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Il diritto di uccidere
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E-book308 pagine4 ore

Il diritto di uccidere

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Info su questo ebook

Ancora Milano, ancora delitti, ma, soprattutto, ancora Riccardo Bencivenga e Giandomenico Modugno, rispettivamente poliziotto e criminologo, già protagonisti del romanzo "Nessuno deve sapere" (2019). I due scavezzacollo, amici fin dall'infanzia, hanno ormai avviato una propria agenzia investigativa. Il questore Pasquale De Luca ha però un nuovo caso da sottoporgli. Giuliano Di Natale, figlio di un ex senatore, ha ricevuto una mail alquanto preoccupante: "Il tuo tempo è arrivato. Ora tocca a te". Ben presto, i due abili investigatori si rendono conto che questo non è altro che il terzo atto di un dramma iniziato anni prima, con due omicidi che seguivano lo stesso canovaccio. Con "Il diritto di uccidere" Michele Ieri ci trascina nuovamente in un'indagine appassionante, approfondendo ancora di più la personalità dei due protagonisti, fra auto d'epoca e amore per la musica leggera... -
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2022
ISBN9788728429426
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    Anteprima del libro

    Il diritto di uccidere - Michele Ieri

    Il diritto di uccidere

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2022, 2022 Michele Ieri and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728429426

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Ai miei figli Alessandro, Nora e Mirco

    Ciò che si fa per amore è sempre al di là del bene e del male.

    Friedrich Nietzsche

    UNO

    13 Giugno 2019 Milano

    L’ALTRO

    I l cancello scuro era appena accostato, tanto che da lontano sembrava ancora chiuso. Una sola persona, camminando, ascoltava i suoi passi che scricchiolavano sul ghiaino del viale, leggermente in salita. Da entrambi i lati due filari di cipressi adulti dalla chioma stretta e compatta restavano dritti, immobili e in silenzio. Era un mattino lattiginoso di foschia, non tanto fitta da poter essere chiamata nebbia ma neanche così lieve da non farsi notare. Nell’aria, umide gocce d’acqua restavano sospese come se un invisibile paracadute le poggiasse dolcemente sulle cose. In una mano teneva un fascio di rose bianche dal gambo corto avvolte in un foglio di giornale e nell’altra una borsa a tracolla di pelle marrone, che tratteneva perché non ondeggiasse. Era una borsa vissuta, in certi punti consunta, con la chiusura di metallo quasi opaca e due orecchie a sventola di cuoio all’altezza della cerniera, che il sole e la pioggia avevano schiarito.

    Non c’era ancora nessuno in giro, ma era giorno da poco ed era domenica. Il viale dopo il cancello d’ingresso aveva, da un lato, una piccola costruzione bassa, regno del custode, poi si restringeva un po’ e, proseguendo, diventava pianeggiante, infine dopo alcuni metri proponeva una scelta: continuare dritto, girare a destra o a sinistra, in altri due viali ancora più stretti che portavano a delle scale di pietra, in salita. La persona continuò a camminare senza voltarsi, come chi conosce bene la strada, giunse nei pressi di un edificio bianco e basso, con ingresso e uscita ma senza porte, lo attraversò e raggiunse uno spiazzo, alla sinistra del quale si apriva una piccola collina di tombe, tutte all’aperto, separate tra loro solo da minuscoli corridoi attraverso i quali passava a stento una singola persona. C’erano in terra, di tanto in tanto, piccole grate per lo scolo dell’acqua o della pioggia. Tutto era in leggera pendenza.

    – Non sono riuscito a venire ieri, credimi è stato un giorno davvero complicato, ma ti ho pensato, come sempre. In ogni caso siamo a buon punto, tra un po’ sarà tutto finito e finalmente anche io potrò riposare.

    Mentre parlava, prese il vaso di metallo con dei fiori ancora freschi e bianchi, li tirò fuori dall’acqua e li gettò in un bidone aperto da cui proveniva un odore dolciastro, poi andò verso la fontana, fece scorrere dell’acqua fresca e sistemò le rose, riposizionando il vaso dov’era prima. Tirò fuori uno straccio e spolverò la pietra chiara fin sulla piccola cappella con la foto e l’iscrizione delle date, ripose tutto in una busta di plastica e poi nella borsa, che poggiò su un lato della tomba, infine si sedette ai piedi della sepoltura.

    – All’ultimo, quando mi sono presentato ho detto: mi riconosce? Perché dovrei?, ha risposto lui – e io odio, lo sai, chi risponde con un’altra domanda. Poi, come se facesse mente locale, ha chiesto turbato, o forse sorpreso Ma da dove è entrato lei? Questa è proprietà privata, lo sa?

    Lo so bene, ma non ha risposto alla mia domanda, ho chiarito con voce calma, lui ha continuato Cosa accidenti fa con dei guanti, una felpa col cappuccio tirato su con questo caldo e questa ridicola maschera sul viso? A volte mi stupisco della mancanza di comprensione del genere umano, della casualità della sua fortuna e di come spesso la vita decida di premiare i peggiori.

    Veniamo a noi, mi piacerebbe tu potessi vedere che giornata magnifica è oggi. Intanto il cielo è di un azzurro speciale e senza una nuvola, c’è un leggero vento che rende piacevole questa mattina, non c’è quasi nessuno in giro. Voglio dire, ci sono poche persone. La gente non sa cosa si perde non vivendo le prime ore di luce. Ecco cosa c’è di diverso dal solito, un profumo di primavera nell’aria che non sentivo da tempo. Per la prima volta quest’anno ho rivisto delle api volteggiare e posarsi sui fiori, facendo continue tappe. Mi meraviglia sempre il pensiero che esseri così piccini siano così industriosi e utili, e anche che sappiano fare tante cose. Sarà anche che mi piace il miele, la pappa reale e adoro le candele. Sorrise.

    – Oggi ho spedito la nuova mail.

    DUE

    15 Giugno Napoli

    GIANDO

    G iugno a Napoli aveva un’aria dolce. Ero seduto a un tavolino del Gambrinus con un grande caffè nero e amaro e una frolla tagliata in due, perché intera mi cade sempre qualcosa e il pezzetto che cade e non mangio è sempre il più saporito. Avevo il sole di lato, che illuminava il colonnato della chiesa di San Francesco e il Palazzo Reale di fronte. Era presto e c’era poca gente in giro, ma non sarebbe stato così ancora a lungo. Mentre stiravo le braccia allargandole, pensavo che sarei andato a Posillipo a fare un bagno al Regina Elena, ma con calma, era ancora presto. Clara era a Como, c’era un sacco di lavoro al negozio dello zio, mi aveva detto. Peggio per lei.

    Qui a piazza del Plebiscito, mio padre mi racconta che negli anni Settanta era tutto un parcheggio di auto. Uno scempio. Incredibile, non riesco neanche a immaginarlo. Ora per fortuna se ti fermi per più di un minuto ti portano via insieme all’auto, e comunque poche macchine hanno accesso alla piazza, perché via Roma e via Chiaia adesso sono praticamente soltanto pedonali. Quasi quasi, pensavo chiedo a Lucio, uno dei camerieri, se mi passa uno dei giornali che sono sui tavoli all’interno. O forse è meglio di no, guardo un po’ di gente e non mi incazzo. Mentre mi perdevo in queste amenità mentali, mi passò davanti una gonna di jeans, altezza guarda chi c’è sotto. Due gambe snelle e abbronzate, la proprietaria si girò a guardarmi, mi sorrise e anche io le sorrisi. Mai essere scortesi in questi casi.

    Lo squillo del telefono mi aggredì di colpo. L’oggetto in questione sembrava indiavolato e camminava sul tavolino come se avesse assunto all’improvviso una vita propria. Mi toccò prenderlo prima che cadesse.

    Avevo dimenticato di togliere la vibrazione quando avevo rimesso la suoneria. L’immagine di Pasquale col vestito color castoro compare a tutto schermo con il suo ghigno famelico.

    – Pronto, chi è?

    – Perché fai sempre lo stronzo, lo sai bene chi è, visto che nel telefono compaio con il vestito marrone e con la canzone di Mario Merola, O’ zappatore. A proposito, la devi cambiare.

    – Me l’hai già detto, poi vediamo.

    – Ascoltami bene, ci vediamo alle due in ufficio da me, ho già avvertito Ric, ti ha chiamato?

    – No, ascolta…

    – No, ascolta tu, non fare le solite domande del cazzo. Alle due da me, okay?

    – Okay niente, sto a Napoli.

    – E allora, prendi il primo aereo e vieni direttamente in ufficio da me.

    – Alle due di domani. Forse.

    – Non mi fare incazzare Giando, alza il culo e ci vediamo tutti e tre alle due in ufficio, stop. È una cosa seria. Devi venire mò.

    – Almeno una domanda fammela fare…

    – Avanti spara ma fai presto, che ho da fare.

    – Da quanto tempo Rosaria non te la dà.

    – Ma vattenne affanculo Giandomè. Alle due da me.

    Mentre sconsolato poggiavo il telefono sul tavolino, risquillò.

    – Ciao Ric. Sì mi ha chiamato. Sempre infoiato come al solito. Ma tu lo sapevi che stavo dai miei.

    La voce di Ric mi arrivava un po’ disturbata: – Gliel’ho detto, ma ha insistito che è urgente. Allora gli ho detto chiamalo tu. Io sono in giro per Milano, sbrigo un paio di cose, forse vado in palestra e poi direttamente da lui. Ci vediamo lì.

    – Ma non avevi detto che andavi qualche giorno in Trentino?

    – Ci ho ripensato, mi scoccia muovermi. Ho preferito restare a Milano, ci sono un sacco di mostre e diversi cineforum all’aperto con titoli interessanti…

    – Figurati quante pippe ti puoi fare. Pronto, pronto? – Passarono alcuni secondi prima che Ric dicesse semplicemente – Sì.

    – Ho fatto una battuta, e fattela una risata…

    – Perché? – risponde Ric laconico.

    – Hai ragione, tu non ridi mai…

    – No io rido, sei tu che come comico non vali un cazzo, ci vediamo più tardi. – E riattaccò.

    Non pensate che dopo tutti questi vai di qua e vai di là ci sia acredine fra noi, vi sembrerà strano, ma è il nostro modo di volerci bene.

    Da qualche parte arrivava Jè te vurria vasa’, forse dalla galleria Umberto, ma non capivo se fosse un disco o qualcuno che cantava dal vivo. Se era così, cantava veramente bene.

    Finì in fretta di mangiare la sfogliata e di bere la goccia finale di caffè rimasto sul fondo della tazzina. Era quasi freddo, ma è il più buono, e dopo aver raccolto telefono e chiavi, mi alzai, salutando i ragazzi del bar. Feci tutta via Chiaia a piedi fin sotto il ponte, dove presi l’ascensore per salire a Monte di Dio, la zona dove si trova la casa dei miei.

    Mentre cominciavo a sistemare la valigia e telefonavo all’agenzia di viaggi per prenotare un posto sul primo volo, mia madre mi chiese: – Che fai, te ne vai? Così all’improvviso? – Mio padre, ormai in pensione, tornando dalla spesa invece domandò: – Quando torni? – Dopo qualche secondo, pensai che queste domande sono assurde, perché era evidente che se preparavo lo zaino in fretta e furia cercando di non dimenticare nulla non mi preparavo certo ad andare al mare. E sul quando torni, ah saperlo, saperlo, come diceva Pazzaglia. In ogni caso, spiegata la cosa, mio padre mi accompagnò in aeroporto, mentre convincevo mia madre che non potevo portare con me barattoli di cibo, seppure di facile sistemazione e in una scatola. Presi anche il regalo che i nonni avevano fatto a Lorenzo, che era impacchettato ma dalla forma si vedeva che era una Ferrari. L’agenzia mi aveva mandato la mail col biglietto aereo sul telefonino. Ma quanto cazzo costavano i biglietti comprati all’ultimo momento! Pensavo: Arriverò alla mezza a Malpensa e mi toccherà anche noleggiare una macchina per arrivare da Pasquale in tempo. Se prendo un taxi pago forse di più, pensavo, ma mi resta in testa l’enigma. Potrei farmi riaccompagnare al ritorno da Clara o semplicemente tornare a casa con Ric. Boh, ci penserò durante il volo. Dovevo fare un bagno a Posillipo, come sempre da programma, e invece fra un po’ sarò in aereo di ritorno a Milano.

    Le cose improvvise sono anche eccitanti, direi adrenaliniche, perché in un attimo ti trovi dove un’ora prima non avresti neppure immaginato di stare. È fin da piccolo che adoro ricevere sorprese, ovviamente non tutte. Cercate di capirmi.

    In volo sopra le nuvole, con un cielo sereno intorno a me e un sole da paradiso, in silenzio ascoltavo Perdere l’amore di Massimo Ranieri a tutto volume, come piace a me, e pensavo che a Lorenzo avrei voluto insegnare proprio questo, a spezzare le ali al suo destino, se fosse stato necessario, frase che Massimo cantava disperato per l’amor perduto e che mi piaceva un sacco.

    Mi piaceva un sacco anche tornare a Milano, che amo moltissimo – pensai dopo un istante – anche se è del tutto diversa dalla mia città, e nel momento in cui lo pensai, pensai che fosse una cazzata, come dire: mi piacciono le brune o le bionde, le rosse o le donne con gli occhi verdi? Mi piacciono le donne che mi fanno sangue, qualunque sia il colore, la provenienza o la lingua. Milano mi faceva sangue e per questo era anche la mia città. Mi venne da ridere. Avevo gli occhi chiusi, stavo volando e pensavo di avere la testa tra le nuvole. Ric, a ragione, avrebbe detto: sei veramente un pirla.

    TRE

    16 Giugno Milano

    RIC

    U scire dalla palestra di viale Umbria con una giornata così, con questi colori e questo soffio di vento fresco era uno sballo. Dentro non c’era nessuno, quella mattina, tranne un ragazzo al sacco, che non poteva avere più di vent’anni e un fisico minuto ma molto ben fatto. Lui non lo sapeva, ma io lo conoscevo, nel senso che Tommy me ne aveva parlato come uno di grandi prospettive, se riusciva a non perdere la testa. È la mia punta di diamante – diceva Tommy – e farà i campionati italiani tra i professionisti nei pesi medi, categoria superaffollata. Secondo Tommy sarebbe diventato un campione, ma andava sgrezzato di corpo e di mente.

    – Ciao fra’, Tommy non c’è, mi ha detto di dirti se mi alleni un po’. Una mezz’ora dopo che hai fatto ginnastica e ti sei riscaldato, altrimenti devo fare tutto da solo, ma sticazzi. Ti va? – E assunse un’aria interrogativa.

    Lo guardai e pensai: ma come accidenti parlano i ragazzi? – Ok mi riscaldo un po’ e arrivo – e pensai anche che se lo legnavo, dopo mi sarei fatto due risate con Tommy. Aveva detto che doveva migliorare nella guardia, ma che aveva un pugno veloce e preciso, purtroppo ancora poco potente. Lo avrei visto. Lo sentì ancora armeggiare al sacco mentre io, come al solito, cominciavo con la corda. Mi stavo riscaldando da meno di un’ora e il ragazzino ricomparve, ronzandomi intorno.

    – Allora?

    – Bevo un attimo. – Gli dissi mentre mi passavo l’asciugamano in faccia e addosso.

    – A proposito, come ti chiami?

    – Fouad.

    – Da dove vieni?

    – Tunisi, ma sono arrivato qui da piccolo. Mio padre fa il muratore e abitiamo vicino Baggio… Brò io quando posso vado con lui e mi guadagno la giornata.

    – Ma adesso non prendi qualcosa dalla federazione?

    – Solo un piccolo rimborso spese. Però sono cittadino italiano da un anno e quindi spero di entrare nell’esercito e di avere uno stipendio. Per me anche domani ci metterei la firma.

    – Potendo scegliere, per quale paese vorresti batterti?

    – Onesto… per l’Italia. La Tunisia neanche me la ricordo e poi frà… La gente da là se ne va, perciò… Mi sono rotto il cazzo della miseria, del razzismo e sticazzi… Voglio diventare ricco, avere una bella casa, una bella macchina, e una bella moglie italiana. Frà, la miseria puzza… l’Italia profuma.

    Salimmo sul ring con i caschi d’allenamento e cominciammo a studiarci. Dopo qualche minuto facemmo sul serio tutti e due, senza dircelo e senza fermarci. Io non sapevo perché ci stessimo accanendo così e forse neanche Fouad, voglio dire, non in maniera consapevole. Nessuno dei due aveva una ragione precisa. A pescare nel pozzo dell’anima con un secchio, saliva tanta di quella merda che non si sapeva nemmeno di averne tanta in conserva.

    Fouad era mobile, veloce e preciso, secondo me aveva già una buona tecnica e molta testa che sapeva dove voleva arrivare. Ogni suo colpo faceva parte di un piano che prevedeva un due e un tre… Ma la cosa davvero impressionante era la mobilità di gambe e la precisione. Aveva ragione Tommy, sembrava un predestinato nonostante la giovane età. Aveva la rabbia e l’intelligenza giusta, si vedeva dagli occhi, capiva un attimo prima la situazione e padroneggiava il ring, dandomi l’impressione di fregarsene dell’avversario. Era sfrontato, sportivamente parlando, ma non sbruffone. Mi piaceva questo ragazzo.

    Alzai la mano dopo un po’ in segno di resa e lui abbassò la guardia. – Ovviamente non sono un coach, ma ti dico che ha ragione Tommy, sei bravo.

    – Minchia frà, tu sei bravo, supercazzo frollo… Ti dico io che se tu non fossi vecchietto avresti davvero dei numeri stisticazzi – e si piegò respirando forte. Io lo guardai sudando come una fontana e gli sorrisi, lui mi si avvicinò e mi abbracciò mormorandomi – Onore a te. Sarai uno dei miei, frà, davvero! – e batté i suoi guantoni sui miei.

    – E comunque ho trentacinque anni e mi chiamo Riccardo Bencivenga.

    – Fouad Chetali. – E mi porse la mano ancora fasciata – Mi prometti che mi allenerai qualche altra volta?

    – Affare fatto.

    Raggiunsi il Duetto e aprii la capote, che dal solito lato faceva condensa anche d’estate. Allungai una mano, era umida. Avrei mai capito da cosa dipendeva? Avevo consultato già tre carrozzieri, ma senza successo. È vecchia, andrebbe sostituita questa capote, le spider prima o poi hanno questo problema, prenda un tettuccio rigido così risolve, eccetera eccetera. Accesi la radio, RTL trasmetteva Se telefonando di Mina, la cantai tutta, poi misi una raccolta dei Talking Heads, avevo voglia di sentire Psycho Killer e di cantarla a squarciagola. Per fortuna non invitavo mai nessuno ad ascoltare le mie performance.

    QUATTRO

    GIANDO

    A lla fine lasciai scegliere a una moneta. Testa o croce. Uscì croce, vinse il taxi, perse invece testa, cioè noleggiare un’auto. Il viaggio a Como durò circa tre quarti d’ora e mi alleggerì di ottantasette euro, ma solo perché non era notte, altrimenti avrei dovuto aggiungere il sovraprezzo del viaggio notturno.

    Non erano ancora le quattordici, mi affacciai nel negozio di bici sotto la Questura, facendo capolino dalla porta d’ingresso. Clara era intenta a montare due pedali a una bici nuova.

    – Sorpresa?

    – Ovviamente no, è passato un uccellino con un Duetto rosso, è venuto a salutare e mi ha erudito.

    Clara si avvicinò sorridendo. Aveva indosso un vestitino corto e nero sbottonato sul davanti, a mostrare la base del seno e lo spazio tra le due gemelle. Molto sexy era il colore leggermente ambrato della sua pelle dopo aver preso un po’ di sole, e la pelle liscia e soda delle cosce fino agli splendidi piedi nudi. Mi salì sulle scarpe, profumava di buono e di sé, sorrise ancora poggiando la fronte sulla mia, e mi chiuse la bocca semiaperta con un morso.

    – Dopo, quando hai finito, ti porto a casa… ma la mia. Ti devo fare un po’ male, mi disse, scatenandomi un ormone imbizzarrito. Mi toccò lì e mormorò – Bene, sento che sei contento di vedermi. Buon segno.

    Si staccò prendendomi la mano – Come stanno i tuoi?

    – Bene, mi hanno chiesto come mai non sei venuta giù con me, ti mandano i loro saluti.

    La strinsi di spalle e le baciai un orecchio.

    – Allora ti aspetto.

    – Ok vado su e dopo, quando ho finito, resto fino alla chiusura e torno a Milano con te. La tua proposta è buona – continuai strizzando l’occhio – magari per strada prendiamo qualcosa di pronto da mangiare.

    Andai di sopra. Per le scale c’era un certo viavai di gente in borghese e di agenti in divisa. Giù, nello spazio antistante la Questura, diverse auto della Polizia e il Duetto di Ric. Sarà successo qualcosa? – mi chiesi.

    Bussai alla porta della stanza di Pasquale, in fondo al corridoio del primo piano, a sinistra. Avevo il fiatone perché l’ascensore era occupato e comunque in genere non lo prendo quasi mai. Bussai ed entrai senza aspettare. Sapevano che ero io perché nessuno fu sorpreso nel vedermi. Ric era in piedi alla finestra con un bicchiere d’acqua con bollicine e il sentore di limone, ultima trovata di Packy. Doppio distributore d’acqua fresca con termometro esterno per la temperatura, uno pieno di acqua liscia e l’altro, appunto, come detto.

    Packy era nel pieno della ricarica di uno dei suoi pezzi pregiati. Montblanc stilografica edizione John Fitzgerald Kennedy 1960, solito panno per lucidatura e doppio inchiostro aperto sulla scrivania, colori nero e rosso sangue. Indossava una camicia di taglio sartoriale con le sue iniziali, bianca e ben stirata, con le maniche lunghe ma sbottonate, e credo indossasse un completo estivo blu oceano, che intravedevo mentre era seduto, sbirciando la giacca sistemata sulla spalliera della sua poltrona. Non vedevo le scarpe, immagino fossero appoggiate da qualche parte, e aveva una cravatta annodata da dio. Magari sembrerà una presa per il culo, ma non lo è affatto, veramente bella sul rosso… e annodata benissimo. E se dico veramente bella, credetemi. Regnava un silenzio solido, intendo che si poteva affettare.

    – Oè… ma cos’è questo mortorio. Allegria, è arrivato il sole di Napoli! – Dissi quasi urlando, un po’ da cazzone.

    Pasquale, senza alzare la testa dalla sua penna, urlò: – È arrivato l’arrotino…

    – Pasquà – gli risposi – ma com’è possibile che le tue battute non fanno mai ridere. Ci vuole un’arte.

    – Assettate và.

    – Ok, prendo un po’ d’acqua come quella di Ric – e andai verso il distributore frizzante.

    Ric si era già seduto a un piccolo tavolo – riunioni tondo, capienza non più di quattro, poco distante dalla finestra, ultima idea del capo. La stanza del questore immaginatela piuttosto grande. Mi accomodai anch’io e dopo qualche secondo anche Pasquale ci raggiunse, lasciando insoluto il dubbio amletico inchiostro rosso o inchiostro nero. Anche la penna era rimasta sulla scrivania.

    – Prima di cominciare ogni discorso – esordì il questore dai baffi curati – questi sono due assegni separati. È l’acconto. Sono firmati e intestati a voi due, nel caso accettaste l’incarico. Alla fine, verrete saldati con un altro assegno, il cui importo sarà il doppio dell’acconto. È tutto chiaro?

    Presi in mano uno dei due assegni e vidi che la cifra era di tutto rispetto. Il mio amico sembrava distratto o poco interessato, come perso in altri pensieri.

    – Chi ci incarica e per cosa? – dissi senza fare troppi giri di parole.

    – Un vecchio uomo politico ormai ritiratosi da tempo, ma che in passato ha avuto un certo rilievo anche su scala nazionale: il senatore Ortensio Di Natale, che peraltro non è mai assurto alle cronache per scandali o notizie pruriginose. Un uomo serio e competente. È stato, se non lo ricordate, in molte commissioni parlamentari relative all’economia e al lavoro del paese, poiché quello è ciò di cui è esperto, essendo un economista. Non mi chiedete adesso se sia un keynesiano o un seguace della Duflo o non so di chi altro. Ha bisogno di voi. Che volete fare? – concluse Pasquale.

    – Capisci che non ci hai ancora detto di che cosa si tratta – entrò in gioco Ric. – Fretta, fretta e poi non vai al sodo.

    – Allora, ecco qua il sodo – fece Pasquale mostrandoci una foto su Whatsapp che ritraeva una mail.

    Il tuo tempo è arrivato. Tu sarai il primo.

    Pasquale notò la nostra aria interrogativa e proseguì – Vi ricordate, era il luglio del 2016. Ve lo dico con precisione… – inforcò gli occhiali per leggere e prese un foglio – 21 luglio 2016. Un uomo di 37 anni, Guglielmo

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