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Il Presidente addormentato
Il Presidente addormentato
Il Presidente addormentato
E-book186 pagine2 ore

Il Presidente addormentato

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Info su questo ebook

Per la prima volta nella storia d'Italia, a ricoprire la più alta carica dello Stato è una donna, Anita Bertoli, intellettuale e attivista, figlia di un politico di lungo corso ed ex partigiano scomparso da qualche anno.
La Presidente viene colta da un malore, si accascia sull’ampia scrivania della sua stanza al Quirinale e da lì, pur ancora vigile, non riesce più a muoversi.
Può solo pensare: al rapporto con il padre fatto di una distanza fisica, emotiva e politica mai colmata nel tempo; alla madre, una statunitense venuta in Europa a combattere per la libertà, prima in Spagna e poi in Italia; alla relazione con Aldo, già collaboratore del padre; infine, ai veri motivi della sua candidatura e della successiva elezione a Presidente della Repubblica.
Il Paese si scopre - come lei - del tutto paralizzato: senza la sua approvazione, il Governo non può cominciare a operare, e le altre cariche dello Stato non fanno niente per risolvere la situazione di stallo.
Al suo destino di immobilità è legato quello di un giovane corazziere, incaricato di vegliarla e di vigilare sui visitatori che a poco a poco diradano. In un reparto d’ospedale vuoto e desolato, appena animato dalla presenza di due infermiere, riflette sulla sua vita - piena di rimandi a quella della Presidente - e al senso ultimo del suo ruolo e della sua stessa esistenza: rispettare gli ordini e adempiere al proprio dovere.

LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2018
ISBN9788869344503
Il Presidente addormentato
Autore

Gianni Caria

Gianni Caria (Sassari, 1960), magistrato, è attualmente Procuratore della Repubblica di Sassari. Il suo primo romanzo, La badante di Bucarest (Robin, 2012), ha vinto il Premio Giovani Lettori - Memorial Gaia Di Manici Proietti 2013 a Perugia, con premiazione durante Umbria Libri, e si è classificato al secondo posto come opera menzionata al Premio Primo Romanzo Città di Cuneo 2013, con premiazione durante Scrittori in città.

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    Il Presidente addormentato - Gianni Caria

    Gianni Caria

    Il Presidente addormentato

    Romanzo

    © Bibliotheka Edizioni

    Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma

    tel: +39 06.86390279

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    I edizione, novembre 2018

    Isbn libro 9788869344497

    Isbn ebook 9788869344503

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta

    dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Progetto grafico: pastinadesign | Mara Scanavino

    Disegno di copertina: Eureka3 S.r.l.

    www.eureka3.it

    Gianni Caria

    Gianni Caria (Sassari, 1960), magistrato, è attualmente Procuratore della Repubblica di Sassari.

    Il suo primo romanzo, La badante di Bucarest (Robin, 2012), ha vinto il Premio Giovani Lettori - Memorial Gaia Di Manici Proietti 2013 a Perugia, con premiazione durante Umbria Libri, e si è classificato al secondo posto come opera menzionata al Premio Primo Romanzo Città di Cuneo 2013, con premiazione durante Scrittori in città.

    Mi hanno scelto perché rappresentassi finalmente il rinnovamento, o per avere un paravento che potesse attrarre l’attenzione e prolungare all’infinito questo eterno risiko, per poterlo coprire e giustificare?

    - 1 -

    Il silenzio è d’oro. Non ho mai capito bene questa frase che mia nonna mi ripeteva spesso quando ero un bambino che appena stava in piedi, ma dotato di una chiacchiera infinita, in una casa in cui tutti parlavano poco. All’inizio la prendevo alla lettera, perché la parola di mia nonna era legge, e così anche io parlavo il meno possibile. Ma non capivo come potesse arrivare l’oro stando zitto. Il mio silenzio non si è mai trasformato in oro o in altre ricchezze, ma ora so a che serve. Sono venticinque anni che parlo poco e ho trovato il lavoro che fa per me. Ore e ore di silenzio, a volte nel frastuono più assoluto, io zitto in piedi nella mia bella uniforme. Lo so che tutti mi guardano e si impressionano per la mia statura e la mia immobilità. Quando sono in servizio all’aperto, c’è sempre qualche ragazza che si accosta e pretende di farsi una foto vicino a me, magari con l’autoscatto, come fossi la fontana di Trevi.

    Il silenzio è d’oro e ora mi pesa, perché è silenzio vero. Non è solo il mio impassibile tacere, è che proprio non c’è alcun rumore in questa stanza bianca con un vetro alle mie spalle e una porta aperta al mio sguardo fisso. Solo un ronzio di macchine penetra attraverso il vetro, un sussurro di circuiti elettrici, un pulsare di cuori digitali privo di emozioni.

    Io sto fermo in piedi nella mia posizione di servizio, imparata in tanti mesi di addestramento. La divisa è quella di gran gala e devo sopportare la zavorra della corazza che mi fascia il busto, oltre all’ingombro dell’elmo. Ho imparato nell’addestramento a trasferire il peso del mio corpo dal piede destro a quello sinistro e viceversa, con impercettibili spostamenti che nessun occhio esperto potrà mai vedere. Tranne quello del Comandante, naturalmente, o quello dei marescialli più anziani, che conoscono tutti i trucchi meglio di me. Ho calcolato che posso stare in piedi apparentemente immobile almeno il doppio del tempo con questi movimenti invisibili, da foglia che cresce.

    In questo silenzio vero mi verrebbe il desiderio di girare la testa e sbirciare al di là del vetro. Potrei farlo, dato che non c’è nessuno che guarda dalla porta e non mi sembra di sentire passi, ma il servizio è servizio.

    Quanto durerà questo servizio? Al Comandante non l’ho chiesto. Il silenzio è d’oro. Ma lui deve avere capito qualcosa da un mio battito di ciglia, da un increspare del labbro. Non so quanto durerà. Di sicuro fino a quando non si sveglierà. Mi ha comunicato solo che da un certo punto in poi sarei stato qua per tutto l’orario di apertura della clinica. Dalle sei del mattino alle nove di sera. Non mi ha detto che sarei dovuto rimanere immobile in piedi, ma per me è una cosa scontata: se sono qui con la divisa di gran gala non posso stare in altra maniera. Non qui, non in questo servizio. Però tutte queste ore mi sembrano troppe e mi chiedo se potrò sopportarle.

    Ne sono già passate tre e non è venuto nessun visitatore, solo un’infermiera e un medico che si sono infilati nella stanza dietro di me, oltre il vetro. Avrei voluto guardare mentre aggeggiavano sulle macchine, mentre si davano da fare intorno al corpo. Sono andati via dopo un quarto d’ora, lanciandomi un’occhiata di curiosità. Prima o poi anche loro vorranno farsi fotografare vicino a me.

    Il Presidente dorme da una settimana. È questo il problema: il Presidente si è addormentato e non sappiamo quando si sveglierà. Mi hanno raccontato tutto i miei commilitoni di turno quella mattina al Quirinale. Era nello studio, il viso all’ingiù sulla scrivania, il braccio destro proteso in avanti con ancora nella mano rattrappita la piccola biro argentata. Sulla scrivania un foglio con l’elenco dei nuovi ministri. «Ci credi, c’erano due nomi cancellati con vicino scritto a mano un grande NO – mi ha detto Rais – ma non ho fatto in tempo a vederli, perché il Comandante l’ha fatto sparire mentre soccorrevamo il Presidente.»

    Era stato messo giù sul tappeto, slacciata la camicia bianca, tolte le scarpe. Il medico di turno si era prodigato intorno al Presidente nei due minuti necessari perché arrivassero i barellieri dell’ambulanza. «Subito, alla clinica» aveva detto in un soffio allentandosi il nodo della cravatta, il volto rosso e sudato.

    L’ambulanza era partita veloce, preceduta da due dei nostri con la motocicletta e la sirena. Quattro minuti dal Quirinale alla clinica, non di più, mi hanno poi detto con un certo orgoglio.

    Dicono che qui il Presidente sia stato operato al cervello, ma da quello che vedo io non mi sembra possibile. Il volto è disteso, il profilo del piccolo naso aquilino si staglia con nettezza sullo sfondo della parete bianca. I capelli cadono scomposti sulla fronte e non c’è traccia di fasciature sulla testa. Il corpo è interamente coperto da un lenzuolo verde, ma ne percepisco comunque i contorni e la lunghezza. Quaranta centimetri meno di me, pensai sorridendo la prima volta che vidi il Presidente nella Sala dei Corazzieri. Ci passò in rivista, lo sguardo che si sforzava di essere serio ma che a me pareva divertito. Camminava impettito, con un’andatura frenata. Conosco quell’atteggiamento, l’ho visto in tante parate, un tentativo maldestro di rigore marziale di chi non ha fatto neanche il militare, accenni di rigidi inchini alla bandiera. Questo Presidente mi parve più disinvolto, come se si rendesse conto che in ogni caso da parte sua un passo marziale sarebbe stato improbabile a prescindere. Giusto un leggero arrestarsi, quasi più per godersi la scena che altro.

    Mi piaceva questo Presidente diverso. Quando mi passò davanti notai che la sua testa non arrivava al livello del mio mento. Quaranta centimetri più o meno, pensai, contando che aveva i tacchi più alti dei miei.

    Il Presidente, Anita Bertoli, prima donna a diventare Presidente della Repubblica, dorme là dietro il vetro, alle mie spalle.

    Si era subito posta una questione linguistica. Il Presidente o la Presidente? Certo non toccava a noi dirimere il problema, che con lei praticamente non parlavamo. Tranne quelli che facevano la scorta in borghese, quelli selezionati, i più freddi, i più bravi a entrare in azione. Loro la vedevano tutti i giorni, la accompagnavano fuori, bonificavano il terreno prima del suo passaggio. Non so, forse loro arrivavano ad avere più confidenza.

    Il Presidente, la Presidente. Il Comandante ce l’aveva detto, categorico come sempre: il Presidente è il Presidente, e basta. Come se fosse senza sesso, ho pensato io. Mica hanno questo problema in Vaticano quando fanno il Papa. O in America, che l’articolo è uguale al femminile e al maschile, un po’ di inglese l’ho studiato. Ma neanche loro hanno mai avuto un Presidente donna. Figlio di immigrati sì, ma donna ancora no. Come lo chiameranno i tedeschi?

    Il Comandante era stato categorico, il Presidente e basta. Ma io i giornali li leggo e guardo la tv: qualcuno ha iniziato a chiamarla al femminile e ormai lo fanno tutti.

    Il Comandante è qui da qualche minuto. Guarda attraverso il vetro, si toglie il cappello, passa la mano all’indietro per lisciarsi i capelli e poi lo rimette.

    «Senti – mi dice – non c’è mica bisogno di stare impalato se non c’è nessuno. Le visite saranno poche, giusto quelle istituzionali. Le filtrerà il Segretario Generale e poi il Maresciallo Rao che ti avviserà per tempo; gli ho già detto di chiamarti al telefono e di comunicarti quando arriva qualcuno.»

    Cambio immediatamente postura e mi giro in direzione del vetro.

    Lui si avvia verso l’uscita senza rispondere al mio saluto militare. Sento i passi allontanarsi e mi sfilo l’elmo, appoggiandolo alla sedia.

    - 2 -

    In ordine di comparizione: Presidente del Senato, Presidente della Camera, Presidente del Consiglio. Non so se è anche un ordine d’importanza, non ho mai capito bene chi veramente comanda in Italia.

    Il Presidente del Senato entra nella stanza preceduto da due uomini della scorta – Polizia, li riconosco al volo i cugini – e accompagnato dal direttore sanitario in inclinazione laterale del busto di trenta gradi. Mi trovano già immobile e luccicante. Il Presidente del Senato ha quasi un moto di sorpresa nel vedermi là, a fare un picchetto d’onore a un dormiente.

    Si accosta al vetro e fa il segno della croce, sfiorando nel gesto i risvolti della giacca scura. Rimane per qualche attimo in raccoglimento, il capo abbassato, gli occhiali che riflettono la luce verdina che filtra dalla stanza. Mi pare di cogliere un leggero movimento delle labbra, come se stesse pregando. Il tempo si sospende solo per un minuto, gira sui tacchi e se ne va, con il direttore sanitario ad affannarsi a tenere il passo e l’inclinazione.

    Dopo una mezz’ora ecco il Presidente della Camera seguito dalla scorta e senza direttore sanitario. È più giovane di quello del Senato, anche se la barba gli dà un segno di maturità. Mi guarda appena e va dritto al vetro. Mi stupisce che ci poggi la mano sinistra, il palmo aperto. Si volta verso uno dei ragazzi della scorta e gli dice qualcosa all’orecchio, ricevendo in risposta un cenno di assenso con il capo. Quando si stacca lascia l’alone della sua impronta; rimane fermo ancora un poco, poi infila rapido il corridoio.

    Il Presidente del Consiglio è il più anziano di tutti. È vestito di chiaro e ha radi capelli bianchi. La scorta quasi lo sorregge. Davanti al vetro toglie gli occhiali e si passa una mano magra sul volto. Si commuove, per quello che posso vedere di sghembo. Sta lì pochi secondi, mette entrambe le mani sul vetro come a darsi una spinta per staccarsi e fa per uscire. Poi si arresta, come se avesse dimenticato qualcosa. Si volge verso di me e mi porge la mano. La cosa mi imbarazza perché è contro il regolamento, ma mi sembra educato allungare la mia mano guantata e rispondere al saluto. Se ne va, quasi sorretto dalla scorta.

    Tutto qui, per quella mattina. Nei giorni successivi non viene nessuno. Trascorro le giornate seduto su una poltroncina, in attesa di istruzioni da parte del Maresciallo Rao, in ascolto di eventuali passi in avvicinamento.

    Medici e infermieri vengono spesso, controllano le macchine, sistemano la flebo. Due volte al giorno entrano due infermiere e tirano sul vetro una tenda verde che ostruisce la vista di ciò che accade all’interno. La cosa non mi sorprende, è evidente che devono fare operazioni da sottrarre alla curiosità degli altri, anche del corazziere di guardia. Provo a immaginarle: pulizie, lavaggi, ispezioni nei recessi più intimi.

    Sono sempre le stesse due infermiere. So quando arrivano perché parlano a voce alta in corridoio, raccontandosi fatti personali o di lavoro, due accenti romani che si intrecciano e si amplificano per quelle pareti vuote. Poi sulla porta tacciono, giusto un saluto per me. Tacciono anche dentro, le sentirei se parlassero con lo stesso tono usato poco prima. Ogni tanto un bisbiglio sommesso e frammentato, ma nulla di più. Come se avessero paura di svegliare il Presidente.

    Tutto qui. Non so se il Colonnello o qualche altra autorità stiano facendo un filtro severo per non far entrare nessuno. Non disturbate, il Presidente è addormentato e non sappiamo quando si sveglierà.

    Naturalmente niente giornalisti, ci mancherebbe. Il Colonnello mi ha detto di stare attento agli intrusi, non tanto per motivi di sicurezza quanto per evitare che qualcuno faccia delle foto di nascosto. Per questo il personale che giunge qui, nel punto più isolato dell’ospedale, ha sempre un tesserino appeso al camice. Ho l’elenco dei nomi di quelli autorizzati, ma dopo qualche giorno non ho bisogno di controllare, li riconosco anche solo dalla camminata. Ma che filtro è quello che non fa entrare nessuna autorità, nessun parente, nessun amico?

    - 3 -

    Il sole già basso sbatte sul vetro della finestra, così grande e così piccola per le dimensioni di questa stanza. Devo tenere sempre la luce accesa, anche a mezzogiorno, anche quando fuori i turisti si assiepano per la fotografia di rito davanti all’ingresso del Palazzo. Questa è l’ora più bella, la luce è smorzata dai profili dei caseggiati intorno, dal movimento ondoso delle colline sulle quali hanno messo le loro radici. Mi piace a quest’ora osservare i gruppetti di persone appena uscite dalle Scuderie là davanti godersi gli ultimi raggi nella piazza e mischiare il godimento con quello per la mostra appena visitata. Mi viene voglia di affacciarmi e respirare il fresco di aprile, così carico di promesse di profumi primaverili, non inquinato dal traffico che viene tenuto lontano.

    Mi accontento di aprire un’anta e di rimanere un passo indietro, perché da sotto non mi vedano. Lo so che non si fa. Il Comandante dei Corazzieri mi ha descritto nei minimi particolari come funziona la sicurezza. Parlava come se stesse facendo una conferenza ai suoi sottoposti, con tono neutro e linguaggio appena burocratico. Mi sentivo un po’ scolara, ma questo non mi ha irritato, mi ha perfino divertito.

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