Fumo, bevo e mangio molta carne
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Un libro controcorrente! In un mondo ossessionato dal “vivere sano”, un grido di protesta di chi vuole mangiare, bere e fumare quanto e come gli pare, anzi come una volta. Una requisitoria serrata contro talebani della salute, ciarlatani dell’ambientalismo e animalisti demagoghi. Un elogio del vizio che induce a riflettere sulle declinazioni oggi più acclarate di bene – il nostro e quello degli altri – e sulle crociate intraprese per raggiungerlo. Un modo di intendere certi piaceri come l’irrinunciabile ricompensa per la nostra breve vita. Ma soprattutto un caldo invito alla tolleranza. Perché se «il seme del vizio è diffuso, il frutto della tolleranza è raro».
Pierangelo Dacrema
Pierangelo Dacrema è professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari all’Università della Calabria. Ha insegnato nelle Università di Bergamo, di Siena, alla Cattolica, alla Bocconi e alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Oltre a numerosi libri di carattere accademico, ha pubblicato Il miracolo dei soldi. Come nascono, dove vanno, come si moltiplicano (Etas-RCS, 2010) La crisi della fiducia. Le colpe del rating nel crollo della finanza globale (Etas-RCS, 2008), La dittatura del PIL (Marsilio, 2007), Trattato di economia in breve. Frammenti di filosofia del gesto (Rubbettino, 2005), La morte del denaro. Una rivoluzione possibile (Christian Marinotti, 2003). È padre di quattro figli, di cui i primi tre sono studenti universitari.
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Anteprima del libro
Fumo, bevo e mangio molta carne - Pierangelo Dacrema
Fumo, bevo
e mangio molta carne
Buoni pensieri e cattive abitudini
Dice un mio amico che la vita è una malattia trasmissibile sessualmente e dall’esito sicuramente infausto. Anch’io la penso così, e per questo ho sempre creduto che ciascuno avesse il diritto di consolarsi come vuole.
Io, per esempio, bevo senza ritegno, fumo un numero imprecisato di sigarette, mangio troppo, soprattutto carne. Ma da qualche tempo mi sento in ansia, e non per la mia salute. Per la verità so perfettamente che mi gioverebbe uno stile di vita più misurato: meno grassi e proteine, meno alcol, meno nicotina. Ma i danni che possono infliggermi alcune sostanze nocive non sono la ragione della mia preoccupazione, certo non quella principale.
Sulla base di circostanze concrete e provabili – e quindi non solo sull’onda di qualche astrazione o di altri ragionamenti più o meno teorici –, io dovrei sentirmi un individuo immorale, profondamente immorale, non dico immondo ma quasi. Facessi del male solo a me stesso, pazienza. Ma in mille modi mi comunicano che nuoccio anche agli altri e che danneggio il pianeta, ciò che si configura come un peccato imprescrittibile. L’oltraggio alla terra è un atto esecrabile. È sputare nel piatto in cui mangio e in cui mangiano gli altri, inquinare il pasto degli invitati attuali e quello dei commensali futuri. In queste condizioni, parlare di senso di colpa è un eufemismo. Ed è un sentimento d’appartenenza al consorzio umano che mi suggerisce di guardarmi come un pessimo esemplare della specie.
Per la verità, una percezione non dissimile – e forse non meno illuminante – mi aiuta anche a vedere le cose in modo diverso. Mi suggerisce di tener conto di come io sia piccolo e fragile, a differenza del pianeta che mi ospita. La terra se la caverà, sono portato a pensare. Che male potrei mai arrecare io, così debole e insignificante, a un’entità tanto più vigorosa e sovrastante?
A volte, tuttavia, mi sorge il dubbio che sia un modo di ragionare misero e meschino. La società infatti non esita a trattarmi come un reietto: c’è chi dice che sei un pericolo per te stesso, chi per gli altri, chi si limita a far notare la sgradevolezza della tua presenza.
Il problema è che fumo e bevo, di brutto, e offro spesso uno spettacolo indecente di me stesso. Per di più mangio altri animali, e dimostro con questo la mia natura di uomo prepotente, arrogante, forse anche poco intelligente.
Mi sembra che esistano gli estremi per trattare la questione come un problema etico. Una volta affrontato il quale, con tutta l’attenzione che richiede, avrò qualche elemento in più per capire se devo considerarmi un individuo immorale o più o meno normale. E quindi anche per appurare se mi trovo nella condizione di dover tacere, chinare il capo e accettare una pubblica condanna, oppure in quella di poter invocare una maggiore tolleranza.
Pericoli sociali, questioni morali
Era bella Lauren Bacall. Lo era sempre, oggettivamente. Ma quando fumava diventava irresistibile. Purtroppo si tratta solo di un ricordo: non si fuma più sullo schermo, né sul grande né sul piccolo, a prescindere dalla qualità di pellicole e programmi. E non è l’unico rimpianto.
Nei film di Hitchcock si beveva a ogni ora del giorno. In Via col vento è un Rhett Butler ubriaco fradicio quello che decide di tornare a possedere sua moglie dopo un lungo periodo di astinenza. E all’affascinante ma smorfiosa Rossella O’Hara pare non dispiacere affatto la circostanza che l’alcol le abbia improvvisamente (e provvidenzialmente) disinibito il marito. Nel grande cinema del passato, anche nelle commedie più romantiche di Billy Wilder, potevano sbronzarsi un po’ tutti, uomini e donne. Si poteva anche esagerare. L’uomo ombra ebbe un successo mondiale: protagonisti della serie William Powell e Myrna Loy, una coppia felice e spregiudicata, allegramente e stabilmente etilica.
La cinematografia di oggi è costellata di morti brutalmente ammazzati ma, al tempo stesso, è molto sensibile all’imperativo di non proporre immagini diseducative. Il pubblico va tutelato, soprattutto quello televisivo. In televisione non si fuma e non si beve, rigorosamente. In compenso dilaga l’insulsaggine, una sarabanda di femmine discinte suscita un più che legittimo entusiasmo, un certo tipo di turpiloquio è benvenuto e ritenuto benefico per l’audience. In televisione scoppiano le risse, si grida, ci si insulta, si litiga furiosamente, quasi ci si picchia. E poi si ride, sempre, sguaiatamente. Ma non si beve e non si fuma, rigorosamente.
Intanto gli arbitri dell’eleganza femminile insistono sull’ideale della bellezza anoressica. Da tempo le forme polpose della pur mitica Marilyn non sono più di moda, non sufficientemente dinamiche e fibrose, e forse non è più abbastanza emblematica neanche la sua fine prematura, dovuta a banalissimi problemi psichici e non a cause più moderne, come per esempio un’alimentazione sbagliata. Belli e aitanti, sodi, solidi e prestanti, lucidi d’oli odorosi, sorridenti e muscolosi: apparentemente virili, questi sono i prototipi maschili. Gli stilisti vogliono, e con i soldi ottengono, che le abbaglianti mutande da loro disegnate – speciali, da ammirare, accuratamente progettate, chiaramente geniali a prima vista per chiunque abbia occhi per guardare – appaiano e campeggino un po’ ovunque, indossate da uomini famosi, preferibilmente sportivi, immancabilmente seminudi. Uno show dal successo incontenibile pagato al prezzo di una volgarità indicibile nascosta dalla setosa e pruriginosa qualità delle immagini. Certo è che questi giovani modelli non fumano, non bevono e, almeno da quanto appare, conducono una vita salutare.
Oggi abbiamo più bisogno di nutrizionisti che di psicologi. Occorre mangiare con moderazione, e soprattutto – questa è la raccomandazione – in modo ecocompatibile (chi mangia troppo o male danneggia anche te, digli di smettere). In particolare, pare che ci sia un che di delittuoso nella passione per la carne. Il consumo e la produzione della carne su scala industriale – anche a seguito della progressiva diffusione delle tecniche dell’allevamento intensivo – hanno cominciato a offendere vegetariani e vegani, a urtare la suscettibilità degli animalisti e ad allarmare tutti coloro che nell’attività di questo comparto del settore alimentare riconoscono una causa essenziale del degrado ambientale.
C’è chi adora la carne, e non riesce a proibirsi di mangiarla. Ma se già beve e fuma – se è quindi avvezzo, ma non per questo impermeabile, alle critiche che gli vengono rivolte in continuazione –, sentirsi dire che, tra l’altro, avvelena il mondo, lo inquina e lo rovina in modo irrimediabile, può diventare davvero insostenibile. Roba da non reggere il colpo. Io, per la verità, non pensavo che il pianeta fosse così gracile e vulnerabile. Ormai sono pronto a tutto, anche a sentirmi dire che, sulla base delle ultime ricerche, la terra non è sferica, ma a forma di prosciutto. Maltrattare il proprio corpo fino a seccarne l’anima, estirparne lo spirito e ucciderne la vita è – per quanto grave – un conto; ma sapere che, col tuo comportamento, stai togliendo l’aria a tutto il globo, che lo stai tormentando e soffocando fino a fargli esalare l’ultimo respiro è un altro. È proprio un bel garbuglio, una faccenda per cui si può perdere il sonno.
C’è chi, in certe abitudini, ha sempre riconosciuto dei piaceri paragonabili a quelli del sesso. È forse il caso che si ravveda, si converta, che convogli e concentri altrove le proprie energie? Secondo alcuni pare proprio di sì. Del resto, per quanto talora difficile, è sempre possibile ricredersi. Ne è prova il fatto che non pochi, negli ultimi tempi, rispetto al sesso vero, sperimentato, più o meno faticosamente conquistato, abbiano mostrato di preferire quello osservato dall’esterno, spiato, analizzato, scovato nella vita degli altri (per esempio in quella di un Presidente del Consiglio). È dettagliatamente raccontato dai giornali e dalle televisioni (che un Presidente del Consiglio, incredibilmente, riesce a controllare solo parzialmente). Bisogna ragionare, tutto può accadere. Può succedere che si vada avanti ma anche che si torni indietro e che, stanchi a un certo punto delle avventure sessuali narrate, si torni a prediligere quelle vissute. Come convincere un delinquente incallito a smettere di ordire trame criminose? Come indurre un vizioso, pur conscio della propria turpitudine, ad accontentarsi del ricordo delle sigarette fumate, dell’alcol ingerito, del cibo gustato in passato?
Occorre capire, approfondire. Bisogna fare appello a tutte le parti del cervello, anche a quelle che si usano di rado. Motivo per cui spero ardentemente che certe disdicevoli abitudini non abbiano annebbiato la mia mente.
Parte prima
Fumatori di sigarette
Fumatori si diventa
Ho cominciato a fumare quand’ero alle elementari. Accendevamo furtivamente le sigarette dietro la scuola prima del suono della campanella d’ingresso, io della quarta e qualcun altro della quinta. Era bello fumare al cinema con gli amici, rintanati nelle ultime file della platea. Per far durare la sigaretta mi prendevo lunghi intervalli di tempo tra una boccata di fumo e l’altra, ed ero così sprovveduto da non riuscire a spiegarmi come mai dopo ogni pausa la sigaretta mi apparisse più corta. Ci si dava un tono con le ragazzine, ma la verità è che fumare piaceva e che lo si faceva anche da soli, senza alcuna ostentazione. Piuttosto, ci si doveva dare il tono giusto con il tabaccaio, cioè assumere l’atteggiamento più adatto per sembrare bambini innocenti mandati da qualche adulto a comprare le sigarette con l’incentivo di una piccola mancia.
Studiare era meno duro se si sapeva che ci si poteva accendere una sigaretta ogni tanto. C’era il problema di non essere colti in flagrante, si doveva arieggiare la stanza o il bagno in continuazione, e si passava molto tempo con l’orecchio teso, pronto a cogliere il più inavvertibile scalpiccio nel corridoio. Ma erano inconvenienti di poco conto, comprese le discussioni con mio padre quando l’odore di fumo avrebbe impedito anche al più spudorato dei mentitori di negare d’aver fumato.
Col passare degli anni aumentava il numero delle sigarette, in modo costante. Nell’ultimo periodo del liceo, quando ci sottoponevano tutti alla lastra toracica, temevo che qualcuno potesse telefonare a casa per comunicare ufficialmente che avevo un tumore ai polmoni, caso in cui sentivo che avrebbe prevalso la vergogna verso i miei genitori rispetto alla preoccupazione per la mia sorte. Ma tutto ciò non mi aiutava a smettere, anzi. Ogni volta che mi preoccupavo, fumavo allo scopo di rasserenarmi, e per lo più ci riuscivo. Il fumo cominciava a diventare una preoccupazione ma, strana cosa, più fumavo e più la preoccupazione svaniva. Nel frattempo, mi divertivo a rileggere le pagine dedicate da Svevo al suo tormentato rapporto con il fumo, a tutte le volte che Zeno aveva provato a smettere cercando la data più propizia per accendere la sua u.s., la fatidica ultima sigaretta.
Negli anni dell’università, l’ultima sigaretta della sera era diventata un rito notturno. Studiare e fumare erano la stessa cosa. Ero ormai un fumatore accanito, quello che sarei stato per tutta la vita, un consumatore convulso di tabacco bruciato e inalato. Per mera informazione, le poche canne che ho fumato per non sfigurare in compagnia mi hanno procurato una nausea terribile, forse perché combinate con l’alcol. E l’unica volta che ho tirato cocaina quand’ero studente non ho chiuso occhio per tre giorni interi, durante i quali pensieri e comportamenti erano parsi sempre più chiaramente ispirati a una non lieve forma di follia, mentre la mia faccia era diventata più verde che verdognola.
Sono forse pentito, afflitto, sconfitto o costernato? No. Sono più esattamente un tossicodipendente cosciente e specializzato. Fumo e ho sempre fumato soltanto Marlboro, a parte qualche nazionale super senza filtro (ottime, ora introvabili) che mi offriva un mio zio scanzonato quando ero ancora un bambino. Le poche volte che mi è capitato di trovarmi senza Marlboro avrei fumato qualsiasi cosa, e non a caso l’ho fatto. Ma qualsiasi sigaretta diversa mi piace di meno oltre a farmi tossire come un dannato, ed è questo il motivo per cui è raro che in casa mia non ci siano almeno quattro o cinque stecche delle mie sigarette.
Per molti anni ne ho fumate più di sessanta al giorno, poi sono sceso a quaranta, a volte persino qualcuna di meno (o qualcuna di più), senza sforzo e senza aver preso alcuna decisione in proposito. Credo che la diminuzione – drastica e più che apprezzabile – sia stata dovuta a un cambiamento nella mia vita professionale, più precisamente al fatto di aver optato per un’attività meno concitata. E dico credo
perché non ne sono sicuro, anche se lo reputo verosimile, e sono portato a considerare una coincidenza la circostanza che nello stesso periodo si era verificato un profondo mutamento anche nella mia vita sentimentale. Forse che l’accendersi di un amore diminuisca il bisogno di accendersi sigarette? Non so, non credo. In ogni caso, sono tuttora un fumatore pesante, incessante, fondamentalmente un drogato.
Fumo perché i fiumi scendono e non salgono, perché i pesci nuotano nel mare e non li si può indurre a camminare, perché tutti gli esseri viventi sono condannati a fare quel che fanno, che è la ragione per cui gli uomini nascono e poi muoiono.
«Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quando è l’ultima» (Italo Svevo, La coscienza di Zeno). Forse è per questo che i fumatori decidono spesso di smettere di fumare, il che la dice lunga sul loro temperamento da sognatori. Ma un fumatore vero lo è per sempre. Per quanto mi riguarda, non ho mai seriamente deciso di smettere, e forse ho perso qualcosa, come chiunque tenda a peccare di un eccesso di realismo.
Amata e bandita
La prima macchina per la produzione industriale di sigarette, una Susini-Durand capace di sfornarne 3.600 all’ora, era stata presentata all’Expo Universale del 1878. Ma fumare sigarette è un fenomeno che esplode non prima del ’900. Nella prima metà del ventesimo secolo l’America ci insegna a fumare con tanto di cartelloni pubblicitari in cui campeggiano Ronald Reagan, Bob Hope e Gregory Peck che fumano Chesterfield.
«Dove c’è un uomo c’è una Marlboro» è uno slogan del 1954. È di qualche anno prima un’eccezionale e indimenticabile pubblicità del fumo come simbolo di pace – un calumet vero e proprio, e però più importante di quelli che si consumavano nelle capanne indiane –, celebrata con una fotografia del vertice di Yalta, alla fine della Seconda guerra mondiale, che ritrae Churchill con un cubano, Stalin con la pipa e Roosevelt con una sigaretta. I veri vincitori erano gli Stati Uniti, e aveva vinto anche la sigaretta.
Nella seconda metà del secolo però cercano di farci smettere con Yul Brynner e John Huston – il primo morto per un cancro ai polmoni, il secondo per un enfisema polmonare –, ripresi da una telecamera poco prima di morire mentre dichiarano: «Sono morto, continuate a fumare e farete la mia stessa fine».
A partire da un certo momento, i messaggi terrorizzanti sui danni del fumo hanno invaso il mondo, e sono ormai lontani i tempi in cui Einstein faceva lezione a Princeton accendendosi una sigaretta dopo l’altra.
C’è forse qualche amante del cinema capace di immaginare Bogart senza la sigaretta? Che ne sarebbe stato del Jean Gabin di Alba tragica privato dell’unica, dolce compagna prima del suicidio? E senza una Gauloise tra i denti dall’inizio alla fine del film, anche il Belmondo di Fino all’ultimo respiro di Godard sarebbe apparso meno convincente.
La popolarità della sigaretta è reale, sostanziale, inscindibile dalle sue proprietà. Oggettivamente vantaggiosa
, la sigaretta è minuscola, pratica, efficace, e se finisce alla svelta si può subito accenderne un’altra. È un modo relativamente recente di consumare tabacco, un oggettino congruente con il dinamismo della nostra civiltà, i suoi ritmi e le sue nevrosi.
Come la vitale problematicità della vita, la sigaretta è lì, davanti a te, in tutta la sua longitudinale e cilindrica sigarettità. Della tua sigaretta puoi stare sicuro, sicurissimo, di una sicurezza di gran lunga superiore alla certezza che un metro è fatto di cento centimetri. E un fumatore queste cose le sa.
Si consideri che il sigaro lo fuma anche Castro, un’icona del comunismo e dell’egualitarismo, e che la ragione della sua minore diffusione rispetto alla sigaretta non è certo il fatto che potrebbe essere considerato roba da miliardari inglesi. C’è chi, come me, non riesce ad aspirare il fumo senza inspirarlo profondamente: i pochi sigari che ho sperimentato mi hanno squassato i polmoni, la pipa non si addice alla mia personalità, e non mi ha mai sfiorato l’idea di mettermi a masticare tabacco.
Non voglio sostenere che quello del salutismo è un mito da sfatare e da buttare in blocco. Diffido tuttavia dei talebani della tutela dell’ambiente e della salute, e dubito che quella dei divieti e della disapprovazione sociale sempre più manifesta sia la strada maestra. La vita è un trabocchetto, una trappola mortale, è naturale. Ma temo molto di più il momento in cui diventerà noiosa, oltre che letale.
A proposito delle cose da fare e da non fare, c’è stato un momento in cui sembrava che si potesse uscire di casa senza gonna o pantaloni ma non senza preservativo, diventato improvvisamente indispensabile per evitare certe malattie, e non mi pare che il messaggio fosse condivisibile senza riserve. Una morale del timore non va bene, e tanto meno una morale dello schifo. Tra l’altro, un pacchetto di sigarette su cui sta