I nodi del crescere: Quattro fili da non perdere dall'infanzia all'adolescenza per genitori e insegnanti
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Questo non è un manuale, ma uno scritto composto da semplici riflessioni riferite a esperienze di vita reale, raccolte nell'attività di sportello d'ascolto in scuole dell'infanzia, primarie e secondarie e nell’attività clinica presso un centro di psicoterapia. Incontri fugaci ma sempre intensi e profondi, con genitori e insegnanti, qualche volta anche con bambini e adolescenti. Incontri che talora hanno fatto la differenza, trasformando quello che sembrava un groviglio complicato in un legame più saldo e sicuro.
I quattro fili dell’educazione proposti in queste pagine vogliono aiutare chi sta svolgendo il difficile e meraviglioso compito di essere vicino a bambini e ragazzi in formazione. Sono fili colorati e distinti, che a volte si attorcigliano. Spesso ci può sembrare di perdere il bandolo della matassa, ma nel momento in cui riusciamo a ritrovarlo, scopriamo di essere genitori e insegnanti unici e insuperabili, proprio quelli che i nostri bambini e ragazzi ci chiedono di essere.
Serena Zucchi
Nata a Torino, psicologa psicoterapeuta. Lavora da più di vent'anni nelle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie nella gestione di sportelli di ascolto psicologico e in progetti di promozione della salute. Pratica attività clinica presso il Centro di Psicoterapia dell’Adolescente e del Giovane Adulto dell’ASL TO3.
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I nodi del crescere - Serena Zucchi
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Serena Zucchi
I nodi del
crescere
Quattro fili da non perdere
dall'infanzia all'adolescenza
per genitori e insegnanti
Effatà Editrice logoAl sorriso di Vale
mamma attenta
e amica preziosa
Prefazione
Come ricercatrice universitaria in Psicologia dello sviluppo sono una famelica lettrice di novità in tema di educazione e genitorialità, ma il testo di Serena Zucchi è differente dalla maggior parte di ciò che ho consultato negli ultimi anni: l’autrice riesce a coniugare la scientificità concettuale con uno stile narrativo non solo accattivante, ma anche poetico, riuscendo contemporaneamente a toccare le corde emotive e a stimolare la curiosità intellettuale. Si tratta di un volume snello nel numero di pagine, ma colmo di riflessioni e di esempi concreti; un testo «di peso», eppure «leggero» nel modo di porgere i contenuti. E sono contenuti articolati, complessi e delicati, quelli che l’autrice sceglie di affrontare, sulla base della sua esperienza pluriennale come psicologa in uno sportello d’ascolto per genitori e insegnanti e come psicoterapeuta. Le tematiche, che attengono alla funzione educativa, sono rappresentate metaforicamente come fili colorati intrecciati tra loro: prendersi cura (filo giallo), orientare verso l’autonomia (filo azzurro), presidiare la relazione (filo verde) e comunicare (filo rosso).
Rimanendo aderente alla metafora dei «fili» proposta dall’autrice, mi pare di poter rintracciare in due parole chiave quelli che potremmo immaginare come i «nodi» attorno a cui tali fili si intrecciano e si intersecano, a formare la trama di un immaginario telaio. Le parole/nodo sono: responsabilità e ascolto.
La prima parola/nodo — responsabilità — è intesa come responsabilità dell’adulto nei confronti delle nuove generazioni, anzi come corresponsabilità di tutti gli adulti che si occupano dei bambini, poiché allevare i bambini non è un’impresa per una persona sola, come ci ricorda ad esempio John Bowlby. Per responsabilità intendo la consapevolezza di avere il compito di salvaguardare, accompagnare e sostenere il processo di crescita. In una società in cui oggi si riconoscono i diritti dei bambini, paradossalmente meno enfatizzato è proprio il «rovescio della medaglia», ovvero i doveri degli adulti. Eppure, come sottolineato da Serena Zucchi nelle conclusioni, il bambino apprende dal modello che, come adulti di riferimento, gli offriamo. Allo stesso modo, cresce dentro al clima emotivo che siamo capaci di costruirgli attorno, si alimenta con le parole che gli rivolgiamo, costruisce un’immagine di sé sulla base di quella che noi gli rimandiamo.
Le neuroscienze, più volte richiamate lungo il testo, ci mettono di fronte a prove salienti su come l’identità, a partire dall’infanzia, emerga dall’interazione tra mente, cervello e relazioni interpersonali. Il cervello ha una natura plastica e plasmabile: la sua organizzazione si modifica a seconda delle informazioni che riceve dall’ambiente, e dunque cambia in base alle esperienze che l’individuo compie. Daniel J. Siegel, insigne psichiatra americano di fama internazionale, così si esprime nel suo testo Yes Brain: «Poiché noi genitori abbiamo la capacità di favorire la formazione e il rafforzamento di connessioni importanti nel cervello del bambino in base a dove e a come ne dirigiamo l’attenzione, è fondamentale che riflettiamo sulle esperienze che gli facciamo compiere e sul tipo di connessioni che tali esperienze contribuiscono a creare nel suo giovane cervello [...]. Facciamo un esempio. Se leggiamo una fiaba a nostro figlio e gli domandiamo: Perché pensi che quell’evento abbia fatto piangere la bambina?
, gli offriamo l’opportunità di creare e rafforzare i circuiti dell’empatia». Tale calzante esempio, come molti altri presenti nel testo di Serena Zucchi, ci fanno capire come la responsabilità si declini in minuscole azioni e interazioni quotidiane, che diventano, per riprendere le parole di Siegel, «opportunità» di sviluppo che possiamo offrire ai bambini.
Anche le azioni apparentemente più insignificanti possono a volte smuovere equilibri profondi; come ci insegna l’«effetto farfalla», anche un battito d’ali può creare una serie di modificazioni non lineari che portano all’insorgere di un tornado. Ma questa presa di coscienza non deve intimorire, anzi. La consapevolezza della propria responsabilità è nemica dell’immobilismo e dell’impotenza. È un antidoto rispetto a sfiduciate ritirate di fronte a bambini che «sono fatti così e non ci si può fare niente». E invece ci interroga su come riconoscere e accogliere la specificità di ciascun bambino (il suo «essere così»), con la consapevolezza di essere noi a dover trovare il modo per rispondere ai suoi bisogni unici e speciali.
Nella cornice della responsabilità mi sembra si possa anche leggere, ad esempio, un’affermazione provocatoria e spiazzante di Serena Zucchi: «La gelosia non esiste», con cui vuole sottolineare la necessità che i genitori, di fronte ai conflitti tra fratelli e a richieste di attenzione esclusiva, si concentrino sui bisogni espressi dai bambini, invece che trincerarsi dietro deresponsabilizzanti motivazioni estrinseche, come ad esempio una fisiologica gelosia tra fratelli, che si traduce in immobilismo («È geloso: non ci si può fare nulla»), o in alibi nei confronti di un mancato ascolto delle esigenze profonde di un figlio che reclama di ritrovare un suo spazio. La responsabilità dell’adulto è dunque anche quella di porsi in autentico ascolto del bambino e dei suoi bisogni.
Ecco dunque che viene richiamata la seconda parola/nodo: ascolto, appunto. Ascolto da intendersi come capacità di connettersi emotivamente con l’altro, di sintonizzarsi sulla sua lunghezza d’onda emotiva, di assumere la sua prospettiva. Ciò significa concepire l’ascolto come un processo attivo, intenzionale, che comporta concentrazione e richiede un tempo disteso e dedicato in maniera esclusiva all’altro. Dunque non un ascolto affrettato, orientato a fornire soluzioni e consigli o a formulare giudizi; non un «udire» distratto, estemporaneo, episodico, prodotto di circostanze fortuite. Ma piuttosto un ascolto frutto di scelta consapevole, che implica disponibilità, apertura e anche flessibilità, perché ascoltare in modo autentico comporta accettare la possibilità di modificare la propria prospettiva, i propri modelli interpretativi e rappresentazioni mentali. Come Serena Zucchi dimostra con il suo scritto, le esperienze di ascolto empatico sono altamente trasformative: per colui che viene ascoltato, che, grazie all’essere «visto», scopre qualcosa di sé, e anche per colui che ascolta, che si trova a rivedere le proprie aspettative e le proprie idee sull’altro.
L’ascolto è una parola/nodo perché è trasversale a tutti i «fili» delineati dall’autrice: l’ascolto è infatti necessario per prendersi cura (filo giallo), orientarsi verso l’autonomia del bambino (filo azzurro), presidiare la relazione (filo verde) e comunicare (filo rosso), e ciò è anche evidente — come sotto traccia — nello stratagemma di «dare voce» ai diversi protagonisti del libro (adulti, bambini, adolescenti incontrati, a volte solo indirettamente, nell’attività di consulenza psicologica allo sportello d’ascolto) che, lungi dall’essere trattati come casi clinici da sezionare e analizzare, diventano invece interlocutori da ascoltare, da comprendere, con cui empatizzare. Un ascolto «libero da giudizio» (per utilizzare un termine introdotto da Carl Rogers) diventa strumento di valorizzazione dell’altro, in un contesto in cui emozioni e pensieri dell’individuo sono riconosciuti, compresi, in qualche modo legittimati. Attraverso l’ascolto si trasmette un messaggio di fiducia nell’altro («Tu sei degno della mia attenzione; quello che dici/pensi/provi è prezioso per me») e ci si dimostra degni di fiducia in quanto, appunto, capaci di ascoltare, coerenti, disponibili. Solo dopo questa fase di sintonizzazione empatica è possibile cercare insieme soluzioni nuove ai problemi prospettati. L’ascolto permette di migliorare la propria capacità di riflettere su di sé, sul proprio percorso di vita. E ciò è vero sia per gli adulti sia per i bambini e i ragazzi.
Essere ascoltati da un genitore, da un insegnante, o anche da un esperto esterno (come può essere lo psicologo di uno sportello d’ascolto) consente di acquisire una maggiore consapevolezza dei propri «movimenti» interiori, di chiarire a se stessi i propri vissuti, e quindi, in ultima analisi, di sentirsi responsabili delle proprie azioni e delle proprie scelte.
Ecco che dunque il cerchio si chiude e l’immagine sul telaio si completa: l’assunzione di responsabilità da parte degli adulti nei confronti dei bambini e dei ragazzi, attraverso la cura, la promozione dell’autonomia, la relazione e la comunicazione — tutti aspetti che sono possibili esclusivamente grazie all’ascolto — promuove le loro capacità di essere responsabili verso se stessi e, nel futuro, verso le generazioni a venire, o almeno questo è ciò che auspichiamo.
Donatella Scarzello
Introduzione
Da diverso tempo avevo nel cuore di mettere per iscritto le riflessioni dei colloqui che da più di vent’anni conduco presso uno sportello di ascolto psicologico per genitori e insegnanti delle scuole dell’infanzia, primaria di primo e di secondo grado. I bambini di cui parliamo vanno dunque dai tre ai quattordici anni. Raramente mi capita di avere consultazioni dirette richieste dai ragazzi e autorizzate dai genitori.
Negli anni ho incontrato diversi temi ripetuti: l’autonomia, le paure, le regole, le punizioni, lo studio, il cibo, il dialogo e altri ancora. I visi cambiano, le situazioni si diversificano, ma la sostanza rimane la stessa: una profonda sofferenza, un dolore apparentemente inconsolabile nel prendere atto che proprio con i figli così amati o con gli allievi così seguiti qualcosa non va.
Un’altra parte della mia attività clinica presso un centro di psicoterapia per adolescenti e i giovani adulti mi ha ulteriormente spronato offrendomi un altro punto di vista: gli adolescenti e i giovani che seguo vanno dai sedici ai ventisei anni e, se pur ormai «grandi» e anagraficamente pronti per iniziare a vivere in autonomia, sono fermi, ancorati a ricordi che li legano a episodi dell’infanzia. Sono immagini che spesso si riferiscono alle mura domestiche, altre volte al contesto scolastico. Raramente riguardano episodi estemporanei vissuti con sconosciuti. Si tratta spesso di situazioni dalla sconcertante banalità, ma forse proprio per questo così devastanti per la piccola mente in formazione di un bimbo: la mamma sempre arrabbiata, il papà tanto nervoso a tavola, la maestra che umilia di fronte alla classe con epiteti o esternazioni, la goffaggine nel fare la capriola alla scuola dell’infanzia o nel misurarsi nella corsa di velocità, gli intervalli passati in solitudine al banco. I ragazzi con cui ho lavorato nei percorsi di psicoterapia individuale attribuivano a queste immagini l’esordio della loro tristezza, della sfiducia in loro stessi, della difficoltà di percepirsi competenti e efficaci nell’affrontare difficoltà. D’altra parte, difficile sentirsi diversamente se la loro mente, da quando loro ne hanno la percezione e probabilmente anche già da prima, è costellata di incontri mancati proprio con le persone che avrebbero dovuto prendersi cura di loro.
Così, senza l’ambizione di essere esaustiva presentando un manuale, ho deciso di cimentarmi in un breve scritto composto da semplici riflessioni riferite a esperienze di vita reale. Contengono in sé l’essenza di tanti incontri e un aiuto a chi sta intraprendendo il difficile e meraviglioso compito di essere vicino a bambini e a ragazzi in formazione.
È uno scritto rivolto agli adulti ma che si riferisce ai bambini e ai ragazzi. Sono loro i destinatari finali di queste pagine. È per questo che in ogni paragrafo do loro la parola, perché esprimano il loro punto di vista e il loro vissuto.
Premessa
L’educazione è una questione di fili
Spesso mi sono trovata a valutare con genitori e insegnanti momenti critici nella crescita dei figli e degli allievi. Bambini che si auto sospendono dal giocare, dal mangiare, dallo studiare, dal dormire lasciando agli adulti l’impressione di essere impotenti spettatori di