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Sognando l'Europa: Grande statista cercasi
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E-book149 pagine2 ore

Sognando l'Europa: Grande statista cercasi

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Info su questo ebook

L’idea di un’Europa economicamente e politicamente unita è un progetto forte ed edificante. L’Unione europea, tuttavia, ha deluso le aspettative di molti. È chiaro come l’Europa sia più importante della sua moneta, mentre sembra valere il contrario. L’Euro è la valuta più protetta del pianeta, e questa ossessiva difesa della moneta unica l’ha resa un fine, non più un mezzo. Gli stessi pilastri dell’Europa di Maastricht hanno ridotto la politica e la sua naturale complessità a un problema economico/finanziario.
Ora, un’Unione europea orfana della grande politica non può che ripartire dal rilancio degli ideali iniziali.
Ai sovranisti irriducibili: sperate davvero, con il voto, di ottenere un mandato a distruggere il progetto europeo?
Agli europeisti convinti: vi accontentate dell’Europa di oggi?
Una conversazione finale tra l’autore e Renato Mannheimer sottolinea singolarità e importanza delle Europee 2019 sia per l’Unione che per il destino del governo italiano.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2019
ISBN9788868993566
Sognando l'Europa: Grande statista cercasi
Autore

Pierangelo Dacrema

Pierangelo Dacrema è professore ordinario di Economia degli intermediari finanziari all’Università della Calabria. Ha insegnato nelle Università di Bergamo, di Siena, alla Cattolica, alla Bocconi e alla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Oltre a numerosi libri di carattere accademico, ha pubblicato Il miracolo dei soldi. Come nascono, dove vanno, come si moltiplicano (Etas-RCS, 2010) La crisi della fiducia. Le colpe del rating nel crollo della finanza globale (Etas-RCS, 2008), La dittatura del PIL (Marsilio, 2007), Trattato di economia in breve. Frammenti di filosofia del gesto (Rubbettino, 2005), La morte del denaro. Una rivoluzione possibile (Christian Marinotti, 2003). È padre di quattro figli, di cui i primi tre sono studenti universitari.

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    Anteprima del libro

    Sognando l'Europa - Pierangelo Dacrema

    Introduzione

    Quella di un’Europa unita sul piano economico e politico è, di per sé, un’idea forte ed edificante, ma potrebbe sembrare a molti un’utopia. Accade tuttavia che certi sogni si avverino. Quanti obiettivi apparentemente irraggiungibili, nel corso della storia e in ogni campo, sono stati perseguiti con tenacia da individui coraggiosi e poi, con l’aiuto di qualche circostanza favorevole, sorprendentemente realizzati?

    Ho un vivo ricordo del momento in cui, nel corso di un’intervista radiofonica rilasciata nella tarda primavera del 1989, Giulio Andreotti – all’epoca ministro degli Esteri, e quindi persona presumibilmente informata dei fatti – dichiarò, chiamato a esprimersi sul punto, che della caduta del Muro di Berlino avrebbero forse, e non senza un po’ di fortuna, potuto parlare i suoi nipoti. È noto invece che il Muro cessò di dividere la parte occidentale da quella orientale della capitale tedesca a partire dal 9 novembre dello stesso anno, e che Helmut Kohl non si lasciò sfuggire l’occasione per diventare artefice di un evento storico formidabile come la riunificazione delle due Germanie.

    Ciò premesso, sarebbe difficile sostenere, da parte di chiunque, che l’attuale Unione europea si stia rivelando capace di muovere passi sicuri e spediti verso i suoi stessi obiettivi originari e non abbia deluso le aspettative di buona parte dei cittadini europei: la Brexit ne è una prova tangibile, e purtroppo non la sola. È evidente come l’Europa sia più importante della sua moneta – parlo dell’Euro, a tutt’oggi la sua creatura più compiuta –, mentre sembra talora valere il contrario. Ed è così che l’Euro viene percepito da alcuni come un ostacolo per la realizzazione di politiche economiche adatte a diffondere il benessere e non come un primo, fondamentale, strumento per il perseguimento degli scopi essenziali dell’Unione. L’Euro è la valuta più protetta del pianeta, e questa ossessiva difesa tecnica della moneta (per statuto, l’unico imperativo della Bce è il contenimento del tasso di crescita del livello generale dei prezzi entro il 2% su base annua), con le politiche d’austerità che ne conseguono, possono sortire l’effetto di mettere in cattiva luce non solo e non tanto la moneta unica quanto l’unione di Stati che ne ha deciso l’emissione e l’utilizzo in via esclusiva.

    Più in generale, l’Unione europea sembra incline a occuparsi di fini limitati, specifici, e poco propensa a fronteggiare emergenze gravi: sono emblematici il ritardo e la scompostezza con cui è stato trattato un problema epocale come quello dell’immigrazione. Gli stessi pilastri dell’Europa di Maastricht – il rispetto della soglia del 3% del rapporto deficit/Pil e del 60% del rapporto debito pubblico/Pil – privilegiano una visione rigidamente economico-finanziaria di un contesto complesso, articolato ed eterogeneo, rispetto a un’altra più flessibilmente, e più opportunamente, politica. Eppure è noto come l’economia, non solo nel suo aspetto macro, si trovi legata, spesso in modo indissolubile, alle vicende della politica. Ragione per cui può accadere che un provvedimento di politica non economica (per esempio, un decreto del ministro dell’Interno o della Pubblica istruzione) abbia ripercussioni sul sistema economico più evidenti, se non addirittura più immediate, di un provvedimento di politica economica in senso stretto (per esempio, una diminuzione o un aumento dei tassi d’interesse, o un aumento o una diminuzione della pressione fiscale).

    La sensazione è che l’Europa unita sia oggi orfana della grande politica. E non è fuori luogo ricordare, di nuovo, che cos’è riuscito a fare uno statista tedesco con una decisione che, nel 1989, apparve al mondo imprudente e potenzialmente foriera di disastri economico-sociali.

    A proposito del da farsi, occorre innanzitutto rendersi conto di come il progetto di un’Europa sempre più unita – tanto entusiasmante quanto di ardua realizzazione – richieda il recupero e il rilancio degli ideali che ne sono stati il motore iniziale. Solo una politica d’alto profilo può essere fonte di scelte e comportamenti destinati a generare un benessere maggiore e più equamente distribuito fra tutti i cittadini europei. La percezione di un’inadeguatezza dell’Ue di oggi dovrebbe accomunare fautori e detrattori dell’Europa – categorie entrambe insoddisfatte, in misura e per ragioni diverse – e unirli nello sforzo comune della ricerca di un percorso più virtuoso, per quanto impervio. Possono sperare, populisti e sovranisti, di fare man bassa di voti alle prossime elezioni europee mobilitandosi solo per ottenere una sorta di mandato specifico ad abbandonare il campo o a disfare tutto, vale a dire tutto quel poco o tanto che esiste delle istituzioni e delle regole europee?

    Qualunque unione è fondata da un lato sull’esistenza di regole condivise al proprio interno, dall’altro sulla costruzione di un rapporto il più saldo possibile con la realtà che la circonda, vale a dire un sistema di relazioni che la legittimi all’esterno e le dia più forza all’interno.

    Sul piano di una politica economica europea, l’esistenza di tali presupposti dovrebbe promuovere le condizioni per:

    1) il mantenimento della centralità dell’Euro – e un suo maggior gradimento – attraverso la restituzione di un minimo di flessibilità alle politiche monetarie nazionali, anche a costo di un lieve innalzamento del tasso d’inflazione (per esempio, occorrerebbe concedere ai Paesi più indebitati un margine di manovra per l’emissione di valuta nazionale, ciò che evidentemente richiederebbe una revisione dei Trattati europei);

    2) il sostegno di una politica industriale che favorisca il Sud dell’Europa e, più in generale, tutti i Paesi del Mediterraneo, in modo da creare, tra l’altro, condizioni di vita a livello locale idonee a scoraggiare l’emigrazione (per esempio, attraverso forti incentivi alle grandi imprese europee a investire nell’Africa del Nord, in Grecia, in Turchia e nel Mezzogiorno d’Italia).

    In sintesi, è fondato il sospetto che un’insufficiente sensibilità delle istituzioni europee per certe istanze dei Paesi economicamente più fragili possa alla lunga far prevalere le tendenze centrifughe su quelle centripete. E sarebbe un vero peccato, poiché le disgregazioni e le frammentazioni possono risolvere nel breve piccoli problemi lasciandone aperti altri, ben più gravi, che le unificazioni hanno per loro natura una migliore attitudine a fronteggiare.

    1.

    Gli uomini che vollero l’Europa della pace e del benessere

    L’idea di un’Europa economicamente e politicamente unita – o un poco più unita di quanto lo fosse stata fino ad allora – nacque dopo il secondo conflitto mondiale. E fu di uomini che, avendo assistito alle sofferenze dei loro Paesi, immaginarono la possibilità, o meglio la necessità, che un continente devastato dalla guerra, per secoli teatro ricorrente di discordie e lotte armate, si dimostrasse finalmente capace di costruire un lungo periodo di prosperità e di pace. (Detto di passaggio, viene da pensare che gli uomini pronti a scatenare un conflitto armato non abbiano mai toccato con mano il dolore di cui una guerra è portatrice, o non siano abbastanza sensibili per comprenderlo, e come solo gli uomini che l’hanno vissuto siano disposti a tutto pur di evitarne il ripetersi).

    Non a caso fu un tedesco – Konrad Adenauer, cancelliere della Repubblica federale della Germania occidentale dal 1949 al 1963 – il politico che profuse i maggiori sforzi per una piena riconciliazione della sua nazione con la Francia di Charles de Gaulle e per l’affermazione di una visione ampia della democrazia liberale nel suo Paese e in Europa. Ma tra i suoi padri fondatori l’Europa annovera anche francesi come Jean Monnet e Robert Schumann, italiani come Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, inglesi come Winston Churchill, lussemburghesi come Joseph Bech, olandesi come Johan Willem Beyen e Sicco Mansholt, belgi come Paul-Henri Spaak. Senza queste figure chiave – leader visionari, animatori instancabili del dialogo tra posizioni e interessi diversi, veri e propri artefici di una politica di integrazione europea – non si sarebbe arrivati alla firma dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957 (entrati in vigore il 1 gennaio 1958), e cioè al momento in cui sei Stati (Germania, Italia, Francia, Lussemburgo, Belgio, Paesi Bassi) diedero vita alla Comunità Economica Europea (Cee).

    Da segnalare è che questi Trattati, insieme alla costituzione della Cee, hanno sancito anche quella della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), mentre la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) era stata già istituita con il Trattato di Parigi del 1951. La Cee ha operato per il libero movimento dei beni, dei servizi, dei lavoratori e dei capitali, per la soppressione dei cartelli e per lo sviluppo di politiche coordinate in materia di lavoro, stato sociale, agricoltura, trasporti, commercio estero. E ciò fino all’entrata in vigore del trattato di Maastricht, 1 novembre 1993, quando ai sei firmatari dei Trattati di Roma si aggiungono Spagna, Portogallo, Danimarca, Grecia, Regno Unito, Irlanda, e alla denominazione di Comunità economica europea si sostituisce, significativamente, quella di Comunità europea (Ce). A questo punto, è esplicito l’intento dell’istituzione di non esaurire il suo mandato nell’ambito della sfera economica dei problemi della collettività.

    Secondo il Trattato di Maastricht, la Comunità ha il compito di promuovere, nell’insieme dei Paesi membri, uno sviluppo armonico, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un livello elevato di occupazione e protezione sociale, un sistema di pari opportunità tra donne e uomini, una crescita duratura e non inflazionistica, un livello ragguardevole di competitività e di convergenza dei risultati economici, l’innalzamento della qualità della vita, la protezione e il miglioramento della qualità dell’ambiente, la coesione sociale e la solidarietà tra gli Stati membri. Per perseguire tali risultati, le politiche settoriali comunitarie spaziano dai temi dell’ambiente a quelli della cultura, istruzione e gioventù, da economia, finanza e concorrenza a libertà, sicurezza e giustizia, da scienza, tecnologia e trasporti a regioni e sviluppo locale, da energia e risorse naturali a relazioni esterne e immigrazione. In sostanza, il Trattato di Maastricht fa della Comunità europea il primo pilastro della futura Unione europea (Ue, nata ufficialmente nel 2007 con il Trattato di Lisbona ratificato nel 2009), e dell’Unione economica e monetaria (Uem) la politica di integrazione più avanzata all’interno del primo pilastro dell’Ue.

    Data l’importanza delle sue ricadute, è opportuno ricordare il programma della realizzazione dell’Unione economica e monetaria così come previsto dal rapporto di Jacques Delors (all’epoca presidente della Commissione europea) a conclusione dei lavori del Consiglio europeo del 1988. Tale programma si sarebbe articolato e perfezionato in tre fasi distinte: a) dal 1 luglio 1990, completa libertà di circolazione dei capitali, libero utilizzo dell’Ecu (Unità di conto europea) in seguito sostituito dall’Euro, più intensa cooperazione fra le banche centrali; b) dal 1 gennaio 1994, creazione dell’Istituto monetario europeo (Ime), divieto di finanziamento del settore pubblico da parte delle banche centrali, maggiore coordinamento delle politiche monetarie, progressiva indipendenza delle banche centrali nazionali; c) dal 1 gennaio 1999, fissazione irrevocabile dei tassi di conversione delle valute, introduzione dell’Euro, conduzione della politica monetaria unica da parte del Sistema europeo di banche centrali (Sebc) costituito dalla Banca centrale europea e dalle banche centrali nazionali degli Stati membri dell’Unione.

    I Paesi membri dell’Ue sono attualmente 28 (dopo la Brexit, il Regno Unito resta al momento membro a tutti gli effetti dell’Unione, con i diritti e i doveri che ne conseguono). L’Euro è la valuta ufficiale di 19

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