmeno idea di cosa significhi la parola scoprire. Le scoperte non si comprano e non si rubano, si vivono. WOW !

    Parole che credo ruberò per utilizzarle spesso, anche se ho paura che non mi capiterà mai in un contesto così avventuroso. Pazienza. Diciamo infatti subito ai giovani ed entusiasti lettori che la vita degli astronomi non è sempre così…del resto, è anche raro che succedano i fenomeni naturali descritti nel libro, anche se non impossibile. Ma per fortuna, appunto, c’è la fantascienza, che è fatta apposta per farci sognare. Da bambino, giocavo anch’io a lanciare un pezzo di legno ben levigato, che allora era la milanesissima lippa . Forse, se l’avessi chiamata PisquILLU, sarei davvero riuscito a farla arrivare tanto in alto da non vederla, come invece sognavo invano con la lippa.

    Non devo certo raccontarvi la storia di Soli Comunicanti, del resto ricchissima e impossibile da riassumere in poche righe. Invece, posso dirvi che, una volta cominciato, io non sono, letteralmente, riuscito a metterlo giù. Fantascienza così, mista a scienza vera, sesso vero, il tutto in ambientazione polisportiva e mondiale, ti fa sballare, lo leggi più con la pancia che con la testa. Però poi ti rendi conto della originalità e personalità dell’autore, qualità oggi molto rare nella fantascienza, soprattutto in Italia. Io, inevitabilmente, sono innamorato della profondità e della accuratezza fantastica di Sir Fred Hoyle, grande astrofisico e, secondo me, anche il più grande autore di fantascienza della storia. Non mettiamoci a fare paragoni fuori posto, ma lasciatemi dire nel libro e nello stile di Minen ho trovato qualcosa della personalità di Sir Fred.

    E’ anche il momento giusto per un libro così. Noi astronomi stiamo scoprendo nuovi pianeti a centinaia, tra poco a migliaia, fuori dal sistema solare. E abbiamo cominciato solo 15 anni fa: fino ad allora c’erano i sogni dell’umanità, da Giordano Bruno a Giacomo Leopardi e a tutti noi, ma di pianeti intorno ad altre stelle non se ne erano ancora visti. Adesso, ripeto centinaia, tra poco molti di più e presto, soprattutto, saremo anche capaci di analizzare l’atmosfera di quelli che ce l’hanno, tra i pianeti che ci sembrano giusti (cioè non troppo piccoli né troppo grandi, né troppo vicino né troppo lontano dalla loro stella, etc.). Le analizzeremo, quelle atmosfere lontane, per vedere, ad esempio, se ci sono tracce del respiro di esseri viventi, come qui, nella nostra malridotta atmosfera terrestre. E poi noi astronomi, da quando andiamo nello spazio, abbiamo inventato la astronomia di contatto: non li guardiamo più soltanto, pianeti, asteroidi e comete del nostro sistema solare. Ci andiamo vicino, o addirittura sopra, e li studiamo il più possibile. Da poco, per esempio, abbiamo trovato uno dei venti aminoacidi dei quali siamo fatti noi nella chioma di una cometa, presa al volo mentre passava vicino alla Terra. Chissà se, per caso, i marziani siamo noi. E se la vita sulla Terra fosse venuta da fuori? Oppure: e se fossimo noi a esportare, almeno potenzialmente, la vita in giro nello spazio? Domande difficili. Leggere Soli Comunicanti non serve certo a dare risposte. Però può far venir voglia al lettore di fare l’astronomo. Un mestiere bellissimo dice Alma, sentendo un’onda di sottile piacere percorrerla.

    Giovanni F. Bignami

    2. Kipasa

    Kipasa guardava il cielo ancora chiaro al tramonto del secondo sole all’orizzonte. Sapeva che avrebbe avuto poco tempo e gli sarebbe servito il TeDRA per scrutare l'infinito proprio sopra la sua testa. La sua più grande passione dopo la scuola alla sera nella stagione semibuia era guardare in alto, aspettare che le comete scintillanti si staccassero dalla Grande Fontana e formassero nuovi disegni nel cielo in penombra di Amantera. Durante le notti e nella fase di allineamento il materiale cosmico diventava visibile e creava degli spettacolari disegni notturni, che via via scomparivano quando il pianeta si trovava nella zona più centrale della traiettoria ellittica. Allora c’era quasi sempre luce, ed era impossibile vedere ogni altro oggetto luminoso. Kipasa amava la luce, ma per buona parte dell'anno, corrispondente ad un intero periodo di rivoluzione del pianeta attorno ai due soli, desiderava sopra di sé uno sfondo scuro per poter scatenare la sua immaginazione, e soltanto per meno della metà dei 1460 giorni dell'anno amanteriano poteva esercitare la sua passione di nasinsù, quando Amantera si trovava in uno degli estremi della traiettoria, con uno dei soli alla massima distanza: fortunatamente per lui la velocità del pianeta rallentava molto in corrispondenza di quelle posizioni, e ciò prolungava la possibilità di osservazione. Si chiedeva quanto fosse distante e quanto tempo ci avrebbe messo a raggiungere la Grande Fontana, avesse potuto andarci. Quella mattina a scuola aveva ripassato le unità di misura, le distanze in M, o un ventimilionesimo della lunghezza della circonferenza del loro pianeta all'equatore; i tempi in S o più di nove miliardi di cicli della radiazione corrispondente alla transizione tra due livelli energetici dell'atomo di cesio. Kipasa era un ragazzo curioso, si chiedeva molti perché.

    Chissa perché un ventimilionesimo, chissà perché il cesio, possibile che la luce non possa viaggiare più veloce di trecento milioni di M per S?

    Mentre pensava a quello e alle grandi complicazioni che stava capendo la vita gli avrebbe offerto, aveva puntato il TeDRA verso la Grande Fontana: in condizioni di stand-by lo strumento era molto compatto, diametro e lunghezza erano di poco inferiori al ventesimo di M. Premette un piccolo tasto di lato e quel piccolo oggetto si allungò fino a raggiungere le dimensioni del suo avambraccio, una specie di cannocchiale potentissimo in grado di rilevare anche deboli segnali dal cosmo, identificandone le distanze di provenienza. Aveva sognato a lungo quella notte, la prima vera di inverno amanteriano. La Grande Fontana sembrava quasi inattiva. Guardò un contatempo sul display dello strumento di cui ogni amanteriano era dotato, e pensò che avrebbe avuto solo diecimila S per vedere le nuove figure. Meno di un terzo della mia giornata, rifletté.

    Aumentò ulteriormente l’amplificazione, e fu allora che gli sembrò di captare qualcosa di originale: non lampi di luce, né le solite emissioni dei quasars o delle stelle di neutroni. Un impulso timidissimo ma improvviso, intenso, ad ampio spettro, molto ben direzionato. Il programma di riconoscimento del TeDRA conteneva istruzioni per poter distinguere radiazioni stellari da quelle provenienti da impatti o da esplosioni di materia. Cacciare oggetti nascosti nell'universo era un gioco appassionante per tutti, ad Amantera. Kipasa avviò la procedura di memorizzazione del segnale, come molte volte aveva già fatto, e attivò il programma grafico per l'analisi di ciò che stava registrando. Il picco di intensità durò qualche decina di S. Si chiese da quale angolo di cosmo potesse provenire. Lanciò il programma di identificazione, in grado di riconoscere quali fossero i probabili elementi di materia coinvolti. Riconobbe le frequenze di emissione degli atomi di silicio, alluminio, ferro, nichel, carbonio, uranio, radio. Utlizzando lo spostamento verso il rosso e il rallentamento dovuto agli atomi di idrogeno sparsi nello spazio, calcolò la distanza approssimativa della sorgente: 196 anni luce, velocità di allontanamento circa ottantamila M per S. Kipasa stava riconoscendo un fenomeno casuale o voluto, avvenuto più di 196 anni prima proprio nello spicchio di cielo che stava puntando. Inizialmente pensò ad una delle tantissime sequenze che aveva già memorizzato, e si ripromise di salvarla sul computer della scuola. Aveva infatti registrato per 600 S, ad una frequenza di acquisizione molto alta, e aveva saturato 12 Tbyte di memoria del TeDRA. Il fenomeno gli sembrava interessante, ma ovviamente, come molti altri, andava seguito nel suo andamento temporale, per capire se le caratteristiche spettrometriche fossero variate, e se si fosse potuto dedurre se nel luogo della sua origine potesse esserci stata presenza d'acqua, che gli amanteriani erano convinti fosse elemento indispensabile per la vita. Era di moda sul pianeta fare delle ipotesi sulle migliaia di sequenze indice di probabile vita extramenteriana che arrivavano da ogni parte. Disattivò il TeDRA, soddisfatto della sua miniscoperta. Decise di buttarsi giù disteso, rilassandosi un attimo e aspettando. Le otto dita dietro alla nuca, gambe accavallate, convertì il minitelescopio in riproduttore sonoro e si sparò nelle cuffie musica a palla, connettendosi alla sua stazione preferita, Armonitera. Pensando che la stagione del semibuio fosse sempre troppo corta, meditò sulla cattura di onde appena effettuata, che solo parzialmente poteva compensarlo dalla delusione della Grande Fontana. Dopo qualche paio di migliaia di S di ulteriore inutile attesa si alzò e si ridiresse verso casa.

    3. Dario

    Da molto tempo non sentiva la tavola scorrere sulle creste come quella mattina. Il vento era perfetto, esattamente da nordest, si infilava nel golfo dalla parte del porto, mare piatto, colori di fine estate e riflessi azzurro intenso: lontano, la costa istriana, più vicino, ruvido di spruzzi finissimi, il lenzuolo increspato del golfo, e migliaia di aghi gelidi sui piedi nudi. Aveva montato una quattro e due, il timbro del vento era pieno, promettente di spinta; la tavola era la stessa da anni, ottanta litri, partenza dall'acqua, planata quasi subito, respiro di successo, sfida di vita. Via al traverso, il castello di Miramare a scenario delle sue evoluzioni, forse meno estreme di un tempo, forse meno sciolte, ma pur sempre atletiche, muscoli tesi, orecchio reattivo, concentrazione sul gesto, percezione di cambio di direzione, stai pronto col boma, impugna meglio, occhio al trapezio, dove la prossima strambata? Su quella cresta, no aspetta l'altra, vai di powerjibe, poggia, indietreggia cambia lato, pronto, muoviti piatto sulla tavola, aspetta che giri, sfrutta l'inerzia, passa l'albero, non perdere velocità riparti, l'Istria è sempre lì ad ammirare il tuo ritorno. Bravo. L'ultimo bordo verso Barcola era sempre quello del recupero e della fine dell'isolamento dal mondo. Bello riposare dopo cinquanta minuti esposti ai trenta nodi della bora di fine settembre, di un bellissimo settembre. Poi il ritorno in ufficio, la mailbox rigonfia di messaggi. E il programma di ricalcolo delle distanze interstellari tenendo conto della curvatura dello spaziotempo, si sarà ripiantato? Quei rigidi doublecheckers dell'osservatorio del Monte Palomar, che ancora non gli davano accesso ai loro dati, dopo mesi che avevano ricevuto le sue credenziali, quelli dell'ARPA, l'osservatorio metereologico locale, ancora una volta con le loro richieste assurde. Un occhio all'orologio digitale, portato a destra, segno di diversità, come molte altre sue cose. Spiegarsi meglio? Perché, chi mi capisce mi segue. Ogni tanto, ultimamente, la sua indecisione lo sorprendeva però, cosa c'era che non andava? È forse che l'ultimo jibe era moscio? Più stanco del solito? Un insieme di cose, semplicemente un insieme di cose. Che i segnali dallo spazio e quelli provenienti da dentro siano da mettere in relazione? Dopo un mese avrebbe dovuto sottoporsi alla visita medica per l'All-Japan Wave Classic, ad inizio gennaio, Omaezaki, Giappone, patria delle onde gialle, nel mezzo del nulla, tre ore da Tokyo, mare impossibile, sabbia nell'aria, profumo di alghe, gentilezza e forza di samurai, carica di vita. Gli andava molto di combinare i viaggi di lavoro con le uscite in windsurf. Il Giappone, poi, che posto. terra gentile e persone civili, movimenti ordinati, pianificazione estrema, caos controllato. Sconcertante per certi aspetti ma incredibilmente accogliente. Se non abitassero sulla Terra, certamente i giapponesi potrebbero appartenere ad una specie di un altro Pianeta. Ogni volta ce n'era una da imparare per i fortunati occidentali che guardavano con occhio curioso, una sorpresa per come la vita può essere interpretata in modo così originale. Gli ekiben vendute nei gazebo delle stazioni delle metropolitane lo facevano impazzire, i cibi riprodotti in cera nelle vetrine dei ristoranti erano piccole opere d'arte, arrivare a Shinjouku e tentare da solo di prendere la metro per andare a Yokohama era un'esperienza eccitante, sentire il cantilenante e inchinante ohayo gozaimasu dai portieri degli alberghi o dalle sentinelle nei grandi palazzi degli affari della Ginza per ogni singola persona che passava loro davanti era per lui un segnale di profonda diversità. A volte, appena arrivava, gli piaceva lasciare la sua mente libera di confrontare quei luoghi e quei comportamenti con gli equivalenti occidentali: la stazione della metro a Central Park, l'aeroporto di Roma Fiumicino, Heathrow, il Charles de Gaulle, il Metro di Detroit o quello di San Francisco, il Civic Center a Chicago. A volte pensava che se Tokyo non fosse stata abitata dai giapponesi, sarebbe già collassata da molto tempo sotto la sua stessa immensa complessità, e la pensava poter funzionare solo per la grande consapevolezza dei suoi abitanti, piccole unità di calcolo di un megacluster parallelo. Viaggiare con i giapponesi era diverso: persone discrete, attente a stare nel volume di spazio loro assegnato, ai movimenti dei loro vicini, estremamente reattive in situazioni di difficoltà, assolutamente non invadenti: non usano il cellulare in ambienti chiusi ed affollati, non schiamazzano, non parcheggiano dove capita, non tentano di passarti davanti, non reagiscono se passi loro davanti, cercano di capirti, ma se sei lento quando devi essere rapido la loro legge è spietata. Sorridono, tu pensi che ti perdonino, in realtà quel sorriso è condanna definitiva. Quando mancava da quel paese per molto tempo, non vedeva l'ora di tornarci per essere circondato dalla gentile e suadente saggezza di quella civiltà millenaria. Godeva immensamente nell'assaggiare i loro cibi, nell'immergersi in quelle combinazioni di aromi a volte delicate, a volte estreme, così diverse per un occidentale: lo scatenarsi dell'immaginazione del gusto e dell'olfatto lo faceva impazzire, l'odore del pesce crudo, così pungente, le radici di ginger piccantissime, il wasabi e le salse di soia, i profumi degli incensi nelle case da tè. Veniva spontaneo ed era un grande piacere moltiplicare le connessioni sensoriali: a volte il cibo giapponese gli ispirava una melodia di flauto, un Debussy lontano nella luce soffusa dell'alba umida sull'Adriatico, a volte gli suggeriva le note di una canzone di Elisa dal palco, live, a Monfalcone, odore di porto, gente dell'est, profumo di Carso. Il suo cervello godeva enormemente nell'intrecciare quei segnali sinaptici. Non aveva mai assunto droghe particolari, qualche spinello all'università, ma pensava che a volte il sushi, il sashimi e l'unagi alla griglia sul letto di riso, per non dire il fugu dal fascino proibito potessero essere una vera droga per il cervello di un astronomo triestino formatosi in scuole scientifiche occidentali, e prima ancora nell'atmosfera goliardica della fantasia italiana, nell'assenza più totale di pianificazione, tipica del suo paese. Era forse la predisposizione degli italiani al provarci, il loro innato spirito libero che li rendeva cavie perfette per una full immersion nel pianeta Giappone, offrendo loro motivazioni irresistibili, non fosse altro che per la loro assoluta inconsuetudine. I giapponesi formano gruppo forse più di ogni altra popolazione sulla terra. Conoscono il loro passato, sono coscienti e orgogliosi della forza della loro civiltà, hanno chiaro quanto per il gruppo siano importanti parole come collaborazione e contributo. I giapponesi non cercano la felicità in modelli occidentali effimeri, ma sviluppano le proprie capacità di individuo come membro di una comunità. Stranamente provano, forse per contrasto, una grande ammirazione per gli italiani, così imprevedibili e confusionari. Specie per quegli italiani che sanno resistere alla voglia di prendersi gioco di loro per la loro originalità. Il suo amico Shunichi Nakamura aveva quarantasette anni, e come molti suoi conterranei ne dimostrava dieci in meno. Lavorava da venti anni al NRO, normale da quelle parti entrare e rimanere per una vita nello stesso posto di lavoro. Viveva nella vicina Kofu con sua moglie e i due figli, in un appartamento di settanta metri quadri, due ore da Tokyo, un'ora dall'osservatorio. Ogni giorno si faceva, da vent'anni, due ore di treno. Era considerato uno dei migliori astrofisici giapponesi, e aveva dedicato gli ultimi dieci anni alla ricerca di segnali di vita aliena come contrattista del SETI, un gruppo di visionari indomiti alla ricerca di vita intelligente nello spazio. Dario l'aveva conosciuto per caso durante un viaggio all'osservatorio di Arecibo. Nakamura-san era un tipo incredibile: alto uno e sessanta, magro come un chiodo, cintura nera sia di judo che di karate, ex triathleta semiprofessionista, era un'incarnazione del vero samurai. Gli era piaciuto subito, Shun pensava sempre positivamente, e si erano trovati d'accordo su molte deduzioni relative ai recenti dati raccolti dal telescopio al NRO, per la singolarità del segnale proveniente dalla zona di cielo dello Scorpione, da un ammasso di stelle globulari. Era piuttosto debole, da una distanza di quattrocento anni luce, vi erano ipotesi che potesse provenire da una stella di neutroni pulsante con in orbita lontana del materiale altamente riflettente, ghiaccio secco misto ad isotopi vari. Li aveva incuriositi la sua ripetitività non proprio casuale. L'avevano captato per la prima volta verso la fine di giugno di quell'anno, e in realtà erano i soli che credevano alla sua completa non casualità; i più non pensavano affatto potesse trattarsi di un fenomeno voluto, e lo giudicavano troppo debole e non sufficientemente confermato per potergli prestare attenzione. Dario e Shun l'avevano chiamato babyS, come si chiama chi si appresta ad affrontare una nuova vita, un po’ per divertimento e un po’ per non rivelare troppo un'eventuale notizia che avrebbe stupito il mondo. Dario aveva infine ottenuto il permesso per il viaggio in Giappone, e si era portato tutto il rig del windsurf, un piccolo extra sul biglietto, tavola, vele, albero, boma, per cortesia della JAL.

    Kipasa abitava a Jarvatera, ottantamila abitanti, dieci gradi a nord del Tropico Superiore. Le abitazioni erano tutte basse, bianche, il tetto ricoperto di un materiale ricavato da rocce molto isolanti il calore. Le città ad Amantera erano dei villaggi ben organizzati, a pianta regolare, strade larghe, ampi giardini, cavi interrati, molti specchi d'acqua nel mezzo di boschi e radure. La gente si spostava a piedi o con dei bicicli dotati di motori elettrici alimentati da batterie ricaricabili, o con veicoli a quattro ruote ad energia solare. Quando venivano parcheggiate, dai lati delle auto veniva dispiegata una serie di pannelli solari in tessuto, che una volta aperti ad ombrello e orientati correttamente, riuscivano ad alimentare delle batterie ad alta capacità, progettate per essere annegate in una miscela di materiale sinterizzato ad alta pressione. L'intera carrozzeria del veicolo era in pratica una grande batteria. Gli amanteriani non avevano grandi esigenze, la natura offriva ovunque tutto quello che serviva loro per vivere, e la maggior parte del loro lavoro consisteva nel continuo miglioramento dello sfruttamento delle risorse del pianeta, avendo cura di non alterarne le condizioni bioclimatiche. La sindrome del fare in fretta o dello sbrigarsi era ignota. L'organizzazione produttiva era molto localizzata, e non vi erano necessità particolari che giustificassero il viaggiare: la qualità e la completezza del sistema informatico erano eccellenti. Se proprio fosse servito, volare ad Amantera significava utilizzare aerei biposto in fibra di silicio-carbonio, leggerissimi, con motori elettrici alimentati da batterie distribuite sulla struttura, come per le auto. In realtà tutto e tutti erano ricostruibili in loco grazie a teledigitalizzazioni dell'originale in tempo reale, e questa era di gran lunga la tecnica preferita per conoscere e conoscersi, prima di visitare e incontrarsi. La vita media sul pianeta era di trentacinque anni, di solito subentravano problemi legati alla penetrazione nel corpo di raggi ultravioletti, distruttivi specialmente per la retina e la struttura dell'occhio in generale. Molti degli amanteriani diventavano ciechi all'età di venticinque anni e venivano colpiti da depressione, perdendo interesse per la vita. Nonostante l'elevata tecnologia disponibile sul pianeta, non era ancora stato trovato rimedio alla cecità. Per loro, vissuti quasi continuamente di giorno, su un pianeta che aveva la luce come principale fonte di vita, perdere la vista era un handicap insopportabile. Esistevano appositi centri per il ricovero degli anziani dove essi conducevano vita appartata, assistiti obbligatoriamente e amorevolmente da giovani tra i sette e i nove anni, che contribuivano alla loro assistenza. Kipasa era stato assegnato a Ruwansa, un trentenne cieco che aveva lavorato nel radio-osservatorio più grande di Amantera. Ruwansa era stato responsabile dello sviluppo dei programmi per il riconoscimento di segnali dallo spazio, e aveva svolto lo stesso lavoro per più di quindici anni.

    Come va, Ruwansa? Chiese Kipasa.

    Così. Rispose il vecchio.

    Facciamo un giro? Ho l'auto fuori, o vuoi passeggiare?

    Meglio passeggiare.

    Sai sto registrando una sequenza che mi sta incuriosendo, da più di 250 giorni, prima con il TeDRA e poi col minitelescopio della scuola.

    Che sequenza?

    Non l'ho detto a nessuno ancora, ma vorrei raccontarlo a te.

    Parla.

    Tutto è iniziato quando ero fuori, all'inizio della stagione del buio, per godermi gli sciami di comete della Grande Fontana. Ma quella notte non c'era molta attività, anzi. Improvvisamente, un radiosegnale: aggiustando la sensibilità verso le frequenze che mi sembravano interessanti, tra…

    Quali? Chiese impaziente Ruwansa.

    Da 0.5 a 5 giga oscillazioni per S.

    Hai attivato il programma di riconoscimento della materia?

    Sì.

    E allora?

    I soliti elementi che conosciamo.

    Beh una delle tante esplosioni in giro, distanza?

    Centonovantasei anni luce.

    Stelle da quella parte?

    Sì, con possibili pianeti, una classificata H-He, dimensione piccola, destino gigante rossa tra due miliardi di anni.

    Allineamento con noi?

    Siamo incredibilmente in fase ogni due nostri giorni.

    Hai monitorato la decadenza del segnale?

    Sì, è quello che ho fatto, decadenza prevedibile, ma dopo i primi cinquantasei giorni è avvenuto qualcosa di strano.

    Va bene, hai registrato un evento esplosivo intenso in un sistema planetario remoto, e uno dei pianeti coinvolti gira su se stesso con periodo di due nostri giorni. Beh, sai quanti segnali simili a quello da te registrato ci sono, in giro per lo spazio? Ne avrò individuati e studiati più di cento ogni anno, più di tremila nella mia carriera.

    Sì ma dopo la prima cattura con il TeDRA ho puntato il minitelescopio ogni giorno per molti giorni ormai, come ti stavo dicendo. Ho continuato a ricevere il segnale, affievolito, e per cinquantasei giorni non è successo nulla di particolare. Poi è iniziato un ciclo di sparizione, di lunghezza variabile.

    Di sparizione? Di che?

    Sparisce la frequenza dell'acqua.

    Cosa? Sparisce la frequenza dell'acqua per alcuni giorni?

    Sì Ruwansa, c'è un buco d'acqua per quanto sempre meno percettibile che ho registrato durare per un tempo crescente. Poi la frequenza ricompare, e prima di scomparire nuovamente passano sempre cinquantasei giorni.

    Dunque hai registrato quasi cinque cicli completi finora. Osservò Ruwansa.

    Sì. Mancano due giorni alla fine del ciclo cinquantasei.

    E la sparizione della frequenza dell'acqua dura sempre più a lungo?

    Esatto. Al primo ciclo, ossia dopo i primi cinquantasei giorni, era durata trentaquattro giorni. Al secondo trentotto. Al terzo quarantaquattro. In questo quarto ciclo la sparizione è durata cinquantadue giorni.

    Altre forti esplosioni?

    No, segnale in continuo affievolimento.

    A quando l'inizio del prossimo ciclo?

    Siamo a duecentosettantanove giorni da quando ho puntato il TeDRA la prima volta. Il ciclo dovrebbe finire domani, per questo te ne ho parlato.

    Accendi il TeDRA e chiama il Supremo Wariruna Wasi.

    Viaggiare con il suo rig era come portarsi dietro pezzi di se stesso: il graffio sulla tavola gli ricordava la partenza dallo scivolo dell'hotel Europa, e il neoprene mancante sul boma, come morsicato da un pitbull, rappresentava un arrivo poco fortunato tra gli scogli, vicino a Rovigno. Gli adesivi sull'albero, da quello più scolorito al più recente, gli ricordavano le uscite sul Garda a Torbole, NE Wind Challenge, ‘mazza oh che vento, ‘mazza oh che lago piatto’, forse ne aveva fatti sette, vinti un paio. Viaggiare con il materiale gli dava sicurezza, come quando da bambino si portava dietro l'orsetto. A volte era scaramantico e superstizioso come un’astrologa di San Giorgio a Cremano, a volte logico e quadrato come Carlo Rubbia. Gli piacevano i suoi estremi: si divertiva a confrontare i pareri che i vari personaggi dentro di lui alternativamente gli suggerivano. A volte prendeva decisioni non ponderate, a volte non decideva affatto, questo era il suo problema. Fondamentalmente stava bene in quel mondo alla Carroll di orsetti, windsurf e mountain-bike del quale amava circondarsi. Fare l'astronomo gli piaceva, non era pagato un gran che ma non gliene importava, non aveva una famiglia da mantenere, solo il suo pullmino VW dell'ottantuno, il materiale da surf e quello da MTB, la moto, la villa a Prosecco. Non avrebbe scambiato quelle garanzie di libertà con null'altro al mondo, come non avrebbe cambiato il Golfo e il Carso con nessun altro posto sulla terra. Stranamente durante l’inverno precedente e anche ora, marzo inoltrato, aveva sofferto di mal di gola parecchie volte. Era fastidioso, dopo un paio di giorni si trasformava in raffreddore, il naso colava e non respirava bene. Inoltre, si sentiva un po’ debilitato e questo lo infastidiva parecchio. Il malessere gli ricordava i tempi dell’università, quando fumava anche un pacchetto al giorno di MS, per controllare lo stress. Erano diversi anni che aveva smesso, e dunque non riusciva ad associare quel mal di gola con null’altro. In ufficio l’aria era molto secca e la vicinanza con i computer non migliorava la situazione. Il fatto di dover stare seduto per ore davanti al monitor a programmare nuovi algoritmi per l'identificazione di radiosegnali, controllando ripetutamente le lunghissime registrazioni dai telescopi da tutto il mondo, generava in lui un’incredibile voglia di movimento.

    Era una giornata magnifica, una di quelle in cui la voglia di uscire lo aveva assalito fin dal mattino, appena alzata la tapparella della camera, vista sul Golfo. L’impeto di partire direttamente in bici, attraversare il Carso passando sui sentieri percorsi centinaia di volte, sentendo il ronzio della città lontano, era fortissimo. L’aveva fatto un paio di volte, ma quel giorno avrebbe avuto da fare. Così prese il pullmino VW, caricò la bici. Sperò di non ricevere e-mail che richiedessero risposte urgenti, e cercò di sparire il più velocemente possibile. Uno degli svantaggi dell’avere a che fare contemporaneamente con Est e Ovest del mondo era la non soluzione di continuità temporale dei messaggi da ovunque. A volte ciò gli aveva fatto saltare alcune pause, a malincuore. Scese nel parcheggio, partì verso Opicina. Prendendo la solita stradina sterrata, pensò inevitabilmente a quante volte l’aveva già fatto. Una volta alla settimana, per dieci anni e due mesi, più di cinquecento. Provare e riprovare fatica gli dava sicurezza: l’aspettativa e la gratificazione fisico-emotiva convergevano in un rito quasi mistico. Le difficoltà della vita non lo spaventavano, anzi, ma aveva bisogno assoluto di avere conferme circa la sua condizione, e l’ora e mezza di pedalata era a volte il test richiesto.

    Leggera salita, la frequenza cresce, com’è il quadricipite oggi? Fitta al ginocchio? Dai muoviti che stimoli il liquido sinoviale. Parti lento va, hai mal di gola. Dai che passa. Non ho messo l’attachment nell’ultima mail. Al diavolo anche il nuovo browser, pedala che ti distrai… hai pompato a tre e cinque davanti? Sembra un po’ giù. Non sei sciolto, non devi arrivare al bivio troppo affaticato. Spingi e basta, via i pensieri, zitto, guarda avanti.

    Normalmente dopo una decina di minuti l'isolamento dal mondo era quasi totale. Sentiva il suo respiro, il grimpare sordo e delicato degli artigliati sulle rocce, il fruscio del deragliatore, quando decideva di alleggerire un attimo, al momento giusto, sfruttando la cunetta. La bici ed il windsurf erano strumenti musicali che incantavano melodicamente il mondo interiore di Dario. Sentiva il suo diaframma dilatarsi, e il pedale resistere, per poi cedere sotto la spinta degli estensori. Sentiva tra le mani tutte le asperità di quel terreno inospitale e selvaggio, mentre i suoi avambracci smorzavano le scosse, e gli permettevano di controllare la posizione in sella. Adorava pedalare in salita. Immaginava come ogni kilocaloria consumata richiamasse una nuvoletta di ottanta parti di azoto e venti di ossigeno nel sangue, purificandolo. Ne godeva, pensandoci, e i battiti a centosessanta erano il paradiso della sua coscienza, condotta al limite di una reversibile dissoluzione di consapevolezza. Se la salita era banco di prova per il cardiocircolatorio, la discesa era un test di reattività per lo psicomotorio. Sapeva di dover dare il meglio di sé per giungere senza pedalare fino quella curva, portarsi un po’ in costa, saltare la roccetta, atterrare preciso nel canaletto e fare in bomba la sopraelevata in fondo, speriamo non ci sia fango. L’incognita del terreno faceva parte del divertimento, e gli dava l’eccitazione necessaria per mantenere la concentrazione. Una volta era volato fuori sentiero, finire tra i rovi e sulle rocce della dolina non era simpatico. Quando era caduto era stato per eccesso di sicurezza, era secco da diversi giorni, e non si aspettava difficoltà su quell’appoggio. Gli era balenato il programma di lavoro del pomeriggio, e le conference call, si era proiettato nel dopo bici, aveva saltato la consecutio temporum anziché goderne, ed era caduto. Così niente piedi sul tavolo in ufficio, spalla lussata e ginocchio gonfio, sala d’attesa di ortopedia a Cattinara, uno dei peggiori posti per passare un pomeriggio avendo saltato il pranzo.

    Quel giorno la concentrazione era su di sé e sul suo corpo. Il fastidio alla gola, dilatata dallo sforzo della salita, era quasi dolore. Ogni sobbalzo lo amplificava, e sentiva il pomo d’Adamo pesargli come un sasso. Provò a toccarselo, sembrava normale, se c’era una cosa che odiava era essere condizionato da qualche menomazione fisica durante l’esercizio. Avrebbe dovuto farsi dare un’occhiata da Paolo, otorino e suo ex compagno di classe al liceo. Tornato in ufficio, lo chiamò prenotando una visita.

    Senti un po’…Fumi ancora?

    No, ho smesso vent’anni fa.

    Bevi?

    Ma figurati, qualche birra.

    Estraendo il laringoscopio, Paolo fece una faccia cupa.

    Non va molto bene. Pronunciò quelle parole con aria seria.

    Cosa può essere?

    Non so esattamente, mah… Non vorrei spaventarti…

    Non dirmi altro.

    Dario si fece fare la biopsia una settimana dopo. Dopo un’altra settimana il responso era pronto, ma la faccia di Paolo all'appuntamento per spiegarglielo gli bastò.

    "Allora, giovane, dovresti farti qualche curetta. Avresti un carcinoma maligno nel subglottide. Forse qualche linfonodo colpito. Non molto grande, dicamo per ora sotto controllo. Ma devi iniziare subito: radio e chemio. Sai di cosa parlo, vero? Partiamo da lunedì, due sedute a settimana per cinque settimane. La chemio la fai ogni quindici giorni,

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