Portanova e il cadavere del prete: Siracusa 1964
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Anteprima del libro
Portanova e il cadavere del prete - Alberto Minnella
Capitolo I
C’è un vecchio adagio siciliano che dice a matinata fa a jurnata
e, in effetti, l’inizio della fine coincise con uno dei miei soliti mal di testa, forti e insurtusi, in una mattina di dicembre cupa e svogliata.
Ad accentuare la cosa fu il bussare insistente della signora Carmela. Scesi dal letto. La camera puzzava di fumo e di stantio. Barcollai a piedi scalzi per il corridoio e raggiunsi la porta.
«Dottore!» disse con voce roca, la sua, e poi entrò.
Ricambiai calandogli la testa, quando già m’aveva superato di fianco, con la sua solita andatura a piccoli passi svelti, il capo leggermente chinato come a guardarsi sempre i piedi e i quotidiani sotto al braccio.
Era stata assunta da Carla, o meglio, m’aveva persuaso lei ad assumerla sul finire di agosto, perché, secondo lei, non ero cosa di mantenere casa.
In realtà, era lì non solo per governare l’appartamento.
Se il fiuto non mi aveva ingannato e a raccomandargliela fu quella cosa antipatica che era la moglie dell’avvocato Musicò, con cui dividevamo il pianerottolo, allora Carmela assurgeva anche da diga contro le attenzioni dell’inquilina del piano di sopra.
Comunque, dal primo giorno di servizio, alle sette e qualche minuto, la signora Carmela tuppuliava ogni giorno a casa Portanova e, senza perdere neanche un secondo, assittava prima la caffettiera sul fuoco, apriva balconi e finestre, consava il letto e poi, per ultimo, s’armava di scopa, secchio, pezze e stracci e riportava la casa in condizioni umane.
Percorsi il corridoio appresso a lei e prima di entrare in bagno mi fermai sull’uscio della cucina e con gli occhi stropicciati dal sonno la guardai: era così minuta che potevo farle da custodia. E se una corporatura piccola e gracile in una donna di una certa età ispira da sé affetto e gentilezza, in lei questa dolcezza era del tutto assente, per via dello sguardo duro che c’aveva e delle labbra che spesso e volentieri a ogni parola si piegavano in una smorfia di amarezza.
Mi staccai da quell’immagine per dirigermi nella stanza di fianco: il bagno.
Sbirciai la mia faccia nello specchio. Chi era quel vecchiaccio che mi guardava? La barba arruffata era più lunga del solito; la peluria rossa, un tempo uniforme, adesso aveva striature bianche sui baffi e sul mento: era il segno che pigghiarisi di collere negli anni aveva avuto il suo effetto.
I capelli, che sembravano diminuire ogni santa mattina, mi davano la sensazione tremenda di essere diventato preciso a mio padre. Con il palmo della mano provai a rassettarli invano. Un gesto ridicolo di vanità che non m’apparteneva.
Sembrava non esserci più traccia del Paolo che conoscevo.
Rimasi lì fermo. Il volto contro lo specchio a fissarmi. Ragionai a malincuore che da quel momento in poi avrei dovuto convivere con la faccia di un altro o, peggio ancora, con la smorfia insopportabile che aveva sempre avuto mio padre. Ma ecco, un secondo dopo, forse suggestionato, forse per autoconvincimento, che riconobbi finalmente il mio solito sguardo malinconico e stropicciato dal sonno, incorniciato da occhiaie evidenti.
Risollevato, poi, mi spostai e provai a svuotare la vescica. Un dolore atroce allo scroto mi costrinse a piegarmi in due. Dopo, un bruciore improvviso e poche e deboli gocce.
Cercai di riprendermi.
«Dottore, ‘u cafè s’arrifridda!» urlò la signora Carmela da dietro la porta.
«Un minuto…» sbraitai.
Tirai su mutande e pigiama. Sputai con un rantolo del catarro e tirai l’acqua.
Tutto quel ragionare a capo di mattina mi aveva già siddiàto oltre misura.
Scrollai le spalle cercando di cominciare la giornata nel miglior modo possibile.
Andai in cucina, dove l’odore sarebbe stato simile a quello della camera da letto, se non fosse stato per il ciauro di caffè, che aveva cancellato pure il ricordo di un pessimo rosso bevuto la sera prima.
M’assittai, versai del caffè, accesi il primo sigaro della giornata e, mentre Carmela stava spazzando in terra, sbirciai su l’Unità
che quel mercoledì 23 titolava LEONE DI NUOVO BATTUTO MALGRADO IL RITIRO DI FANFANI E I VOTI FASCISTI
.
Diedi una sbirciata veloce a pagina 7. Una luminosa Natalie Wood sorrideva guardando dritta in macchina. Immaginai l’istante prima di quello scatto; la calca di curiosi tutti intorno alla Bentley, l’autista affannato che le apriva la portiera, il paparazzo spettinato che in una posa da contorsionista le urlava Signorina Wood!
e infine lei che dal sedile morbido di quell’auto, che a occhio e croce doveva valere quanto vent’anni di stipendio da commissario del sud, senza fare chissà quale sforzo, metteva in mostra le cosce a favore dell’obiettivo, lasciando tutti a bocca aperta. Poco più sotto, si annuncia che la Wertmüller sta girando Questa volta parliamo di uomini, con Nino Manfredi e Luciana Paluzzi.
E mentre giravo a pagina 9 sul Brescia ancora primo e leggevo del Napoli non brillante, ma non in crisi, al piano di sopra Lucia Scollo riprese a cadenzare le mie mattine con il suo giradischi, un Geloso.
La scia di luce lasciata dall’abbaglio di Natalie Wood scomparve, lasciando campo all’immagine della labbra soffici dell’inquilina del piano di sopra.
Fece suonare I want to hold your hand dei Beatles, un brano stupido e insignificante come i suoi esecutori.
Era evidente che, nonostante quello che era successo fra di noi, quella di svegliare tutto il palazzo a suon di musica era diventata un’abitudine irrinunciabile.
Allorché, cercai di non aggiungere anche quella cammurrìa a tutto il resto. Così, dopo aver fatto un bagno caldo, mi vestii in fretta e furia, infilai il giornale nella tasca del cappotto, salutai Carmela e raggiunsi il prima possibile il commissariato Abela.
Fuori il cielo minacciava malanova e al mio arrivo in commissariato, una manciata di giornalisti assediava l’ingresso. Insomma, la solita mala jurnata.
Mi smarcai fra loro, non senza difficoltà, lasciandomi dietro una scia di domande a cui risposi con un secco «Non ho niente da dichiarare», seguito da ripetuti «Ma, commissario... Ma, commissario...».
Salutai Camurro che, cercando di tenere a bada la stampa, mi aiutò a uscire indenne da quella situazione. Urtai il suo berretto che, dato il macello di voci, cadde senza che si sentisse alcun rumore. Quando mi chinai per raccoglierlo, mi sentii chiamare ancora una volta.
«Paolo!»
Alzai la testa che ero ancora chinato sulle ginocchia. Riconobbi quella voce. Era Salvo Tinè, cronista di nera del Giornale Di Sicilia
. Mi stava aspettando all’imbocco delle scale che portavano alla sezione della Mobile.
Era l’unico che avesse il mio lasciapassare.
Negli anni mi ero servito di lui più di una volta, come nel ’59, per acciuffare una banda di ladri di limoni, o nel ’63, per recuperare una cinepresa rubata dal set del film I fidanzati.
Comunque, un paio di giorni addietro, gli dissi di venirmi a trovare in ufficio per cosa urgentissima. E così, eccolo puntuale ad aspettarmi.
«Prima o poi i miei colleghi mi faranno la pelle» disse, stritolando con la para quel che restava della sua sigaretta.
«È il rischio di chi ha questo tipo di privilegi» gli risposi coglionando.
Mi venne incontro e, tendendomi la mano, mi aiutò a rialzarmi. Restituii il berretto a Camurro e feci segno a uno degli agenti in guardiola di aiutarlo, mimando la chiusura immediata del portone. Poi, sottovoce e fra i denti disse: «Privilegio una minchia, Paolo. Mi hai messo in mezzo a un bordello infinito. Mi vuoi morto?»
«Calmati – gli dissi rassettando il nodo alla cravatta – Avevamo già capito dove saremmo finiti. Se non ci muoviamo prima di loro, facciamo la fine del topo. Forza, dimmi, l’hai trovato il nome?»
Mi spinse più in là, dietro a un muro che faceva da angolo cieco a chi guardava dall’ingresso.
Tinè era un uomo a sangue freddo, di quelli che non smussavano le parole per addolcire una notizia con piccole e raffinate bugie e, proprio per questo, spesso veniva cazziato a dovere.
Indossava uno sguardo sicuro, di quelli che con una taliàta ti dicevano «Ora ti scasso io».
Aveva un piccolo difetto ormonale e a farne le spese era la voce, sottile, infantile. Riconoscibilissima.
Anche l’aspetto non era proprio quello di un trentenne, pettinato con la scriminatura da un lato a ricoprire un’incipiente calvizie e la barba che gli cresceva poco e male, circoscritta soltanto sotto al mento e al di sopra delle labbra, che si ostinava a tenere incolta.
Era stato adottato all’orfanotrofio SS. Maria Addolorata di Riposto dai coniugi Tinè, imparentati con i Curto da parte di madre e con i Bottaro dall’altra, due fra le più sanguinarie famiglie siracusane.
Nonostante il pessimo casellario giudiziario della famiglia adottiva, non aveva mai avuto nulla a che fare con l’illecito di certi suoi parenti. Anzi, aveva seguito tutt’altra strada, quella delle parole che per certi versi, in questa terra, era ben più pericolosa di qualsiasi altra. Anche per questo, di lui mi fidavo ciecamente.
Aveva, però, l’arte di ottenere ciò che voleva con prepotenza; forse per osmosi familiare, aiutato dagli occhi di ghiaccio che si ritrovava.
Era un collaboratore perfetto, sia per sapere di più sui Curto e sui Bottaro sia per scoprire cosa succedeva di losco in certe vie d’Ortigia impraticabili anche per un poliziotto come me, in cambio di un paio di bottiglie di vino buono o di una cena come Dio comanda.
Era il nostro modo per estinguere un debito.
«Non mi tiro indietro certo adesso. Tanto so già di essere in pericolo… seriamente. Quindi… » dissi
«Quindi, quindi… Ma tu hai idea di quello che c’è sotto?»
Mi guardai intorno. Dall’ingresso sentivo il portone lamentarsi per lo sforzo di chiudersi.
Presi Tinè per il braccio e gli dissi all’orecchio: «Saliamo da me e ne parliamo meglio.»
«Minchiate, io qui dentro non apro bocca – mi guardò innervosito – Tu ti fidi ancora a stare qua? Vedi che quelli sono ovunque»
Abbassai gli occhi a terra.
Mi allontanai da lui. Ero agitato. Accesi un sigaro e sputai del fumo.
L’osservai appoggiarsi al muro che aveva alle spalle. Sbraitò.
M’elencò le possibili cause della mia morte professionale e non, nel caso in cui avesse parlato. Tirò fuori dalla tasca del cappotto beige, di qualche taglia più grande, un pacchetto di sigarette e ne accese una.
Mi sporsi oltre il muro e vidi ancora Camurro urlare, mentre altri due agenti cercavano di chiudere l’ingresso del commissariato.
Poi, sottovoce gli dissi: «Lo so che è pericoloso, ma non ho… non abbiamo alternative.»
«L’alternativa è che io mi faccio il mestiere mio e tu il tuo. Vai su, in ufficio, ti chiudi la porta alle spalle e ti scordi di tutta questa storia.»
«Resta cosa niura comunque, e lo sai.»
Sganciò le spalle dalla parete e quando mi fu più vicino notai, abbassando la testa di qualche centimetro, ch’era terrorizzato.
Sbuffai.
Sentii una stretta alle palle.
Strizzai gli occhi. Le fitte allo scroto erano sempre più forti e più frequenti.
«Senti, facciamo così – dissi – troviamo un altro posto, uno sicuro e mi conti quello che mi vuoi contare, che dici?»
Mi fissò perplesso. Poi lo vidi sporgersi oltre l’angolo di muro, come a controllare che nessuno ci potesse sentire.
Ansimò.
«E va bene, va bene. Facciamo a casa tua. Se non è sicura la casa di un poliziotto…»
«Perfetto»
«A cena» ribatté.
Annuii.
«E voglio mangiare pesce. Una bella paranza. E del vino. Bianco. Tanto vino bianco. Chiaro?»
E chi la sa fare la paranza, pensai.
«Chiarissimo» risposi e ci stringemmo la mano.
Aggiunsi: «Ma se non ti trovo alle 21 precise a casa mia, quanto è vero iddio che chiamo il Cretino e vendo tutta la storia a lui, così per come la so. E mi salvo il culo da solo»
«No, il Cretino no... avà.»
«E invece, sì!»
Ma lo sapeva pure