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Pillole e caramelle
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E-book274 pagine4 ore

Pillole e caramelle

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Info su questo ebook

Si tratta di riflessioni spesso urticanti perché controcorrente, ma anche di passaggi pieni di poesia e di umanissimi sentimenti.
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2015
ISBN9788891194695
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    Anteprima del libro

    Pillole e caramelle - Manfredo Anzini

    -------------------------------------------

    Ho pagato il mio debito con la società

    Di solito, un ex carcerato che ha scontato la pena, usa un’espressione liberatoria che suona pressappoco così: Ho pagato il mio debito con la società. Nessuno ha più il diritto di pretendere altro da me.

    Il suo stato d’animo è comprensibile. Sicuramente chi ha vissuto quell’esperienza – sebbene egli stesso, salvo casi eccezionali, ne sia stato causa e ciò valga ad eliminare quell’immagine di vittima che cuori buonisti e tanta stampa politicamente corretta tendono ad accreditargli, quasi sia stato messo in galera per il capriccio di qualcuno o dalla cosiddetta società – ne esce provato e non sono rari i casi di difficoltà psicologiche e sociali nei suoi tentativi di reinserimento (tutte, sia ben chiaro, conseguenze delle sue azioni delinquenziali e non della gratuita cattiveria delle persone).

    C’è però qualcosa di stonato, o meglio, di equivoco, anche in quella sua espressione liberatoria: ho pagato il mio debito alla società. A guardare realisticamente le cose, se di debito deve parlarsi, egli non lo ha tanto verso la società, quanto nei riguardi della vittima o vittime del suo agire, compresi coloro, sempre del tutto innocenti, come bambini e familiari, che in casi particolarmente gravi, come omicidi e simili, ne subiscono spesso dolorosissime conseguenze sotto diversi e molteplici aspetti. Purtroppo questa cruda realtà resta sempre in ombra ed a livello di opinione pubblica, o legislativa non si registrano né interventi né sottolineature, né proteste che ne evidenzino la permanente iniquità. Se la nostra fosse o almeno tendesse ad essere una civiltà equa, non ignorerebbe questo fatto che perpetua il male, rendendolo a volte insopportabile alle vittime, se sopravvissute, o ai familiari, soprattutto davanti alle scarcerazioni facili. Una società davvero civile non considererebbe pagamento per il reato commesso il semplice fatto che il carcerato abbia trascorso un certo numero di anni in reclusione (quando avviene!). Un tale pagamento generico, infatti, nei confronti di una società senza volto e senza pena, ha scarsissimo rilievo risarcitivo. I veri destinatari del pagamento dovrebbero essere le vittime innocenti che sono le vere depositarie del dolore, delle ingiuste conseguenze, e dunque le uniche che avrebbero diritto ad un reale risarcimento sia morale, sia, nei limiti del possibile, anche economico. Invece, sebbene la voce risarcimento del danno non sia ignota alla nostra legislazione, (in verità in modo limitato e restrittivo), di fatto appare del tutto trascurato, nella giustizia concreta e nell’opinione pubblica, plagiata dal buonismo imperante, il fondamentale e oggettivo diritto di tutte le vittime dirette o indirette di atti delittuosi, ad ottenere dal colpevole – e non dalla società - il riconoscimento del debito morale ed economico contratto nei loro riguardi. Il fatto che il colpevole dei loro mali abbia pagato il proprio debito col carcere, può risarcire la società per il turbamento e i danni arrecati alla comunità, ma non comporta per le vere vittime alcun beneficio a fronte del danno, spesso incalcolabile, subito.

    Ma allora, cosa fare? Non si pretende né la luna nel pozzo e neppure il ripristino dell’occhio per occhio. Ma di certo esistono modi e vie, da studiare con saggezza, per coinvolgere in modo più incisivo la responsabilità del carcerato in relazione alle vittime ed ai danneggiati dal suo comportamento. In conclusione andrebbe fissato il principio civile di equità per cui non sia possibile considerare pagato il cosiddetto debito alla società, se non si sono verificate alcune condizioni di giustizia nei confronti delle vittime e dei danneggiati, sia di risarcimento morale, come ad esempio, le scuse pubbliche alle sue vittime, senza le quali non può considerarsi soddisfatto il debito alla società, sia di natura economica, prevedendo, ad esempio, già nel provvedimento di condanna definitiva, l’obbligo che il condannato, nei limiti fissati dalla legge, a seconda della casistica, risarcisca con le sue sostanze le vittime della sua azione, e, se privo di mezzi, ma in grado di lavorare, provveda a tale obbligo versando alle stesse, secondo criteri equi, il ricavato di servizi e mansioni svolti durante la sua detenzione. Il mio auspicio è che tutti coloro i quali si battono, meritevolmente, per i carcerati, in quanto esseri umani e da trattare come tali, si mettano la mano sulla coscienza e, per una volta almeno, pensino a chi è stato vittima della loro azione criminosa e che spesso ha perduto, assieme all’irrecuperabile situazione di vita di cui godeva, anche, e per sempre, qualcosa o qualcuno che nessuno mai più potrà restituirgli.

    -------------- °°°°° --------------

    Madre Teresa.

    A un giornalista inglese che la rimproverava, - dopo un attentato che aveva provocato tante vittime in India - , di non aver mai preso posizione contro politici o governi responsabili proprio di molti di quei mali di cui lei quotidianamente si occupava, come malattie, miseria, fame ecc. precisando che per la sua enorme popolarità, le sue parole sarebbero state efficacissime ed avrebbero sicuramente dato avvio a forme di contestazione e di rivoluzione in grado di migliorare in molti posti la situazione delle persone e della società, Madre Teresa rispose che lei si occupava delle persone singole che avevano bisogno ed in questo senso si era prodigata anche per le vittime dell’attentato, ma non si sentiva di dare torto a questo o a quello o di giudicare governanti e politici per il loro modo di esercitare il potere.

    In realtà il fine del suo agire era esercitare la carità in nome di Dio, non quello di cambiare il mondo o modificare gli assetti istituzionali delle nazioni. La sua era una semplice testimonianza di amore e di Fede.

    Penso che Madre Teresa, avesse ragione, e il suo agire sarebbe una meravigliosa lezione di umiltà e di autentica carità, per tutti i religiosi cosiddetti d’avanguardia o d’assalto, a cominciare dai famosi preti operai postsessantottini, e loro successivi imitatori e allievi, alla testa di scioperi selvaggi e contestazioni politiche e sociali, impegnati a cambiare il mondo secondo una certa ideologia, per altro piuttosto lontana – anche perché dichiaratamente materialista – da quella che li aveva spinti alla chiamata del dono di sé, a Dio. Questi strani religiosi in effetti sembrano aver dimenticato del tutto il fine del loro sacerdozio che non era quello di rendere più bella la terra, bensì di preparare gli uomini al cielo.

    E tuttavia, a pensarci bene, anche il giornalista inglese nel suo velato rimprovero sembra abbia detto cose giuste e avanzato delle ipotesi non del tutto irrilevanti. Tanto che sorge spontaneo un dubbio. Non sarà che Madre Teresa non abbia mai toccato le istituzioni e la politica per opportunismo, cioè per non inimicarsele e affinché non le impedissero di aiutare i suoi poveri? Forse era un calcolo buono, ma poteva non essere l’unico da fare.

    -------------- °°°°° -------------

    Democrazia 1.

    E’ dura da digerire, ma è così. La democrazia quantitativa è il trionfo della mediocrità sul valore, del numero sulla qualità, del meno sul più, per il semplice fatto che ad essere meno sono i più.

    Democrazia 2.

    La democrazia come diritto e potere del popolo sovrano, e la più sfacciata ipocrisia politica esistente. Un’impostura cosciente di chi manovra l’opinione pubblica, di chi usa i trucchi della demagogia e del plagio psicologico per avere il potere, proprio sul popolo sovrano.

    Democrazia 3.

    La verità non è democratica.

    -------------------- °°°°° --------------------

    Proporzioni

    Per un bruco, ogni sasso è una montagna.

    Differenze

    L’amore colpo di fulmine va via come viene. Non lascia veri rimpianti. Come certi fiori splendidi che si aprono felici al mattino e muoiono la sera, tanto più belli quanto più precari e fragili. Naturalmente è più difficile dimenticare un amore costruito mattone su mattone, confidenza su confidenza, gioie e dolori condivisi, esperienze di vita in comune che si radicano e che mancano terribilmente quando c’è rottura. E’ come aver accumulato per una vita un patrimonio prezioso e vederselo sparire in un niente, per una stupida bufera maledetta.

    Pena di morte.

    Uno dei tromboni della nuova teologia – ma parlava come ormai pensa buona parte della Gerarchica ecclesiastica post Vaticano II - concionando in una trasmissione radiofonica, ha affermato che la pena di morte è inumana e quindi indegna di una concezione cristiana dell’uomo. Ha aggiunto: Non c’è delitto al mondo che possa giustificarla. A nessun assassino, fosse pure il più abietto tra gli esseri umani, può essere negata la possibilità di ravvedersi ed emendarsi.

    Vorrei provare a rifletterci un po’. Intanto, ravvedersi ed emendarsi sono fatti interiori e quindi non contrastano affatto con il pagamento della pena per il delitto compiuto. Come al solito, si gioca sull’equivoco. Soprattutto sono sorpreso dalla faciloneria con cui esponenti importanti della Chiesa fanno affermazioni del genere senza neanche avvertire il contrasto di fondo con una posizione bimillenaria della dottrina cattolica, che è restata in piedi per secoli, ovviamente sulla base della visione della vita umana sub specie aeternitatis (alla luce dell’eternità) propria del cristianesimo. Non contesto che ciascuno abbia il diritto di pensarla come crede sulla pena di morte e di darne ragione con argomenti di qualsiasi tipo, purché logici. Ciò che sconvolge è la superficialità, l’ipocrisia e la presunzione con cui si pontifica da parte di rappresentanti della gerarchia, ormai corrivi a tutte le posizione del pensiero unico, su un argomento in cui la tradizione millenaria della Chiesa è stata sempre nitida nell’affermazione del contrario. Come se si potesse con argomentazioni, comunque discutibili, cancellare convincimenti, documenti, testi storici e teologici approfonditi e motivati, di secoli su questo argomento.

    Senza voler entrare nel merito della discussione e restando esclusivamente al pensiero cristiano, ho l’impressione che il prelato in questione, sentenziando l’inumanità della pena di morte a prescindere, abbia alzato in realtà il suo ditino accusatore contro la Chiesa che ha previsto e fatto applicare nella sua storia – il più delle volte dal braccio secolare - la pena di morte regolarmente, ma soprattutto ha puntato l’indice contro Dio stesso che, guarda caso, condanna inesorabilmente alla morte eterna il peccatore impenitente. E questa è dottrina dogmatica della Chiesa, basata sui sacri testi. Superfluo chiarire che la morte dell’anima – per un cristiano - è infinitamente cosa più grave e terribile della morte del corpo.

    La pena di morte, in realtà, nella dottrina cattolica, aveva senso proprio per la distinzione fondamentale tra corpo e anima. La pena corporale della morte era anche vista in funzione salvifica dell’anima. Nel corso della storia della Chiesa, in corrispondenza alla legislazione di tutti gli Stati nei secoli passati, la pena di morte, - ribadisco, riguardante il corpo, nella speranza di salvare l’anima - soprattutto nella sua angolazione di espiazione del delitto e del peccato, era una questione di ordinaria amministrazione. S. Tommaso ha argomentato su tale evenienza in modo logico ed irrefutabile. Il succo del suo ragionamento era che, per lo stesso motivo per cui si amputa un arto o altra parte del corpo che metta a repentaglio la vita della persona, o si taglia un ramo malato per salvare una pianta, la società ha il diritto di togliere la vita del corpo ad un suo membro reprobo che minacci la vita sociale e spirituale della comunità, perché il bene dell’insieme prevale su quello della parte malata. Ora invece il mondo può esultare. Grazie a questi nuovi teologi più bravi di Dio, le cose sono cambiate. Essi infatti, in nome della modernità, hanno scoperto che tutta la storia si è sbagliata, si è sbagliata la Chiesa, il Cristianesimo, il Creatore. E’ contro l’umanità punire con la pena di morte chi ha ucciso, anche efferatamente, uno o più persone. La Chiesa dunque può finalmente presentarsi adeguata ai tempi.

    ------------ °°°°° ------------

    Donna

    La donna? Un alibi perenne per sé stessa, un equivoco permanente per gli altri.

    La donna non è mai quello che sembra.

    Nudo femminile.

    Sarò diverso dagli altri, ma per quel che mi riguarda, il nudo femminile totale mi intimidisce, non mi eccita. Molto più mi accende il mistero, il seminascosto, il quod intrinsecus latet (= Ciò che è nascosto più internamente/intimamente). A due seni nudi, raramente perfetti, preferisco l’increspatura disordinata e rigonfia della camicetta che delinea e lascia immaginare la soffice dolcezza che vi si nasconde. Non è l’offerta del nudo la massima provocazione sessuale, ma l’insieme del gioco del semi-nascosto/svelato che suscita dolcissimi brividi di desiderio e fa sognare felicità vertiginose.

    La Resistenza. 1

    A parte casi singoli di vero eroismo e altruismo ideale, davvero rari e individuali, tutto il resto della Resistenza italiana è un fenomeno estremamente opaco, ampiamente e variamente manipolato dalle forze politiche interessate per accreditarsi meriti e diritti privi di fondamento. L’operazione iniziata nei primi mesi del ’45, ha avuto nel corso degli anni sempre maggior successo fino a plagiare totalmente l’opinione pubblica del Paese. Da qualche anno sono apparse crepe e perplessità sulla legittimità di tale convincimento, subito ovviamente contrastate e demonizzate, ma ogni 25 aprile, quando si festeggia la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, non c’è nessuno, specie nelle generazioni postbelliche, che non creda sinceramente che è stata la Resistenza a far fuori i nazifascisti dall’Italia, versando il proprio sangue e riconquistando la nostra libertà perduta. Ma stanno proprio così le cose?

    La verità è invece che le truppe alleate, sbarcate in Sicilia, ci misero quasi due anni (giugno ’43 – maggio 45) per risalire lungo l’intera penisola, liberandola dai tedeschi paese dopo paese, ma riducendola purtroppo ad un cumulo infernale di macerie. Anche perché le strategie di sbarramento teutoniche erano ingegnose e difficili da superare, per cui gli alleati non si spostavano di un metro in avanti se prima non avevano spianato il territorio con la loro artiglieria e con i bombardamenti a tappeto che piovevano dagli enormi e terrorizzanti quadrimotori liberator (ironia di un termine!). Io c’ero e li ho visti quei mostri, con i miei occhi allibiti. Avevo quasi quindici anni e nella memoria mi rimbomba ancora il frastuono terrificante provocato dal brulicare di centinaia e centinaia di quei sinistri uccellacci che transitavano riempiendo l’intera volta celeste in direzione delle loro missioni di sterminio nei territori ancora occupati dai soldati di Hitler. Altro che Resistenza che ha liberato l’Italia.

    In proposito, a dare la misura reale del peso avuto dalla Resistenza nella liberazione dell’Italia, è interessante notare la coincidenza temporale tra lo sfondamento della linea gotica, nei pressi di Rimini, da parte degli Alleati il 21 aprile – dopo quasi due lunghi anni di guerra in lentissima risalita nelle devastate contrade d’Italia – e la proclamazione a Milano, da parte del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) dell’insurrezione generale contro i nazifascisti, il 25 aprile, a giochi quasi conclusi. Il significato della coincidenza diventa assai più chiaro se si pensa che dal 21 al 23 aprile le forze alleate, ormai senza ostacoli, erano dilagate nella pianura padana ( il 23 erano già sul Po di Ferrara , il 24 già a Villafranca nei pressi di Verona, e contemporaneamente, con manovra avvolgente, avevano occupato l’intera fascia subpadana che da Bologna si estende ai grandi capoluoghi liguri). In realtà non c’era più resistenza tedesca organizzata. Infatti negli stessi giorni, tra il 22 ed il 25 aprile, diversi corpi e divisioni tedesche, ormai allo sbando dopo lo sfondamento della linea gotica, si erano arrese agli angloamericani, (la formale resa incondizionata di tutto il contingente tedesco in Italia, già in trattative prima del 25, sarà ufficializzata a Caserta il 29 aprile).

    La realtà, cioè la verità dei fatti, è tutta qui. Chiunque è dotato di semplice lealtà mentale e quindi in grado di riflettere su questi dati ha qualche motivo per non condividere l’affermazione che la Resistenza abbia liberato l’Italia dal nazifascismo, come proclamano ad alta voce la vulgata e la retorica soprattutto di una certa parte politica. Tutti la possono pensare come vogliono, ma i fatti parlano da soli.

    Infine, se non bastassero gli avvenimenti ed i dati temporali elencati a suffragare la ragionevolezza del dissenso nei riguardi di una ricostruzione storica (quella della liberazione dell’Italia da parte della Resistenza) così poco documentabile, ci si può aggiungere a conferma ulteriore la gelida constatazione che alla firma dei Trattati di Parigi nel febbraio’47 (preceduta, si badi bene, da una Conferenza di Pace riunitasi nella stessa capitale dal Luglio all’Ottobre del ’46), non ci fu una sola voce, neanche flebile, nostra o altrui, che in base ai supposti meriti della nostra Resistenza nella liberazione della penisola, reclamasse di tenerne conto e di metterli sulla bilancia affinché i sanguinosi tagli e sacrifici che i vincitori si apprestavano ad imporre alla nostra povera patria, fossero mitigati di almeno un millesimo. Questo semplice fatto dimostra già da solo l’irrilevanza, per loro, della Resistenza italiana nella liberazione del proprio territorio. Perciò i vincitori si sono potuti accanire a spogliarci cinicamente, come hanno voluto, togliendoci il giusto e l’ingiusto. Fa ancora male al cuore scorrere l’elenco delle depredazioni territoriali nazionali (Dalmazia, Istria, territori e centrali energetiche) ed estere (le diverse Colonie ed il Dodecanneso) attraverso cui i liberatori hanno strappato all’Italia carne della sua carne. Gli esuli istriani e gli italiani delle magnifiche città dalmate, dovunque oggi vivano, sono ancora lì a piangere la loro terra perduta. Questa è storia; il resto è retorica, neanche onesta.

    La Resistenza 2 (il secondo risorgimento)

    La cosa che lascia basiti è che, tuttavia, nonostante l’evidenza dei fatti narrati, il mito resiste saldo, più vivace che mai, e sono sicuro che le poche e semplici osservazioni appena vergate, per altro incontrovertibili, faranno arrabbiare parecchi. D’altra parte, non si era tentato di accreditare, non molto tempo fa, anche un altro mito e cioè che la Resistenza fosse il nostro secondo risorgimento?. Per fortuna è prevalso, almeno fino ad oggi, il buon senso ed anche l’elevato tasso di ridicolo che sul piano storiografico emergerebbe chiaramente dal raffronto. Viva dunque la misura. Altrimenti, mettendo insieme i due miti, cioè la resistenza come secondo risorgimento e la resistenza come liberatrice dell’Italia nell’ultima guerra mondiale, noi, cittadini del bel Paese, rischiamo di doverci sorbire, sconcertati, due delle più colossali bufale della storia moderna e non solo italiana.

    La Resistenza 3 (I partigiani)

    E’ sempre così delicato e urticante affrontare questi argomenti. Mi si consenta comunque di ragionarci su un po’, con lealtà intellettuale e limpidezza di pensieri. Vorrei solo analizzare qui, brevemente, alcuni aspetti del sempre spinoso argomento dei partigiani, cioè del braccio armato della resistenza.

    Intanto distinguerei i partigiani veri dai replicanti postbellici fioriti miracolosamente appena il termine divenne un distintivo cui erano appesi onori e privilegi vari.

    In secondo luogo, separerei coloro che divennero partigiani per necessità – la maggior parte – nel senso che furono costretti a prendere i sentieri della montagna o altre vie di latitanza per sfuggire ai continui rastrellamenti tedeschi a caccia di manodopera sottocosto, dai pochi altri, che scelsero volontariamente di darsi alla macchia per motivi ideali e per contribuire in qualche modo alla lotta contro i tedeschi occupanti.

    Infine, anche tra le formazioni partigiane in cui si erano organizzati i singoli – con le diverse motivazioni accennate -, distinguerei i gruppi fortemente ideologizzati, in genere strettamente legati al partito politico di riferimento, in modo perfino prevalente rispetto allo stesso interesse nazionale - è il caso delle brigate comuniste –, dai gruppi meno politicizzati in senso stretto e quindi meno coinvolti, anche militarmente, in piani che trascendevano la liberazione del Paese.

    E’ chiaro che quando si parla di partigiani in generale, il termine è uguale, ma la sostanza umana e ideale, come si è visto, è diversa. Purtroppo non è facile riuscire a dare a ciascuno il suo. Ci sono stati partigiani onesti, leali e pronti al sacrificio anche di sé, e partigiani disonesti, che hanno perseguito i loro interessi e perpetrato le loro vendette personali; partigiani convinti della nobiltà della loro scelta e che si sono davvero spesi per la patria, e partigiani di parte, capaci perfino di uccidere compagni partigiani di fede diversa, accecati dalla passione politica; partigiani che sono morti per la patria a viso aperto e partigiani che hanno preferito uccidere alle spalle il nemico e scappare, lasciando nella tragedia i suoi concittadini. Onore dunque a chi lo ha meritato.

    L’ultimo accenno mi obbliga a soffermarmi e riflettere sulle loro strategie.

    A mente serena – placate ormai, dopo tanti anni, le polemiche e gli odi di parte - mi sembra che oggettivamente, certi modi di combattere alla macchia lascino quanto meno perplessi. Di sicuro nessuno negherebbe al partigiano il diritto di compiere tutte quelle azioni che nuocciano al nemico o ne rallentino l’azione. Ogni forma di sabotaggio sotto questo aspetto è ragionevolmente ammessa, assieme a forme di logoramento, impedendo rifornimenti, facendo saltare ponti, procurando insicurezza, creando atmosfera e ambiente difficile, organizzando forme di spionaggio a favore delle truppe liberatrici ecc. Mi lascia invece assai dubbioso l’atteggiamento di qualcuno – perché in realtà non furono tantissimi i casi del genere – che ha ritenuto essere suo dovere far fuori il nemico dovunque e ad ogni costo, anche se il prezzo di sangue della sua eroica azione non lo avrebbe pagato lui (allora sì, sarebbe stato un eroe) ma altri suoi concittadini, assolutamente ignari e innocenti. Mi riferisco alle uccisioni di militari germanici isolati o in gruppo, non in scontri diretti, bensì, alle spalle o in imboscate. Tutto bene, se si tratta di normali azioni di guerra. Ma non mi sembra accettabile, - almeno sul piano di una pacata riflessione - che un partigiano, abbia il diritto di premere il grilletto su un tedesco, sapendo a priori e con certezza matematica che mentre uccide quel nemico, trascina con lo stesso colpo in una orribile morte 10 ignari e innocenti persone, italiane come lui. E’ più facile capire questa semplice constatazione se ci si mette un istante dalla parte delle vittime innocenti, le quali non sono martiri, come la retorica li chiama (il martire è il testimone volontario di un’idea; lo fu Cesare Battisti, lo furono i martiri cristiani e tanti

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