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Promettimi che resterai con me
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Promettimi che resterai con me
E-book398 pagine6 ore

Promettimi che resterai con me

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Info su questo ebook

Grayson Hawthorn sta perdendo la speranza. Il destino è stato duro con lui e adesso, con poche risorse e il cuore spezzato, deve trovare il modo di rimettere in piedi l'impresa di famiglia. Il suo proposito sembra destinato al fallimento, fino al giorno in cui una giovane donna entra nel suo ufficio con una proposta stravagante e inaspettata, impossibile da rifiutare. Quello che inizia come un accordo commerciale temporaneo potrebbe diventare presto qualcosa di più. Perché Kira è una ragazza solare e sfacciata, che intende fare del suo meglio per dimostrare a Grayson che nella vita vale sempre la pena correre il rischio di aprire il proprio cuore.

Mia Sheridan
è una scrittrice bestseller di «New York Times», «USA Today» e «Wall Street Journal». La sua passione sono le grandi storie d’amore. Vive a Cincinnati, nell’Ohio, con il marito e quattro figli.
LinguaItaliano
Data di uscita6 set 2019
ISBN9788822737410
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    Anteprima del libro

    Promettimi che resterai con me - Mia Sheridan

    2409

    Titolo originale: Grayson's Vow

    Copyright © 2015 by Mia Sheridan.

    Traduzione dalla lingua inglese di Mariacristina Cesa

    Prima edizione ebook: ottobre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-541-3741-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Mia Sheridan

    Promettimi che resterai con me

    Indice

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    Capitolo venticinque

    Epilogo

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    Bilancia

    Perfino in una vita felice non può mancare il buio e lo stesso aggettivo felice perderebbe di significato se non fosse contrapposto alla tristezza.

    Carl Jung

    Capitolo uno

    Non darti pena, amore mio, l’universo pareggia sempre i conti. I suoi mezzi possono forse essere misteriosi, ma sono sempre giusti.

    Isabelle MacAleese, mia nonna

    Kira

    In una lunga serie di brutte giornate, quella era decisamente la peggiore, ed erano solo le nove del mattino. Uscii dall’auto inspirando a fondo la tiepida aria di fine estate e mi avviai verso la Banca di risparmio di Napa Valley. L’afa mattutina mi avvolgeva, il dolce profumo di gelsomino mi solleticava il naso. Con un sospiro tirai a me la porta a vetri della banca. Quella pacifica bellezza sembrava per certi versi stonata – il mio umore pessimo era in netto contrasto con quella giornata calda e soleggiata. Un po’ presuntuoso da parte mia, suppongo. Come se il meteo dovesse accordarsi al mio umore.

    «Posso aiutarla?», mi chiese una vivace brunetta quando mi avvicinai al suo sportello.

    «Sì», risposi, recuperando dalla borsa la mia carta d’identità e un vecchio libretto di risparmio. «Vorrei chiudere questo conto». Feci scivolare tutto verso l’impiegata, con il lembo della copertina ripiegato a rivelare i numeri inseriti da mia nonna in persona quando mi aveva mostrato come tenere traccia dei nostri versamenti. Mi si strinse il cuore, ma mi sforzai di rivolgerle un sorriso che sperai apparisse allegro, mentre la ragazza prendeva il libretto e cominciava a digitare il numero del conto. Ripensai al giorno in cui l’avevamo aperto. Avevo dieci anni e mia nonna mi aveva accompagnato lì a depositare tutta orgogliosa i cinquanta dollari che mi aveva dato per averla aiutata durante l’estate con il giardino. Negli anni c’eravamo andate più volte quando dormivo a casa sua, a Napa. Mi aveva insegnato il vero valore del denaro – che doveva essere condiviso e utilizzato per aiutare gli altri, ma che rappresentava anche una forma di libertà. Il fatto che al momento fossi al verde, a corto di opzioni e che tutto ciò che possedevo si trovasse nel portabagagli della macchina era la prova di quanto avesse avuto ragione. Ero tutt’altro che libera.

    «Duemilaquarantasette dollari e sedici centesimi», disse la cassiera, alzando gli occhi su di me. Annuii. Era perfino un po’ di più di quanto avessi sperato. Bene. Era una buona cosa. Mi serviva fino all’ultimo centesimo. Con un lento respiro profondo, congiunsi le mani sul bancone e aspettai che l’impiegata contasse il denaro.

    Una volta messi i soldi al sicuro nella borsa e chiuso il conto, le augurai buona giornata e mi avviai all’uscita, fermandomi a bere alla fontanella.

    Mentre l’acqua mi rinfrescava la bocca, udii una voce nell’ufficio proprio dietro l’angolo. «Grayson Hawthorn, piacere di conoscerla». Mi bloccai, poi mi raddrizzai lentamente asciugandomi l’acqua dal labbro inferiore con un dito. Grayson Hawthorn… Grayson Hawthorn? Conoscevo quel nome, ne ricordavo il suono deciso, il modo in cui quel giorno nell’ufficio di mio padre l’avevo sussurrato più volte tra me e me. Ricordai di aver guardato di sfuggita la documentazione che mio padre aveva richiuso mentre appoggiavo il vassoio del caffè sulla sua scrivania. Che fosse proprio quel Grayson Hawthorn?

    Sbirciai dietro l’angolo, ma vidi che la porta era chiusa, con una tendina a oscurare il vetro. Mi avviai al gabinetto proprio di fronte all’ufficio occupato da Grayson Hawthorn.

    Una volta dentro, chiusi la porta e mi appoggiai al muro. Neanche sapevo che abitasse a Napa. Il processo si era svolto a San Francisco, quindi il reato doveva essere stato commesso lì – non sapevo neppure di che genere di crimine si trattasse, soltanto che mio padre se n’era brevemente interessato… Mi morsi il labbro, fissandomi allo specchio mentre mi lavavo le mani.

    Aprii piano la porta e rimasi lì, nel vano tentativo di ascoltare la conversazione nella stanza di fronte ma, di nuovo, non riuscii a cogliere altro che voci ovattate. All’improvviso, sentii che l’ufficio si riapriva e sbirciando vidi entrare un altro uomo in giacca e cravatta, probabilmente un dirigente della banca. Si richiuse la porta alle spalle, che però non scattò e rimase accostata, consentendomi di cogliere qualche parola delle presentazioni. In piedi sulla soglia del bagno, cercai di origliare.

    Sul serio, Kira, è una cosa da spiona, dovresti vergognarti. Violazione della privacy. E, peggio ancora, praticamente senza scopo. Davvero, ma che ti prende? Mi sporsi ancora in avanti.

    Avrei escluso quel momento non proprio edificante dalle mie memorie. Non era necessario che qualcun altro lo sapesse, a parte me.

    Captai solo poche parole: «Mi dispiace… pregiudicato… non possiamo dare… questa banca… purtroppo…». Pregiudicato? Doveva essere proprio quel Grayson Hawthorn. Che strana coincidenza. Non sapevo niente di lui, a parte il nome, che era stato accusato di un qualche reato e che mio padre ne aveva fatto una sua pedina. Un dettaglio che Grayson Hawthorn e io avevamo in comune. Non che mio padre si sarebbe ricordato di lui, data la sua abitudine a rovinare la vita della gente senza troppi rimorsi. In ogni caso, perché me ne stavo chiusa in un bagno a cercare di origliare una conversazione privata? A parte certo per il fatto che la curiosità era uno dei miei più incorreggibili difetti. Inspirai a fondo e feci per uscire, ma mi bloccai quando udii una sedia grattare il pavimento. Le parole che mi giunsero dal corridoio erano molto più chiare ora che la porta era aperta per bene. «Siamo spiacenti di non poterle accordare il prestito, signor Hawthorn». Il tono dell’uomo era di rammarico. «Se avesse qualcosa di più…».

    Un’altra voce, quella di Grayson, presumevo, lo interruppe. «Capisco. Grazie per il suo tempo, signor Gellar».

    Vidi di sfuggita un uomo alto, nero di capelli, in completo grigio e mi richiusi di nuovo in bagno a lavarmi le mani, per perdere un po’ di tempo prima di andare via. Passando davanti all’ufficio in cui era stato Grayson Hawthorn, gettai uno sguardo all’interno e vidi un uomo seduto alla scrivania in giacca e cravatta, concentrato a scrivere qualcosa. Quello in completo grigio doveva essere Grayson Hawthorn e, a quanto pareva, aveva già lasciato la banca.

    Uscii nell’abbagliante luce estiva e salii sulla mia auto parcheggiata proprio all’inizio della strada. Restai lì per un minuto, a fissare semplicemente fuori dal finestrino il pittoresco centro cittadino: tende linde e pulite adornavano l’esterno dei negozi e grandi vasche di fiori colorati decoravano i marciapiedi. Amavo quella città. Era lì che aveva vissuto mia nonna, lì che avevo trascorso le estati nella casetta con il grande portico su Seminary Street. Ovunque girassi lo sguardo la vedevo, sentivo la sua voce, percepivo il suo spirito caldo e vibrante. Oggi può essere una bruttissima giornata, ma domani potrebbe essere la migliore della tua vita. Devi solo resistere finché non ci arrivi, amava sempre ripetere.

    Inspirai a fondo una lunga boccata d’aria, facendo del mio meglio per scrollarmi di dosso la solitudine. Oh, nonna, se solo ci fossi tu. Mi prenderesti tra le braccia e mi diresti che tutto si sistemerà. Ed essendo tu a dirmelo, ci crederei.

    Chiusi gli occhi e mi appoggiai al sedile, sussurrando: «Aiutami, nonna, mi sento persa. Ho bisogno di te. Dammi un segno. Dimmi cosa fare. Ti prego!». Le lacrime che avevo tenuto a bada per così tanto tempo mi bruciarono gli occhi, minacciando di scendere.

    Riaprii le palpebre e un movimento nello specchietto dal lato del passeggero richiamò immediatamente la mia attenzione. Quando mi voltai, vidi un uomo alto, ben piazzato, in completo grigio: Grayson Hawthorn. Sussultai appena e per un attimo trattenni il fiato. Se ne stava accanto all’edificio proprio dietro alla mia macchina, posizione perfetta da cui poterlo guardare senza spostarmi. Sprofondai leggermente sul sedile, girandomi indietro quel tanto che bastava per osservarlo.

    Aveva la testa all’indietro, proprio come me, appoggiata contro il muro, gli occhi chiusi e l’espressione sofferente. E mio Dio… toglieva il fiato. Aveva gli splendidi lineamenti cesellati di un cavaliere in armatura scintillante e capelli scurissimi, quasi neri, lunghi quel tanto da arricciarglisi sul collo. Erano le labbra, però, a essere veramente devastanti: piene e sensuali, facevano venire voglia di ammirarle all’infinito. Strizzai gli occhi per cogliere fino all’ultimo dettaglio del suo viso, approfittando di quella vicinanza, per poi dedicarmi al resto della sua figura. Il corpo confermava la sua tenebrosa e splendida virilità: muscoloso e aggraziato, spalle larghe e vita stretta.

    Oh, Kira. Non hai tempo per star qui a occhieggiare bellissimi pregiudicati sul marciapiede. Hai problemi leggermente più pressanti. Sei senza casa e be’, onestamente, disperata. Se vuoi concentrarti su qualcosa, concentrati su questo. Mi morsi il labbro, incapace di staccare gli occhi da lui. Chissà di quale reato si era macchiato, mi chiesi di nuovo. Cercai di guardare altrove, ma c’era qualcosa in lui che mi attirava. E non era solo la suggestiva bellezza a farmi indugiare con lo sguardo. C’era qualcosa di familiare nella sua espressione: trasmetteva le stesse emozioni che provavo anch’io in quel preciso momento.

    Se avesse qualcosa di più…

    «Sei disperato anche tu, Grayson Hawthorn?», mormorai tra me e me. Perché?

    Mentre lo osservavo raddrizzò il collo e si massaggiò le tempie, guardandosi intorno. Una donna gli passò davanti e si girò a guardarlo, facendogli una radiografia. Lui non sembrò notarla e, per sua fortuna, la donna si voltò appena in tempo per evitare di andare a sbattere contro un palo della luce. Ridacchiai piano. Grayson aveva di nuovo lo sguardo perso nel vuoto. Mentre lo osservavo, un uomo che chiaramente viveva per la strada, camminò in quella direzione con il cappello teso verso i passanti. Tutti si affrettarono a evitarlo, distogliendo gli occhi a disagio. Quando raggiunse Grayson, contrassi le labbra. Mi dispiace, vecchio mio, a quanto pare ti stai avvicinando a un uomo con l’acqua alla gola come te. Con mia grande sorpresa, invece, quando il senzatetto gli si avvicinò cauto, Grayson mise una mano in tasca e, con un solo attimo di esitazione, prese le banconote. Non potevo averne la certezza da quella distanza, ma dando una sbirciata all’interno scuro del suo portafoglio, mi sembrò che lo svuotasse a favore del vecchio vestito di stracci. L’uomo si profuse in ringraziamenti, ai quali Grayson rispose con un semplice cenno del capo, restando poi per un attimo a guardarlo andar via. Infine, si avviò in direzione opposta e sparì dietro l’angolo.

    Guarda sempre quello che le persone fanno quando pensano di non essere viste. È così che saprai chi sono veramente, amore mio.

    Le parole di mia nonna mi riecheggiarono nella mente come se le avesse pronunciate fuori dalla mia macchina. L’acuto squillo del cellulare mi fece sussultare e annaspai, afferrando la borsa dal sedile del passeggero per frugarvi dentro in cerca del telefono.

    Kimberly.

    «Ciao», sussurrai.

    Attimo di silenzio. «Kira? Perché sussurri?», stava sussurrando anche lei.

    Mi schiarii la gola e tornai ad appoggiarmi al sedile. «Scusa, il telefono mi ha colto alla sprovvista. Sono in macchina, a Napa».

    «Sei riuscita a chiudere il conto?»

    «Sì. Avevo un paio di migliaia di dollari».

    «Ehi, è fantastico! Almeno è qualcosa, no?».

    Sospirai. «Sì, mi aiuteranno ad andare avanti per un po’».

    In sottofondo udii le risate dei bambini e Kimberly che li zittiva, coprendo il microfono e parlando in spagnolo prima di tornare da me. «Il mio divano è sempre qui, se vuoi».

    «Lo so, grazie, Kimmy». Non potevo fare una cosa simile alla mia migliore amica, però. Lei e suo marito Andy stavano già stretti nel piccolo appartamento di San Francisco, con i loro gemelli di quattro anni. Kimberly era rimasta incinta a diciotto anni, poi aveva avuto la scioccante notizia di aspettare due gemelli. Il loro matrimonio aveva sconfitto ogni pronostico fino a quel momento, ma non avevano avuto vita facile. L’ultima cosa di cui avevano bisogno per mettere alla prova la famiglia era la loro amica senzatetto che dormiva sul divano. Senzatetto. Ero una senzatetto.

    Inspirai profondamente. «Sto mettendo a punto un piano, però», dissi, mordendomi il labbro con una sorta di determinazione che aveva sostituito la disperazione provata tutta la mattina. Nella mente mi balenò la figura di Grayson Hawthorn. «Kimmy, hai mai avuto la sensazione di… avere un percorso tracciato davanti a te? Cioè, chiaro come il sole?».

    Kimberly rimase un attimo in silenzio. «Oh, no. No. Conosco quel tono di voce. Significa che stai architettando qualcosa da cui cercherò – probabilmente invano – di farti desistere. Non starai mica prendendo in considerazione di mettere un annuncio online per cercare marito, vero? Perché…».

    «No», la interruppi. «Non proprio, comunque».

    Kimberly gemette. «Hai un’altra delle tue Pessime Idee improvvisate, vero? Qualcosa di totalmente ridicolo e molto probabilmente pericoloso».

    Sorrisi, nonostante tutto. «Ah, smettila, quelle che tu definisci sempre pessime idee raramente sono ridicole e meno che mai pericolose».

    «Quando volevi mettere in commercio la tua maschera per il viso interamente naturale fatta con le erbe del tuo giardino?».

    Sorrisi, conoscevo il suo gioco. «Quella? Be’, la formula c’era quasi. Mancava un soffio. Se la mia cavia non avesse…».

    «Mi hai fatto diventare la faccia verde e mi è rimasta così per un’intera settimana. La settimana della foto di classe, tra l’altro».

    Risi piano. «Ok, bene, quella volta non ha funzionato, ma avevamo dieci anni».

    «E quella volta che siamo sgattaiolate fuori di casa per andare alla festa di Carter Scott a sedici anni?»

    «Avrebbe funzionato se…», mi difesi.

    «Ci sono voluti i pompieri per tirarmi giù dal tetto di casa tua».

    «Sei sempre stata una fifona», sogghignai.

    «E quando sei tornata dal college per le vacanze e hai dato una cena a tema orientale dove dovevamo indossare il kimono e ci hai quasi avvelenati tutti?»

    «Ho sbagliato un ingrediente. Come facevo a sapere che occorreva una licenza per cucinare quel pesce in particolare? E comunque è stato secoli fa».

    «Due anni fa», cercò di restare impassibile, ma colsi il sorriso nella sua voce.

    Ora ridevo proprio. «Ok, sapientona, hai chiarito la tua posizione. E, nonostante tutto, mi ami comunque».

    «Sì», sospirò. «Non posso fare altrimenti. «Non si può non amarti».

    «Be’, questo è discutibile, immagino».

    «No», affermò decisa. «Non lo è. Tuo padre è uno stronzo, ma tanto già sai come la penso. E, tesoro, dovete parlare di cosa è successo. È passato un anno. Lo so che sei appena tornata, ma dovete…».

    Mi morsi il labbro e scossi la testa, anche se non poteva vederlo all’altro capo della linea. «Non ancora», la interruppi con gentilezza. «E grazie per avermi fatto fare due risate. Sul serio, però, Kim, sono davvero nei guai in questo momento. Forse una Pessima Idea è proprio quello che mi serve». Non riuscii a impedire alla mia voce di incrinarsi, a fine frase. Kimberly riusciva sempre a risollevarmi lo spirito, ma ero davvero spaventata.

    «Lo so, Kira», mi disse in tono dolce e comprensivo. «E, purtroppo, se sei determinata a non rivolgerti a nessuno dei contatti di tuo padre, dovrai trovarti un lavoro da cameriera fino a quando non capirai cosa c’è da fare».

    Sospirai. «Forse, ma davvero vorresti che abbia lontanamente a che fare con la preparazione del cibo?»

    «Giusta osservazione», percepii di nuovo il sorriso nella sua voce. «Comunque, qualsiasi cosa decidi, saremo sempre Kira e Kimmy Kats, ok? Per la vita. Siamo una squadra», disse, riferendosi al nome della band che avevo messo su a dodici anni per andare a cantare agli angoli delle strade e tirare su un po’ di soldi. Avevo visto in

    TV

    un sevizio sui bambini in Africa che non avevano da mangiare, ma mio padre non mi avrebbe mai dato i soldi per adottarne uno a distanza. Alla fine, ci beccarono a sgattaiolare fuori casa nei costumi inappropriati che avevo approntato con cartoncino e scotch. Mio padre mi mise in castigo per un mese e la madre di Kimberly, che viveva a casa nostra a capo dei domestici, mi diede i ventidue dollari che mi servivano per pagare cibo e studi a Khotso quel mese e, da allora in poi, ogni mese in cui non riuscivo a mettere insieme la cifra necessaria.

    «Per sempre», dissi. «Ti voglio bene, Kimmy Kat».

    «Ti voglio bene Kira Kat. Ora però devo andare. I bambini sono fuori controllo». Sentii le sonore risate e gli strilli di Levi e Micah risuonare in sottofondo su uno scalpiccio di piedini. «Basta correre, bambini! E basta gridare!», gridò a sua volta Kimberly allontanando per qualche secondo il telefono dalla bocca. «Sei a posto per stanotte?»

    «Sì sto bene. Penso di poter anche spendere e spandere, trovarmi un alberghetto qui a Napa e fare due passi lungo il fiume. Mi fa sentire vicino a mia nonna». Non accennai al fatto che quella stessa mattina avevo infilato la mia roba in valigia in fretta e furia ed ero uscita dalla scala antincendio dell’appartamento pagato da mio padre, proprio mentre lui urlava e bussava con forza contro la porta d’ingresso. E che in quel momento, la suddetta roba era stipata nel portabagagli della mia macchina. Kimberly si sarebbe solo preoccupata e, per il momento, avevo abbastanza denaro e una mezza, e verosimilmente pessima, idea che mi frullava per la testa.

    E nella mia illustre storia di Pessime Idee, quella vinceva su tutte.

    Naturalmente avrei fatto un’accurata ricerca prima di prendere una decisione finale. E una lista di pro e contro – mi aiutava sempre a vedere le cose con più chiarezza. E quella cosa in particolare richiedeva estrema cura.

    Kimberly sospirò. «Che Dio l’abbia in gloria. Tua nonna era una donna fantastica».

    «Sì, è vero», concordai. «Dai un bacio ai bambini da parte mia. Ci sentiamo domani».

    «Ok, a domani, allora. E, Kira, sono davvero felice che tu sia tornata. Mi sei mancata tantissimo».

    «Mi sei mancata anche tu. Ciao, Kimberly».

    Riagganciai e restai seduta in macchina qualche altro minuto. Poi ripresi il telefono per fare una piccola indagine via Internet e trovare un hotel alla mia portata.

    Capitolo due

    Grayson

    «La pompa non si può aggiustare, signore, va sostituita».

    Imprecai a bassa voce e riposi la chiave inglese nella cassetta degli attrezzi, tirandomi su. José aveva ragione. Mi asciugai il sudore dalla fronte con il braccio e annuii, appoggiandomi a quell’apparecchiatura inutile, l’ennesima cosa che andava aggiustata o sostituita.

    José mi guardò comprensivo. «Ho rimesso in funzione la diraspatrice, però. È come nuova, almeno credo», disse.

    «Be’, questa è una buona notizia», risposi, prendendo la cassetta degli attrezzi che mi ero portato dietro. Una piccolissima buona notizia da aggiungere alla lunga lista di quelle cattive. Eppure, al punto in cui ero, mi sarei accontentato del possibile. «Grazie, José. Ora sistemo».

    José annuì. «Novità dalla banca, signore?», mi fermai, ma senza voltarmi.

    «Mi hanno negato il prestito». Dato che José non rispose, continuai a camminare. Riuscivo praticamente a sentire il suo sguardo deluso bucarmi la schiena. Avevo giurato di mandare avanti l’azienda vinicola di famiglia e non c’era cosa più importante al mondo per me, ma José aveva una famiglia da sfamare, l’ultimo arrivato aveva solo qualche settimana. Se avessi fallito, non sarei stato l’unico senza lavoro.

    Se avesse qualcosa di più…

    Serrai la mascella perché quelle parole mi avevano punto sul vivo, e sottintendevano che il valore di cui ero carente non fosse solo finanziario. E mi ricordavano che non valevo poi molto.

    Se avesse qualcosa di più…

    Se, ovviamente.

    Con quel potente se e quattro quarti di dollaro, mi sarei potuto comprare qualcosa del menù a un dollaro di McDonald’s.

    Nella vita ero passato per più se di quanti potessi contarne. Era una perdita di tempo inutile quanto dolorosa.

    E non mi servivano certo altri motivi per disprezzarmi.

    Scacciai via quei pensieri, però. Stavo pericolosamente scivolando verso l’autocommiserazione e sapevo per esperienza personale che era un buco nero da cui era difficile risalire, una volta che ci eri caduto dentro. Feci invece lo sforzo deliberato di tenere a bada la disperazione attingendo alla freddezza che mi consentiva di continuare a fare ciò che c’era da fare.

    Alla fine, ricordai a me stesso, per mio padre valevo qualcosa. E avevo giurato di non deluderlo – non stavolta.

    Il sole del tardo pomeriggio era ancora alto quando uscii all’aperto, nell’aria gravida del profumo di rose che la mia matrigna aveva piantato tanti anni prima e del pigro ronzio di un’ape nelle vicinanze. Mi fermai a controllare filari e filari di uva che maturava sui tralci, il petto gonfio di orgoglio. Sarebbe stata un’ottima vendemmia, me lo sentivo nelle ossa. E questo mi avrebbe dato la spinta necessaria, per quel giorno, anche se in autunno mi sarebbero serviti macchinari funzionanti per poter mettere a frutto il raccolto. Avevo venduto tutti gli oggetti di valore nella casa di famiglia per piantare quelle viti…

    Pochi minuti dopo entrai in casa, una costruzione in pietra edificata da mio padre e arredata con una gran quantità di accessori vintage e del Vecchio Mondo. A quei tempi aveva fatto la sua figura, ma ormai aveva bisogno di innumerevoli interventi, proprio come i macchinari per la produzione di vino. Interventi che non avevo i mezzi per finanziare.

    «La pompa non si può aggiustare».

    Digrignai i denti mentre Walter, il maggiordomo di famiglia diventato factotum, mi salutava. «Così pare».

    «Ho predisposto uno schema di tutti i macchinari che hanno bisogno di riparazioni e di quelli da sostituire, assegnando un colore diverso a ciascuno in base alla priorità». Proprio ciò che mi serviva: una rappresentazione grafica della mia situazione disperata. Smisi di frugare tra la posta sul tavolino all’ingresso. «Mi fai anche da segretario adesso, Walter?»

    «Qualcuno deve pur farlo. Gestire questo posto è un impegno troppo gravoso per una sola persona, signore».

    «Posso farti una domanda, Walter?»

    «Sì, signore».

    «Hai predisposto anche una lista dei modi in cui potrei pagare tutti questi codici di priorità che vanno riparati o sostituiti?».

    Walter scosse il capo. «No, signore. Non mi viene in mente niente che non sia già venuto in mente anche a lei. Ma spero che la mia lista le torni comunque utile».

    «Nemmeno un po’, Walter», dissi mentre imboccavo la scalinata principale. «E ti ho già detto un milione di volte di evitare di darmi del lei e chiamarmi signore. Mi conosci da quando ero bambino». Per non parlare del fatto che non meritavo quel titolo. Walter valeva tre volte me e di sicuro ne era ben conscio. Tuttavia, sapevo anche che non avrebbe mai rinunciato al suo comportamento professionale. Walter Popplewell era inglese e viveva con la nostra famiglia da più di trent’anni.

    Walter si schiarì la voce. «C’è qualcuno che l’attende, signore».

    Mi voltai. «Chi è?»

    «Una persona…», Walter fece un altro colpetto di tosse, «che cerca lavoro, signore».

    Alzai gli occhi al cielo. Oh, Gesù. «Va bene, fallo entrare che me ne libero subito. Ma che razza di stupido viene a cercare lavoro qui?».

    Walter fece un gesto con la mano verso la cucina, dove sentii Charlotte, sua moglie nonché mia governante, che rideva con qualcuno.

    Entrai e vidi un uomo seduto al grosso tavolo di legno, con un piatto di biscotti davanti. Quando mi vide, scattò in piedi e, nel farlo, urtò il piatto che si frantumò a terra in mille pezzi.

    «Santo cielo!», esclamò Charlotte, accorrendo dal bancone dove stava versando un bicchiere di latte. «Non preoccuparti, Virgil. Parla con il signor Hawthorn, ci penso io a pulire. Non preoccuparti minimamente».

    L’uomo che mi trovai di fronte era molto alto e robusto, arrivava quasi a due metri, e aveva un’espressione spaventata sul viso tondo, mentre passava lo sguardo da me al piatto rotto.

    Gli andai incontro con la mano tesa. «Grayson Hawthorn».I suoi occhi saettarono verso la mia mano. Titubante, me la strinse e quando alla fine mi guardò, capii dagli occhi innocenti che aveva un lieve ritardo mentale.

    Buon Dio.

    «Mi chiamo Virgil Potter, signor Hawthorn, Grayson, signore». Mi lasciò la mano e abbassò lo sguardo timidamente, osservando con un leggero tremito Charlotte che spazzava via cocci e biscotti. Poi tornò a guardare me. «Come il mago, signore, solo che io non ho una cicatrice sulla fronte. Ne ho una sulla schiena, però, di quando una volta mi sono avvicinato troppo al termosifone elettrico e…».

    «Cosa posso fare per lei, signor Potter?»

    «Oh, non c’è bisogno che mi dia del lei, signore, mi chiami Virgil».

    «Va bene, Virgil».

    Charlotte, inginocchiata sul pavimento, mi lanciò un’occhiata tagliente, ma la ignorai e tornai a guardare Virgil. L’uomo esitava, spostando il peso da un piede all’altro; guardò di nuovo Charlotte che gli sorrise e annuì. Si tolse in fretta il berretto da baseball e lo tenne stretto tra le mani enormi. «Speravo, signore… ho bisogno di un lavoro, signore, e pensavo di poter fare qualcosa per lei. In città ho sentito dire che ha un sacco di difficoltà a mandare avanti la produzione di vino e ho pensato di darle una mano. E mi basterebbe poco, come vede non sono sveglio come tanti altri. Posso lavorare però, sono un gran lavoratore, mia mamma me lo dice sempre. E posso darmi da fare per lei».

    Sospirai. Proprio quello di cui avevo bisogno. A malapena riuscivo a pagare lo staff che avevo ora – che era già molto meno di quanto mi servisse, ma il massimo che potessi permettermi; non era rimasto nessun altro e non potevo assumere nuove persone. Tanto meno un uomo che avrei dovuto tenere sotto stretta sorveglianza, senza dubbio. «Virgil», dissi per mandarlo via, ma mi interruppe.

    «Vede, signore, mamma non può più andare a fare le pulizie nelle case per via della schiena che è ridotta male. E se non lavoro io non avremo abbastanza denaro. E so di poter lavorare, se qualcuno me ne dà la possibilità».

    Buon Dio. Lanciai la mia peggiore occhiata di ghiaccio a Charlotte, che colse il mio sguardo mentre si alzava per andare a svuotare la paletta che aveva in mano. C’era lei dietro. Cosa le era venuto in mente? Una volta fallito questo posto, sia lei che Walter si sarebbero ritrovati senza lavoro. Chiusi gli occhi per un secondo, poi li riaprii. «Virgil, mi dispiace, ma io…».

    «Lo so che probabilmente pensa che non abbia molto da offrire, a guardarmi, ma ce l’ho. So di valere qualcosa, signore. Posso lavorare per lei». I suoi grandi occhi fanciulleschi erano pieni di speranza.

    Se avesse qualcosa di più…

    I cocci del piatto risuonarono forte nel secchio e guardai di nuovo Charlotte, che continuava ad avere gli occhi fissi su di me. Strinsi le labbra.

    Se avesse qualcosa di più…

    «Va bene, Virgil, sei assunto», dissi, sempre guardando Charlotte, le cui labbra si curvarono in un piccolo sorriso. Quando infine tornai a concentrarmi su Virgil, i suoi occhi erano colmi di gioia. Alzai una mano, come se potessi ridurne l’intensità con un solo gesto. «Ma non posso pagarti molto e ci sarà un periodo di prova, ok? A volte lavoriamo anche con il buio e non mi sembra di aver visto automobili qui fuori. Ho delle brande giù al laboratorio, puoi dormire lì se ne hai bisogno. Un mese e vediamo come va». Sempre che tra un mese l’azienda sia ancora in piedi.

    Virgil annuì con entusiasmo, strapazzando quel povero berretto tra le mani tanto da renderlo probabilmente inutilizzabile. «Non se ne pentirà, signore, non la farò pentire. Sono un gran lavoratore».

    «Va bene, Virgil. Torna domani mattina per firmare i documenti e porta la carta d’identità. Alle nove, ok?».

    Virgil non aveva ancora smesso di annuire. «Ci sarò, signore, anche prima. Arrivo alle sette».

    «Va bene alle nove, Virgil. E chiamami Grayson».

    «Ok, signore, Grayson, signore. Alle nove. Ok».

    Virgil si girò, grosso e goffo, sorrise e salutò con un gesto Charlotte, poi si fiondò fuori dalla cucina, probabilmente per paura che potessi cambiare idea. Rimasi in silenzio alla finestra, a guardarlo arrancare di corsa lungo il mio viale, diretto all’enorme cancello di ferro battuto al limite della proprietà. Imprecai tra me e me per la centesima volta quel giorno e scoccai a Charlotte un’altra occhiata glaciale. «Se non ti conoscessi, penserei che stai cercando di sabotarmi dall’interno».

    «Invece mi conosci, ragazzo mio. Ho sempre tifato per il tuo successo». Feci un verso di scherno.

    Charlotte mi sorrise e prese a canticchiare davanti al lavello.

    Mi voltai senza dire altro e andai a fare la doccia. Quella sera, anche se non era mia abitudine, mi sarei ubriacato fino allo stordimento.

    ***

    Il mattino seguente il sole entrava dalle finestre inondando l’ingresso di luce dorata, mentre scendevo le scale. Era fin troppo presto, dato che ero rientrato solo da poche ore. Trasalii schermandomi gli occhi dal chiarore intenso. Mi martellava la testa. Me l’ero cercata, sicuramente, ma, almeno per una notte, avevo annegato i miei problemi nell’alcol e, quindi, ne era valsa la pena. Lavoravo dall’alba al tramonto quasi tutti i giorni e non bastava comunque. E dopo la mattina precedente in banca… be’, mi ero meritato una nottata di oblio alcolico. Non si può sempre sopportare tutto.

    «Gray, caro, c’è una persona che vuole vederti. Buongiorno», mi sorrise Charlotte quando arrivai in fondo alle scale. «Oh», si accigliò, «sei uno straccio».

    Ignorai quell’ultimo commento. «Chi è adesso?», chiesi. Così di prima mattina? Cosa c’era di così urgente da non poter aspettare un orario decente? Era appena passata l’alba. E mi sentivo uno schifo. «Suppongo qualcun altro in cerca di lavoro. Magari senza braccia?».

    Charlotte si limitò a sorridere. «Non penso che cerchi lavoro, ma non le ho chiesto di cosa si tratti. E ha sia braccia che gambe. Ti aspetta nello studio».

    «Una donna?»

    «Sì, giovane. Ha detto di chiamarsi Kira. È molto carina», mi strizzò l’occhio. Ok, be’, forse non era il modo peggiore di cominciare la giornata. A meno che non fosse una con cui ero andato a letto… e di cui probabilmente non mi sarei ricordato.

    Buttai giù un paio di Tylenol e presi

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