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Marx & Keynes. Un romanzo economico
Marx & Keynes. Un romanzo economico
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E-book287 pagine4 ore

Marx & Keynes. Un romanzo economico

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Karl Heinrich Marx muore nel 1883, l’anno di nascita di John Maynard Keynes. Eppure i due si incontrano, in carne e ossa, in una bella mattinata primaverile del 2015, comportandosi da subito come vecchi amici. Per quale misteriosa ragione viene loro concessa un’opportunità così strabiliante? Le leggi dello spazio, del tempo e della natura vengono violate per permettere lo svolgimento di una delicatissima missione: scoprire chi ha sabotato la macchina dell’economia, inceppandone il motore a tutto vantaggio di un’esigua minoranza e a danno della moltitudine. Le loro teorie vengono riprese, dibattute, riesaminate in ogni dettaglio della loro geniale semplicità. Come mai queste idee, avvincenti e apparentemente così solide, hanno fallito? Sarà solo dopo molte discussioni, molti sigari e innumerevoli drink che emergerà una verità indubitabile e sconcertante, che darà vita a un fi nale imprevedibile e dai molti risvolti comici...
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita23 apr 2021
ISBN9788816801769
Marx & Keynes. Un romanzo economico
Autore

Pierangelo Dacrema

Pierangelo Dacrema è professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari all’Università della Calabria. Ha insegnato nelle Università di Bergamo, di Siena, alla Cattolica, alla Bocconi e alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Oltre a numerosi libri di carattere accademico, ha pubblicato Il miracolo dei soldi. Come nascono, dove vanno, come si moltiplicano (Etas-RCS, 2010) La crisi della fiducia. Le colpe del rating nel crollo della finanza globale (Etas-RCS, 2008), La dittatura del PIL (Marsilio, 2007), Trattato di economia in breve. Frammenti di filosofia del gesto (Rubbettino, 2005), La morte del denaro. Una rivoluzione possibile (Christian Marinotti, 2003). È padre di quattro figli, di cui i primi tre sono studenti universitari.

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    Marx & Keynes. Un romanzo economico - Pierangelo Dacrema

    1

    VITE PERPENDICOLARI

    «Vedo che ti sei tagliato la barba».

    «Sì, mi sentivo troppo riconoscibile. Temevo di dover dare troppe spiegazioni, o che qualcuno si mettesse a ridere».

    Evitò di chiedere al suo interlocutore come mai un’analoga prudenza non gli avesse suggerito di tagliarsi i baffi. Chi gli stava di fronte, infatti, conservava l’aria abbastanza anonima da commesso viaggiatore di lusso che l’aveva sempre contraddistinto, per la verità un po’ troppo elegante, e con uno sguardo un po’ troppo intelligente, per essere soltanto un venditore. Del resto anche lui, pur privo della sua mitica barba, continuava a dare l’idea di un professore di liceo arcigno ma buono, benché con l’occhio un po’ troppo vispo e penetrante per essere soltanto un insegnante.

    Seduti a un tavolo all’aperto di un bar parigino, a chiunque sarebbero sembrati due signori di mezza età non diversi da tanti altri, una coppia di amici per niente fuori dal comune. Spirava la brezza tiepida di una giornata di tarda primavera, il sole era dolce e carezzevole. Quello con i baffi – alto, magro e dall’aspetto un po’ esangue – sorseggiava pigramente un tè, mentre l’altro – tarchiato e dalla carnagione scura – fumava il suo sigaro con evidente soddisfazione.

    Stavano in silenzio e guardavano con un certo interesse il via vai del marciapiede. E da nessun punto di vista, al di là della gradevolezza della luce e dell’atmosfera, vi era nel contesto complessivo o nei dettagli alcunché di eccezionale da notare. Eppure, un quadro di così apparente normalità celava qualcosa di assolutamente straordinario, un fatto davvero inusitato. Neanche il più curioso e perspicace degli osservatori, infatti, avrebbe potuto immaginare la verità. Soprattutto, nessuno avrebbe mai potuto credere che si trattava di Karl Heinrich Marx e John Maynard Keynes.

    In realtà, i primi ad ammettere che era a dir poco sorprendente il fatto di trovarsi lì, l’uno di fronte all’altro, e in carne e ossa, avrebbero dovuto essere proprio loro due.

    Marx, nato nel 1818, era morto nel 1883, l’anno in cui Keynes era nato. Spentosi nel 1946, neanche Keynes, come Marx, era riuscito a compiere sessantacinque anni. Un particolare non trascurabile era poi costituito dal fatto che il loro incontro avesse luogo nel ventunesimo secolo. Se anche fossero stati così distratti da non cogliere che tutto quanto li circondava faceva parte di un’epoca molto diversa dalla loro, a rendere la cosa certa e inequivocabile sarebbe bastata un’occhiata al gigantesco pannello elettronico che occupava quasi tutta la facciata di un teatro appena al di là della strada: la data che vi lampeggiava era quella del 10 maggio 2015.

    Ebbene, la consapevolezza di tutto questo non sembrava scuoterli. Se ne stavano seduti in tutta tranquillità, pensosi ma non turbati, almeno all’apparenza, come se non vi fosse nulla di cui stupirsi, nessuna spiegazione da dare al mistero spazio-temporale cui si doveva la presenza, in quel luogo e in quel momento, di due uomini che non si erano mai conosciuti, che tutte le leggi della fisica avrebbero impedito che si conoscessero e si trovassero lì, alla distanza di meno di un metro l’uno dall’altro.

    A esser sinceri, mentre era evidente come Keynes potesse sapere e conoscere tutto o quasi di Marx – le sue vicissitudini, le sue opere, la sua influenza storica sul comportamento dei governi e delle masse –, Marx aveva avuto un momento di più che comprensibile sconcerto quando si era accorto di sapere di Keynes, un uomo vissuto dopo di lui, quasi quanto ne sapeva di Jenny, la sua adorata consorte, e addirittura di Engels, l’amico fraterno, l’uomo che era rimasto sempre al suo fianco e che lo aveva accudito come neppure una mamma sarebbe stata in grado di fare. E come mai tutta quella conoscenza, sulla cui reciprocità sarebbe stato pronto a scommettere, non diminuiva la sua voglia di comunicare, capire, approfondire?

    Ma, dopo un attimo, anche Marx aveva già smesso di porsi interrogativi più o meno angoscianti, e si era fatto soccorrere dalla sua proverbiale razionalità. Non a caso, anche se non gli aveva mai fatto piacere, era capitato più di una volta che si complimentassero con lui dicendogli che aveva una «testa da ingegnere».

    «Chiaro», aveva pensato. «Il destino cui si deve questo incontro dev’essere una forza più forte di qualsiasi altra. Questa stessa forma di volontà superiore deve aver deciso di facilitare le cose facendo in modo che, da questa particolarissima occasione, si traesse la massima utilità possibile. Ecco perché, su John Maynard Keynes, mi è dato di sapere così tanto, e ancor di più occorrerà che io sappia. È sempre questo, non c’è dubbio, il motivo per cui mi trovo qui a conoscere tutto quanto è accaduto dopo la mia morte, dagli avvenimenti più cruciali a quelli più irrilevanti, dalle guerre che hanno sconvolto il mondo fino alle opinioni di nessun conto che frullano oggigiorno in capo a certi individui piccoli, ignoranti e arroganti che amano definirsi economisti. È incredibile! Ma a ben pensarci è ancor più stupefacente che tutto questo non riesca a stupirmi più di tanto e che, anzi, mi venga da considerarlo quasi ovvio. Evidentemente aveva ragione Hegel: il reale è razionale. Ma come si fa a far quadrare la prima con la seconda parte della nota asserzione, ovvero il fatto che il razionale è reale? C’è qualcosa che mi sfugge. Ma, faute de mieux, bisogna accontentarsi di questa spiegazione, cioè, in pratica, di nessuna spiegazione».

    A proposito dell’eccentricità della situazione, anche Keynes sembrava aver adottato un atteggiamento sostanzialmente agnostico. Con una voce che non tradiva la benché minima preoccupazione, fu lui a riprendere la conversazione, secondo una formula molto britannica.

    «È bello essere qui. Sarei pronto a scommettere che in questo momento a Londra sta piovendo, e mi sento felice come una lucertolina al sole. E per di più mi fa molto piacere vederti in forma».

    «È vero, sto bene, anche perché in questo istante, quasi non riesco a crederci, non mi trovo a combattere neanche con uno di quei giganteschi, maledetti foruncoli sulle natiche che mi hanno sempre perseguitato. Ma, a parte questo – e a parte il luogo e il clima che, ne convengo, sono un invito a starsene qui a bere e a fumare fino allo sfinimento –, sono certo che anche tu ti stia ponendo qualche domanda. Perché noi? Per quale motivo, qui e ora?».

    «Difficile darti torto, non si può non sentirsi invitati a riflettere sul punto. Potrebbe trattarsi di un caso, di una purissima, singolare coincidenza. Ma anche le mie competenze in statistica – una disciplina che, come sai, ho coltivato in modo non superficiale – mi hanno indotto sempre più spesso a ritenere che il caso, ciò a cui noi abbiamo assegnato questa denominazione, sia invece l’esito preciso e prevedibile (ma da chi? questo è il problema) di un progetto messo a punto altrove. Dove? In un’altra realtà, e il tutto in conformità a regole che non ci è dato di conoscere, ma che non per questo siamo legittimati a dichiarare inesistenti».

    «Dici davvero?».

    «Certo».

    «Allora la ‘situazione’ potrebbe avere a che fare con la circostanza che ci siamo entrambi occupati dei problemi dell’economia. Per di più siamo stati filosofi, forse gli ultimi studiosi del fenomeno economico dediti a una vera e propria Geistwissenschaft, una scienza dello spirito, un ambito del sapere ben diverso da quella scienza dell’aritmetica della moneta a cui, ormai da molto tempo, si è ridotta la disciplina economica».

    Marx si stava appassionando, e Keynes sorrise.

    Keynes era ben conscio di che cosa Marx fosse capace. Quella situazione – la magica condizione in cui erano venuti a trovarsi – gli consentiva di avere una chiara cognizione della straordinaria miscela di retorica e concretezza di cui quell’uomo poteva avvalersi qualora avesse deciso che ne valeva la pena. E non poté fare a meno di pensare a quanto lui, Keynes, nel suo saggio su Marshall, aveva scritto a proposito della rara combinazione di talenti che un grande economista avrebbe dovuto possedere.

    Aveva detto che doveva essere un matematico e al tempo stesso uno storico, uno statista e un filosofo, che doveva avere dimestichezza tanto con i simboli quanto con le parole, che avrebbe dovuto essere capace di inserire il particolare nel generale e usare il pensiero in modo da coniugare l’astratto con il concreto. Un vero economista, inoltre, doveva studiare il presente alla luce del passato, in vista del futuro, e non avrebbe potuto ignorare alcun aspetto della natura dell’uomo e delle sue istituzioni. Avrebbe dovuto inoltre essere risoluto, ma pure disinteressato, distaccato e incorruttibile come un artista e tuttavia, all’occorrenza, vicino alla realtà come un politico.

    Anche Marx stava sorridendo. Se fosse stato un gatto avrebbe fatto le fusa. «Credo proprio di sapere a che cosa stai pensando», disse. «E mi perdonerai se anch’io mi abbandono per un momento ai miei ricordi, cullato dall’assonanza d’intenti e di pensieri prodotta da questa indicibile atmosfera».

    Ecco un altro assaggio della retorica a cui Marx, in certe occasioni, non avrebbe mai saputo rinunciare. Ma era anche la prova di un sentimento che faceva di lui un’àncora, un riferimento, una fonte d’energia sicura e affidabile benché governata solo da sé stessa, un essere magnificamente sensibile al contesto e agli umori dei presenti.

    In quel momento non era solo la vanità ciò che spingeva Marx a indugiare su quanto Engels, nel 1881, quarant’anni dopo che si erano conosciuti, aveva messo per iscritto. Se lo ricordava alla perfezione, e con molta tenerezza. L’amico gli aveva confidato la sua letterale incapacità di invidiare il genio, la sua potenza, la sua attitudine ad afferrare il significato ultimo delle cose. Chi, come lui, Engels, non possedeva quell’ineffabile qualità, sapeva fin dall’inizio che gli sarebbe stata preclusa, irraggiungibile. E comunque sarebbe stato indice di una mentalità meschina provarne invidia. Quanto a lui, avrebbe considerato una ricompensa sufficiente l’amicizia di Marx e la sensazione di aver dato il massimo contributo possibile all’affermazione delle sue idee.

    Marx si vergognò un po’ di aver pensato a Engels, anche se soltanto per un attimo, come a un cane a cui era stato molto affezionato. «Fedele come un cane», aveva osato pensare del caro, impareggiabile Friedrich. Ma subito dopo concluse che non era colpa sua se l’aveva pensato. Del resto, anche la coscienza della sua superiorità era una forza di cui si era abbondantemente e spudoratamente servito.

    Al di là di quanto e quale alimento potessero aver ricevuto la consapevolezza e l’orgoglio delle loro doti, il loro era senza dubbio un appuntamento tra due geni, due individui eccezionalmente dotati. Sarebbe bastato questo a dare un significato speciale all’incontro? Era anche vero che per tutta la vita si erano occupati di argomenti e problemi molto simili. Ma su tale circostanza era forse destinata a prevalere la radicale divergenza delle loro personalità e delle loro esperienze.

    Primogenito devoto di una coppia di accademici di Cambridge – prodotto di una storia di successo di stampo prettamente vittoriano ma anche risultato culturale di un’epoca in declino –, Keynes era stato un conservatore portato a credere nelle capacità di governo di una classe dirigente benevola, che aveva anche il dovere di rappresentare un’aristocrazia intellettuale.

    Figlio di un ebreo tedesco benestante, insofferente a qualunque tradizione familiare, e mosso da autentico spirito di ribellione verso l’ordine costituito, Marx non aveva mai creduto né nei governi né nelle nazioni, e assommava in sé i requisiti del perfetto rivoluzionario.

    Brillante studente a Eton e al King’s College di Cambridge prima, accademico e uomo di Stato poi, Keynes aveva elaborato le proprie teorie grazie a conoscenze maturate in ambienti istituzionali come l’università e il ministero del Tesoro britannico. La sua era stata una vita agiata anche in virtù di un patrimonio costantemente accresciuto dalle sue fortunate speculazioni borsistiche.

    Studente dotato ma poco propenso alla frequentazione delle aule universitarie, Marx aveva preferito il giornalismo all’accademia, e costruito la sua visione del mondo sulla base di una solida preparazione economico-filosofica acquisita da autodidatta. Quasi sempre oberato dai debiti, aveva trascorso la vita inseguito dai creditori, dai quali era riuscito a liberarsi grazie all’aiuto di Friedrich Engels molto più che ai modesti guadagni procuratigli dai libri e dagli articoli.

    Convinto che il capitalismo fosse uno strumento potente ma delicato, Keynes aveva lavorato per proteggerlo dai suoi difetti e dalle sue stesse degenerazioni. Aveva anche difeso il diritto di diseredati e disoccupati di percepire un reddito e godere così di una parte dei benefici prodotti dal sistema. Ma, più o meno istintivamente, l’aveva fatto per salvaguardare gli interessi e i privilegi della borghesia, la classe a cui sentiva di appartenere.

    Convinto che il capitalismo avesse dato luogo a rapporti sociali e a metodi di produzione disumani, Marx si era scagliato contro la borghesia capitalistica e aveva predicato la dittatura del proletariato, la classe dei lavoratori cui non apparteneva ma nella quale aveva riconosciuto una generazione di nuovi schiavi da affrancare.

    «Credimi Karl – posso chiamarti Karl? –, non sono mai riuscito a capire fino in fondo quale sia stato il ruolo di certi individui straordinari (chiamiamoli così) nel farci fare un passo in avanti (chiamiamolo così). E dico questo anche perché le determinanti di una qualunque manifestazione del progresso tecnico sono molto più facili da definire e circoscrivere di quelle di un avanzamento della civiltà. Ho vissuto un’epoca generosa in termini di materiale umano. Parlo di uomini che hanno plasmato la coscienza del ventesimo secolo. Nel 1883, l’anno in cui sono nato, è nato anche Gropius, nel 1881 Picasso, nel 1882 James Joyce e Wirginia Woolf, e più o meno in quegli anni sono nati anche Einstein, Wittgenstein, Russel, Diaghilev e G.E. Moore. Eppure non c’è stato uno solo di questi giganti che sia riuscito a evitarci la prima o la seconda guerra mondiale».

    Nessuno sapeva meglio di Marx quanto fosse improbabile che a un uomo solo, o anche a due, riuscisse di cambiare il mondo. Ma nessuno più di lui aveva bisogno di illudersi che ciò potesse accadere. Aveva passato più di metà della sua vita a credersi alla vigilia di una rivoluzione che non sarebbe mai avvenuta.

    «Vedi, Maynard – mi auguro che non ti dispiaccia se ricambio la confidenza –, conosco la sconfitta in tutte le sue versioni, dalla più lieve alla più pesante e bruciante. Al mio funerale, ad Highgate, c’erano solo undici persone (e, tra l’altro, voglio sperare che non sia stata una specie di punizione per non essere neanche andato al funerale di mio padre). Se non mi sono mai arreso è perché non ho mai creduto di vivere nel migliore dei mondi possibili, e ho sempre pensato che un’idea potesse avere la forza di cambiare il mondo».

    «Ne sono sempre stato convinto anch’io».

    «E allora capirai la mia necessità, anzi, il mio estremo bisogno, di dare un senso a ciò che ci sta accadendo. Perché noi e non altri? Per quale motivo qui e ora? Non è mai esistito uomo sulla faccia della terra che non abbia desiderato sentirsi utile in qualche forma. Io questo desiderio l’ho coltivato al massimo, oltre ad averlo pagato con grandissime frustrazioni. Il tempo ci ha concesso di maturare una certa coscienza dei nostri errori, e il destino ha consentito non solo a te di prendere atto dei miei ma, in un modo che ha dell’incredibile, anche a me di individuare i tuoi. Si tratta ora di compiere ogni sforzo possibile per capire meglio, di più. Credimi, non mi gratifica il pensiero di quanto possa essersi rivelata esatta la profezia del mio devoto Friedrich: parlo di quando, nell’orazione funebre, disse che il mio nome e il mio lavoro non sarebbero stati coperti dalla polvere dei secoli. E tantomeno mi lusinga il fatto che idoli – o mostri – come Stalin, Mao, Che Guevara e Castro si siano proclamati miei eredi. L’idea di avere avuto discepoli di questo tipo mi addolora molto più di quanto possa confortarmi. E a chi un giorno mi aveva fatto notare che in Francia era nato un nuovo partito sotto l’egida del marxismo, mi limitai a rispondere che, per quanto ne sapevo, io stesso non ero marxista».

    Negli occhi di Marx c’era un lampo che per un attimo aveva fatto temere a Keynes di non poter continuare la conversazione in maniera costruttiva. Marx, invece, era sereno, colpito dalla sua stessa tranquillità e certo che nulla, o quasi, avrebbe avuto il potere di farlo esplodere. Stava rivelando una saggezza di cui lui stesso era il primo a sorprendersi.

    Nel corso di certe discussioni, infatti, quando considerava l’argomento avvincente, l’incontenibilità di Marx era proverbiale. In queste occasioni diventava più che eccitabile, era infiammabile come benzina. Il motivo per cui poteva rivelarsi pericoloso come il fuoco e più imprevedibile di un incendio era che non occorreva alcuna imprudenza per scatenarlo. Ma in quel momento no, la situazione era diversa. Qualcosa, evidentemente, aveva disinnescato la bomba o se non altro l’aveva resa meno sensibile alle scosse.

    Keynes si rendeva conto di quanto fosse giustificato il piccolo sfogo di Marx. Sapeva di trovarsi di fronte a un uomo il cui pensiero, a cent’anni dalla sua morte, era ancora l’ideologia ispiratrice di governi che reggevano le sorti di metà della popolazione mondiale. Le idee di Marx avevano cambiato il modo di intendere l’economia e la sociologia, la storia, la geografia e la letteratura. A parte Gesù Cristo, nessun altro oscuro personaggio vissuto in povertà era riuscito ad avere un simile numero di proseliti e al tempo stesso a essere così spesso, e così rovinosamente, frainteso.

    «Ti capisco più di quanto tu possa immaginare», disse Keynes. E con un filo di ironia aggiunse: «Io sono stato più fortunato, o forse più meritevole di te: il servizio funebre che hanno allestito per me all’abbazia di Westminster era davvero imponente. Può darsi che venga riservato un trattamento migliore a chi è stato filosoficamente refrattario alla rivoluzione, e ciò a riprova del fatto che il mondo non ama esplorare oltre i confini che conosce».

    Dopo una breve pausa Keynes riprese, in tono più serio: «Hanno parlato di rivoluzione keynesiana. Alcuni mi hanno osannato, altri mi hanno dipinto come un ciarlatano, un pensatore confuso e portato a contraddirsi. In realtà non mi è mai parso di andare al di là di un paio di considerazioni ispirate dal buon senso. Ho detto, molto semplicemente, che il mondo è dominato dall’incertezza – da un rischio sistemico, o meglio, sistematico – e che proprio per questo gli imprenditori potrebbero preferire la liquidità agli investimenti, e ciò anche per periodi piuttosto lunghi, con conseguenze disastrose per l’occupazione, la produzione e le condizioni di vita di una frazione importante della collettività. Qualcuno ha sostenuto perfino che avevo inventato una nuova branca della teoria economica, qualcosa che andava oltre l’analisi del comportamento degli individui e del funzionamento di imprese e settori industriali. Capisci? Mi hanno attribuito la scoperta della «macroeconomia». Insomma, sarei stato io a inaugurare lo studio del funzionamento del sistema economico nel suo complesso, nella sua interezza. E invece sai che questo merito, se tale va considerato, lo si sarebbe dovuto riconoscere a te, alla tua opera, ancor più preziosa, dato che hai lavorato in condizioni estreme. Qualcun altro ha considerato il successo delle mie teorie nulla più che un caso fortunato. La mia visione dei fatti economici e di come governarli sarebbe stata quindi applicabile a casi del tutto particolari, come quello rappresentato dalla grande depressione originata dalla crisi del 1929. Altri mi hanno attribuito il merito delle politiche economiche varate un po’ ovunque dopo il secondo conflitto mondiale, e anche quello dei benefici che ne sono derivati per tutta l’economia occidentale. Altri ancora hanno sostenuto che tutto questo benessere non aveva a che fare con le decisioni dei governi, né le decisioni dei governi con le mie idee. Ce n’è abbastanza per essere perplessi, confusi. Anch’io avrei qualche esitazione a dichiararmi keynesiano».

    «Le nostre palesi differenze fisiche hanno nascosto il dato che avevamo in comune, vale a dire una costituzione relativamente debole. E comincio a credere che le nostre diversità culturali e ideologiche siano state più apparenti che sostanziali, e abbiano nascosto molte assonanze spirituali».

    «Perché stupirsi? Tieni presente che c’è stato un momento in cui ho dovuto difendermi dall’accusa di marxismo».

    «Sì, ma non esageriamo, non a caso hai preferito difendertene, e lo hai fatto in un modo che reputo assai convincente. Del resto, da certi fanatici del laissez faire non potevi aspettarti niente di diverso».

    «C’è di più. Il fatto che l’economia sia diventata la nostra occupazione principale non è dipeso, sia per me che per te, da un modello educativo, né dalle passioni originarie o da specifiche inclinazioni personali».

    «Questo vale per molti, quasi per tutti. Siamo pur sempre figli di un contesto che ci imprigiona, e che in qualche modo ci detta il da farsi. Soprattutto, la nostra stessa volontà non è indipendente, influenzata com’è da quanto la circonda e condizionata nella sua stessa formazione (su questo punto credo che Spinoza si sia avvicinato alla verità più di chiunque altro). Dato che l’unica vera attitudine di chi si occupa d’economia è quella di non avere un’attitudine particolare e prevalente, reputo che potrebbe averci accomunato la circostanza di non avere avuto speciali capacità, di quelle che ti raccontano subito chi sei o chi sarai. Sai quanta invidia per chi, fin da piccolo, ha sempre sognato di diventare pompiere?».

    «Siamo stati entrambi lavoratori prodigiosi, instancabili, del tutto incuranti della nostra salute».

    «Questo è innegabile, benché non ci abbia reso così singolari. Tanti altri individui sono stati animati da questa stessa energia».

    «Sia tu che io ci siamo appigliati all’àncora della filosofia. Senza un pensiero che ci facesse da guida, almeno inizialmente, ci saremmo persi».

    Era vero. Keynes aveva avuto un disperato bisogno di Moore, che lo aveva aiutato a buttarsi alle spalle il fiacco vittorianesimo della famiglia e a superarne i codici sessuali e sociali. Marx si era invece aggrappato all’idealismo di Hegel, di cui aveva usato la dialettica per cominciare a elaborare le sue teorie, e poi alle idee di Feuerbach, che aveva usato per criticare quelle di Hegel.

    Fu Marx, dopo un breve silenzio, a riprendere il filo di un discorso che aveva bisogno di poche parole.

    «Anche il materialismo di Feuerbach mi parve, ben presto, un po’ troppo cerebrale».

    «Lo so», disse Keynes. «Nulla di più distante dall’astrattismo del tuo modo di pensare. La tua era una filosofia

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