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Il Settecento - Filosofia (58): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 59
Il Settecento - Filosofia (58): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 59
Il Settecento - Filosofia (58): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 59
E-book533 pagine4 ore

Il Settecento - Filosofia (58): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 59

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Info su questo ebook

È abitudine diffusa etichettare il Settecento come il secolo dell’Illuminismo, come l’epoca del razionalismo. È indubbio che in questo secolo la filosofia, mentre riprende e sviluppa i temi fondamentali del razionalismo e dell’empirismo del secolo precedente, procede a una critica serrata della metafisica tradizionale, dei principi religiosi, della fiducia di un rapporto “facile” e garantito tra la mente umana e la realtà che essa presume di conoscere. È in questo secolo che la tematica dell’empirismo di John Locke viene ripresa in direzioni diverse sia da Berkeley sia da Hume, procedendo a un ribaltamento totale delle teorie della conoscenza, che troverà la sua maggiore espressione nel criticismo di Kant. È indubbio che nel corso del secolo viene ripreso e sviluppato il meccanicismo cartesiano: la macchina, che subisce in quest’epoca una trasformazione radicale, diventando sempre più automa, prescindendo dall’assistenza dell’uomo, viene assunta come modello, sia pure ridotto, dell’organismo umano. Sul piano politico poi i concetti di Stato, di comunità, di governo assumono una dimensione “laica”, vengono messe in questione le funzioni tradizionali del Trono e dell’Altare, e si approfondisce la tematica del libero pensiero e della tolleranza, già inaugurata nel secolo precedente da Locke e Spinoza. Con questo ebook si potrà percorrere il pensiero di un secolo che vive sotto il segno dell’Encyclopédie, in cui sembrano imporsi a ogni livello d’indagine la luce della ragione e il filtro spietato dell’investigazione critica, ma dove non mancano fantasie ermetiche e speculazioni occulte cui si dedicano pensatori illustri del calibro di Newton.
LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2014
ISBN9788897514954
Il Settecento - Filosofia (58): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 59

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    Anteprima del libro

    Il Settecento - Filosofia (58) - Umberto Eco

    copertina

    Il Settecento - Filosofia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Settecento

    Filosofia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla filosofia del Settecento

    Umberto Eco

    Illusioni storiche

    Più che della filosofia del XVIII secolo in questa introduzione si parlerà della filosofia nel XVIII secolo perché nulla può essere più ingannevole delle grandi periodizzazioni storiche, in cui un’epoca viene etichettata in base alle tendenze che, agli occhi dei posteri, sono apparse come le più significative.

    In ogni manuale scolastico il XVIII secolo è identificato con l’epoca dei Lumi o, per usare una espressione italiana che in altre lingue assume diversi significati, viene etichettato come il secolo dell’Illuminismo. In altri casi è definito come l’epoca del razionalismo. È indubbio che in questo secolo la filosofia, mentre riprende e sviluppa i temi fondamentali del razionalismo e dell’empirismo del secolo precedente, procede a una critica serrata della metafisica tradizionale, dei principi religiosi, della fiducia in un rapporto facile e garantito tra la mente umana e la realtà che essa presume di conoscere. È in questo secolo che la tematica dell’empirismo di John Locke viene ripresa in direzioni diverse sia da George Berkeley sia da David Hume, procedendo a un ribaltamento totale delle teorie della conoscenza, che troverà la sua maggiore espressione nel criticismo di Immanuel Kant. È indubbio che nel corso del secolo viene ripreso e sviluppato il meccanicismo cartesiano: la macchina (che subisce in quest’epoca una trasformazione radicale, diventando sempre più automa, macchina che fa il proprio lavoro da sola, provocando così la Rivoluzione industriale) viene assunta come modello, sia pure ridotto, dell’organismo umano. È indubbio che in questo secolo appaiono filosofie sensistiche e materialistiche; che le dottrine economiche e politiche si sviluppano attraverso una attenzione scientifica, realistica, ai fenomeni sociali. I concetti di Stato, di comunità, di governo, assumono una dimensione laica; vengono messe in questione le funzioni tradizionali del Trono e dell’Altare, si approfondisce la tematica del libero pensiero e della tolleranza (peraltro già inaugurata nel secolo precedente da Locke e da Spinoza). Il secolo si conclude con la Dichiarazione d’indipendenza americana – che provocatoriamente inizia definendo come fine fondamentale dell’uomo la felicità – e con la Costituzione civile del clero e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo nel quadro della Rivoluzione francese.

    Lumi e partita doppia

    La luce della ragione, il filtro spietato dell’investigazione critica sembrano imporsi a ogni livello d’indagine. In questo senso non è inesatto vedere il secolo sotto il segno dell’Encyclopédie.

    Questa gigantesca impresa è significativa per molti versi. Con essa si sottomettono tutti i dati del sapere tradizionale a una radicale revisione critica; si presenta una silloge di tutte le conoscenze nell’ambito della quale non si evitano le contraddizioni, i punti di vista diversi, tutti ammessi con pari tolleranza. È vero che la tolleranza è talora l’effetto di calcolo prudente, per compensare gli interventi che rischiano la censura con altri più accomodanti: ma anche questo senso di una flessibile politica della cultura è tipico della sensibilità settecentesca.

    Si dissolve in questi anni la divisione tra una casta di sapienti che lavorano intorno alle università (come sarà ancora Kant) e una comunità di laici curiosi e indipendenti, egualmente versati in filosofia, scienze naturali, letteratura, capaci di usare l’arma del trattatello o del pamphlet per far circolare nuove e corrosive idee (si pensi a personaggi come Montesquieu, Voltaire e Diderot), in cui vengono presentati personaggi fantastici (persiani o abitanti di stelle lontane) per aiutarci a guardare al nostro mondo con spirito critico e ironico. A questa atmosfera appartiene anche il romanzo filosofico e la pleiade di romanzi utopici, che fioriscono in questi anni, e che manifestano il gusto, l’ansia, l’eccitazione della scoperta di nuove terre e nuove forme di società.

    La nuova filosofia, di cui certamente l’Encyclopédie è il manifesto, si piega a riflettere sui nuovi portati della tecnica, sul valore del sapere artigiano; e soprattutto si stabilisce un diverso legame tra cultura e industria, nel senso che l’Encyclopédie è al tempo stesso una monumentale impresa filosofico-scientifica e una impresa industriale, condotta calcolando costi e rendimenti. D’altra parte in questo secolo ogni impresa culturale (compresa la letteratura) diventa contemporaneamente impresa economica: gli autori del nuovo romanzo inglese fanno i conti con un pubblico determinato di acquirenti, composto non più di mecenati, bensì di mercanti e di donne; d’altra parte per questa nuova borghesia nasce anche un genere di divulgazione scientifica, in cui la trasmissione del sapere tiene d’occhio anche le classi emergenti. Tutti questi fenomeni non possono influire su uno stile di pensiero, che sovente acquista anche una maggiore affabilità, evita le formule ipertecniche per assumere il tono pacato della conversazione tra laici ansiosi di conoscere ma estranei alle dispute scolastiche.

    Occultismo e scienze anomale

    Ma questo secolo che, secondo lo stereotipo appena delineato, ci appare in una luce di chiarezza, illuminato appunto dai lumi della Ragione, è anche un secolo percorso dalle fantasie ermetiche che hanno agitato il secolo precedente. In esso ancora scrive un uomo come Isaac Newton, che è certamente il padre di una nuova visione scientifica ma al tempo stesso un pensatore immerso in speculazioni occulte, il quale nel 1704 (nella sua Ottica) afferma che il cambiamento dei corpi in luce e della luce in corpi è del tutto conforme alle leggi della natura, perché la natura sembra affascinata dalla trasmutazione: delighted with transmutation.

    L’alchimia da un lato cede il passo alla nuova chimica, ma dall’altro continua come filone non troppo sotterraneo. La speculazione magico-cabalistica si prolunga a nutrire il pensiero occultistico del secolo successivo (è per esempio del 1729 il Tractatus mago-cabbalistico chymicus di Georg von Welling). Lo sviluppo di quella che è stata definita linguistica illuministica e l’invenzione di nuove lingue universali per la diffusione del commercio e delle idee rivoluzionarie sono accompagnati passo passo dalla rivisitazione delle dottrine su un’origine mistica e remota delle lingue (è del 1773 il monumentale Le monde primitif di Court de Gebelin).

    Il Settecento è un’epoca di mistici (Emanuel Swedenborg, Louis-Claude de Saint-Martin, Friedrich Christoph Oetinger) e alla fine del secolo si sviluppa una filosofia della natura (per esempio con i primi scritti di Franz von Baader) che andrà a nutrire le speculazioni del romanticismo – il quale prende le mosse con lo Sturm und Drang negli anni Settanta del secolo – mentre del 1797 sono gli Inni alla notte di Novalis. Sul declinare del secolo prende forma la reazione mistica e legittimista alla Rivoluzione francese, che avrà la sua massima espressione nel pensiero di Joseph de Maistre.

    Il Settecento è l’epoca in cui circolano e fanno filosofia (anche se non dei Lumi) cultori di scienze anomale come Mesmer e Lavater, trionfano come maestri di pensiero avventurieri quali il conte di Saint-Germain o Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, e un ininterrotto filone di alchimisti, rosacrociani, templaristi va a nutrire le discussioni della massoneria (almeno nel suo filone scozzese o occultista e templare). Tutte queste influenze non sono da sottovalutare, non solo perché vi soggiacciono personaggi della statura di Goethe, ma anche perché è questo filone di un Settecento mistico e tradizionalista che andrà a costituire non solo quelle che saranno definite le sorgenti occulte del romanticismo ma tutto il pensiero tradizionalista, reazionario e legittimista del secolo XIX (e del XX).

    Diverse anime

    Ma il XVIII secolo è anche quello in cui abbiamo, con Giambattista Vico, i prodromi dello storicismo, e si sviluppa una attenzione agli aspetti non neoclassici dell’esperienza estetica (si pensi alle dottrine del sublime). La riflessione sulle passioni e sul sentimento, che ha già avuto inizio nel secolo precedente, va a investire gli aspetti più oscuri e ambigui dell’animo umano: né basta citare Jean-Jacques Rousseau, perché proprio nel nostro secolo si è preso a riflettere anche sull’aspetto filosofico dell’opera del marchese de Sade. È a queste istanze del sentimento che tenterà di offrire una fondazione la Critica della Ragion pura kantiana, che sembra riprendere e riorganizzare le riflessioni settecentesche, ma in effetti si presta a una lettura ben più romantica nel secolo successivo.

    Insomma, a epitome della vicenda di pensiero del XVII secolo potrebbe valere la parabola di Napoleone, che inizia come tecnico dell’artiglieria al servizio della Dea Ragione rivoluzionaria ed entra nel secolo successivo come l’Eroe, il Genio titanico salutato da Ludwig van Beethoven. Il XVIII secolo manifesta più di un’anima e sfugge alle classificazioni da manuale; fa nascere diverse forme di pensiero filosofico, e solo per illusione storica si ritiene che quella illuministica sia stata la sola vincente.

    Idee, esperienza e senso comune

    La filosofia inglese e i liberi pensatori

    Antonio Senta

    Tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento in Gran Bretagna si sviluppa un dibattito tra i campioni dell’ortodossia religiosa e i deisti. Questi ultimi sostengono la necessità di depurare le religioni positive da tutte le assurdità che secoli di superstizione hanno depositato sul nucleo originario e razionale della religione naturale.

    Premessa

    Fino al Seicento la parola deismo, in quanto contrapposta ad ateismo, indica ancora la semplice credenza nell’esistenza di Dio. Blaise Pascal è tra i primi ad attribuire un significato più specifico a questo termine, che impiega in senso denigratorio, opponendo il deismo al vero cristianesimo. Con l’avvento dell’Illuminismo in Inghilterra, alcuni liberi pensatori fanno propria la definizione di deismo per diffondere una loro visione anticlericale e antidottrinaria della religione.

    La diffusione del metodo di ricerca newtoniano nell’ambito delle scienze naturali fa emergere l’esigenza di estendere i principi dell’indagine empirica agli altri campi del sapere e in particolare alla morale e alla teologia. Sebbene Newton stesso sia ben lungi dal rifiutare la metafisica implicita nella religione rivelata, i deisti si avvalgono del suo impianto metodologico per minare i dogmi religiosi del cristianesimo, come di ogni altra religione positiva. Sulla scia di Herbert di Cherbury, per il quale al centro di tutte le religioni vi è un nocciolo razionale comune e intuitivo, i deisti propongono di circoscrivere la religione entro i limiti della ragione naturale, negando ogni valore alla rivelazione, ai dogmi, ai misteri e ai miracoli che non si accordano con il principio empiristico dell’uniformità del corso della natura. La religione naturale, portatrice di tolleranza e di equilibrio sociale, si riduce per i deisti a poche idee molto semplici: Dio esiste, ha creato il mondo e premia la buona condotta in una vita futura.

    Religione naturale e religioni rivelate: Locke, Toland e Clarke

    Uno dei problemi principali affrontati dai deisti è quello della rivelazione. Come spiegare il fatto che Dio abbia concesso a un solo popolo (quello ebraico) la salvezza eterna tramite la rivelazione biblica, mostrandosi indifferente nei confronti del resto dell’umanità? La questione è affrontata già da Locke, che nel suo Ragionevolezza del cristianesimo muove da intenti apologetici per approdare a una posizione di deismo moderato. Locke propone di separare la dottrina semplice e ragionevole ricavabile dai Vangeli dall’insieme di assurdità di cui si sono fatti portatori nel corso dei secoli i vari concili, in particolare quello di Nicea. Fiducioso nell’efficacia dell’indagine empirica anche in materia religiosa, Locke ritiene che la lettura delle Scritture possa essere affrontata individualmente, senza bisogno della mediazione di interpreti privilegiati che si facciano garanti della correttezza della lettura prescelta. Resta tuttavia da chiarire il motivo per cui Dio abbia escluso dalla rivelazione messianica popoli civilissimi come quello cinese. La spiegazione a cui giunge Locke è che, sebbene l’esistenza di Dio e la necessità del Messia siano verità che possono essere dimostrate con il ragionamento, la rivelazione è un aiuto pratico che Dio concede agli uomini intellettualmente meno dotati per assicurarsi che anch’essi possano raggiungere la salvezza eterna.

    John Toland si aggancia alle dottrine di Locke sulla Ragionevolezza del cristianesimo per radicalizzare la critica da lui espressa nei confronti delle religioni positive. La polemica tolandiana nei confronti delle deviazioni del cristianesimo storico rispetto alla religione naturale rasenta l’ateismo, nonostante le sue professioni di fede. Toland difatti reputa necessario rifiutare non solo ciò che è contrario alla ragione, ma anche ciò che si ritiene esserle superiore. Nel Cristianesimo senza misteri, Toland sostiene che in ambito teologico, così come in quello scientifico, tutto ciò che appare contraddittorio o elusivo rispetto alla Ragione deve essere scartato, e a questo proposito egli avanza un’argomentazione divenuta famosa: "Una persona che avesse l’assoluta certezza che nella natura esiste un essere chiamato blictri, e nel contempo non sapesse che cosa sia questo blictri, potrebbe nutrire giustamente fiducia nella propria conoscenza?".

    Nei suoi scritti successivi Toland va oltre e afferma che tutte le religioni positive sono superstizioni sorte presso popoli barbari (Lettere a Serena) e che lo stesso diluvio universale è un’invenzione (Pantheisticon).

    Le tesi di Toland scatenano fin dall’inizio l’indignazione dell’ortodossia anglicana, ma anche di quei teologi moderati che, come Samuel Clarke (amico e collaboratore di Newton), tentano di confutare la posizione deista proprio a partire dalle premesse empiristiche che costituiscono lo sfondo comune del dibattito teologico di questi anni. Nella Dimostrazione dell’esistenza e degli attributi di Dio, Clarke riprende l’argomento proposto da Locke circa l’utilità pratica della rivelazione in quanto dono, e non obbligo, divino. I bersagli di Clarke sono il materialismo di Hobbes, il panteismo di Spinoza e il deismo di Toland. Contro di essi Clarke intende dimostrare in modo geometrico e perciò irrefutabile l’esistenza di Dio avvalendosi di un complesso di dodici proposizioni logicamente interconnesse. La sua argomentazione segue il procedimento ontologico a priori che verrà confutato da Hume nei suoi Dialoghi sulla religione naturale: ogni essere è l’effetto di una causa; presi insieme, tutti gli esseri costituiscono una catena di cause ed effetti; questa catena deve a sua volta essere sorretta da una causa indipendente, cioè Dio. È interessante notare come Clarke si premuri di dimostrare rigorosamente ciò che nemmeno i deisti più radicali mettono apertamente in dubbio. Come osserverà ironicamente Anthony Collins, nessuno dubitò dell’esistenza di Dio, finché Clarke non si prese la briga di dimostrarla.

    Tolleranza religiosa e libero pensiero: Collins e Tindal

    Discepolo e amico di Locke, Anthony Collins interviene nel dibattito teologico in occasione di una disputa tra Clarke e Henry Dodwell a proposito dell’immortalità dell’anima.

    Laddove Dodwell sostiene che l’anima umana è per sua natura mortale, e può raggiungere l’immortalità solo attraverso un atto di clemenza divina, Clarke cerca di far derivare l’immortalità dell’anima dalla sua immaterialità, la quale a sua volta sarebbe dimostrata dall’inimmaginabilità di una sostanza che sia al tempo stesso materiale e pensante. A prescindere dalla fragilità degli argomenti addotti da Dodwell a sostegno della propria tesi, Collins prende le sue parti per ciò che riguarda l’indimostrabilità dell’immortalità dell’anima, dando così il via a una controversia con Clarke.

    Nel suo Saggio sull’uso della ragione, nelle proposizioni la cui evidenza dipende dalle testimonianze umane, Collins assume una posizione anticlericale, definendo i misteri della religione invenzioni escogitate dai preti per mantenere gli uomini sotto il giogo della superstizione. Collins deriva la propria istanza razionalistica dal latitudinarismo dei platonici di Cambridge e degli esponenti della Chiesa larga (Broad Church), quali Edward Stillingfleet e John Tillotson, dai quali trae inoltre la tendenza ad appianare le divergenze dottrinarie in omaggio al principio della tolleranza religiosa. Nella Difesa degli attributi divini Collins rivendica alla Ragione la possibilità di dimostrare gli attributi di Dio. Tuttavia, affinché la Ragione possa approdare a queste naturali conclusioni, è indispensabile che essa si liberi dai ceppi dell’autorità per vagliare da sé la validità di ogni asserzione. Così come nella scienza il progresso verso la perfezione richiede l’autonomia della ricerca, in teologia l’indipendenza di giudizio è la condizione indispensabile per intraprendere il cammino verso la verità. La necessità della libertà di opinione è la tesi di fondo del principale scritto di Collins, il Discorso sul libero pensiero, erroneamente attribuito a Toland all’indomani della sua pubblicazione anonima e destinato a diventare il manifesto del deismo. Nel Discorso il libero pensiero viene definito come l’uso dell’intelligenza nel tentare di scoprire il significato di qualsivoglia asserzione, nell’esaminare la natura delle prove a suo favore o ad essa contrarie, e nel giudicarla in base alla forza o alla debolezza delle prove. Allo scopo di ridicolizzare gli avversari del libero pensiero, Collins immagina l’esistenza di una setta di nemici del libero vedere per i quali non bisogna fidarsi dei propri occhi ma al contrario farsi guidare da un’autorità esterna prima di esprimere dei giudizi percettivi.

    Quanto ai presunti effetti disgreganti del libero pensiero come anticamera dell’ateismo (denunciati anche da George Berkeley nei Dialoghi e nell’Alcifrone), Collins ribatte con un’affermazione che verrà fatta propria da Voltaire: tra il fanatismo e l’ateismo, il secondo è il male minore. Senza poi contare che, secondo Collins, è solo grazie al libero pensiero che gli uomini arrivano a comprendere che un Essere buono, saggio e onnipotente ha creato il mondo e lo sorregge.

    Anche Matthew Tindal è convinto dell’azione benefica che l’esercizio del libero pensiero svolge sulla riflessione religiosa. Nel primo volume del Cristianesimo antico quanto la creazione (il secondo volume manoscritto verrà bruciato dalle autorità ecclesiastiche dopo la morte dell’autore) Tindal attacca la corruzione dei preti e riafferma il credo deista nella razionalità e nell’universalità della religione naturale, la quale non richiede alcuna forma di liturgia positiva. Tindal arriva addirittura a sostenere la superiorità del confucianesimo rispetto alle religioni cristiana, ebraica e maomettana.

    Anthony Collins

    Per dimostrare il diritto a pensare liberamente

    Discorso sul libero pensiero

    Per dimostrare il diritto a pensare liberamente faccio osservare:

    I. Se la conoscenza di alcune verità è pretesa da Dio, se la conoscenza di altre è utile alla società, se di nessuna verità ci è proibita la conoscenza da Dio, né essa ci è di danno, allora abbiamo il diritto a conoscere, ossia possiamo legittimamente conoscere qualsiasi verità. E se abbiamo diritto a conoscere qualsiasi verità, allora abbiamo diritto a pensare liberamente, ossia ad usare la nostra intelligenza nel tentare di scoprire il significato di qualsivoglia asserzione, nell’esaminare le prove a suo favore o ad essa contrarie, e nel giudicarla in base alla forza o alla debolezza delle prove (...)

    IV. Qualsivoglia limite imposto al pensiero è in sé contraddittorio. Non mi si possono imporre limiti al pensare, ma mi si possono suggerire pensieri, asserzioni, ragionamenti che mi dimostrino che non è legittimo pensare a certi temi che mi propongo. Come, ad esempio, io potrei avere l’intenzione di considerare se la religione cristiana si fondi veramente sulla rivelazione divina, ma mi è stato detto, oppure mi sono persuaso io, che c’è grave pericolo e peccaminosità nel pensare ad un tale argomento, per il rischio di farmi convincere da capziose dimostrazioni di increduli, e di essere poi dannato per l’eternità per la mia incredulità, mentre, rimanendo nella condizione di chi non fa esami, sono sulla via della salvezza, fuori da ogni pericolo, e che, perciò, sarebbe per me una colpa correre rischi per mettermi a pensare a quell’argomento.

    È evidente che il ragionamento succitato, fatto per porre limiti al pensiero, deve essere ripensato liberamente, ossia deve essere esaminato, perché, se non lo esamino, non posso sapere quali limiti esso mi impone, e potrei dunque procedere nell’indagine che mi sono prefissa.

    Esaminiamo allora il ragionamento fatto per porre dei limiti, e si vedrà che non ha alcuna forza per impormi dei limiti. Io non ho modo di distinguere il vero dal falso, né di sapere se mi trovo in pericolo o no, se non facendo uso dell’intelligenza e della ragione che Dio mi ha dato, e dovrei, invece, senza alcuna ragione, supporre di essere sulla retta via e in salvo. Insomma, mi si impedisce di usare il metodo migliore per prevenire errori pericolosi, per il timore di cadere in errori pericolosi, come se mi si impedisse di usare gli occhi, per timore di un uso scorretto di essi, ed io camminassi ad occhi chiusi per l’eventualità di sbagliare strada se camminassi ad occhi aperti. Perciò, il ragionamento fatto per porre dei limiti è contraddittorio in modo evidente ed è inefficace per distogliermi dal proseguire la mia indagine.

    Anthony Collins, Discorso sul libero pensiero, a cura di I. Cappiello, Liberilibri, 1990

    François-Marie Arouet de Voltaire

    Pro e contro di Fanatismo e Ateismo

    Dizionario filosofico, Ateo-Ateismo I

    È indubbio che, in una città ben ordinata, è infinitamente più utile avere una religione anche cattiva, che non averne alcuna.

    Sembra dunque che Bayle avrebbe dovuto piuttosto esaminare che cosa sia più pericoloso: il fanatismo o l’ateismo. Il fanatismo è certamente mille volte più funesto; perché l’ateismo non ispira passioni sanguinarie, ma il fanatismo ne ispira; l’ateismo non serve da freno ai delitti, ma il fanatismo spinge a commetterli. (...)

    Gli atei sono per lo più studiosi audaci e fuorviati, che ragionano male e che, non potendo comprendere la creazione, l’origine del male e altre difficoltà, ricorrono all’ipotesi dell’eternità delle cose e della necessità. (...)

    Io non vorrei avere a che fare con un principe ateo che giudicasse suo interesse farmi pestare in un mortaio: sono certo che sarei pestato. E neppure, se fossi un sovrano, vorrei avere a che fare con cortigiani atei che avessero interesse ad avvelenarmi: dovrei prendere a ogni buon conto del contravveleno tutti i giorni. È dunque assolutamente necessario, per i principi e per i popoli, che l’idea di un essere supremo, creatore, reggitore, remuneratore e vendicatore, sia profondamente radicata negli animi. (...)

    Quale conclusione trarremo da tutto ciò? Che l’ateismo è un mostro assai pericoloso in coloro che governano; che lo è anche nelle persone di studio, anche se la loro vita è innocente, perché dal loro studio esso può arrivare fino a quelli che vivono in piazza; e che, se non è certo funesto quanto il fanatismo, è tuttavia quasi sempre fatale alla virtù.

    Voltaire, Dizionario filosofico, Torino, Einaudi, 1995

    L’interpretazione delle Scritture

    Ripercorrendo la strada già battuta da Spinoza, Hobbes e Pierre Bayle, i deisti si interrogano su come giudicare le numerose inverosimiglianze riscontrabili nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Nel Dizionario storico-critico Bayle inaugurava l’applicazione di quel metodo storico-critico di controllo rigoroso delle fonti e dei fatti riportati nelle Scritture che verrà impiegato da autori come Toland, Collins e Woolston. Ma già prima di Bayle, Charles Blount (seguace di Herbert di Cherbury e di Hobbes) aveva pubblicato un’opera intitolata Oracoli della ragione, in cui sosteneva che i miracoli biblici sono un frutto della superstizione barbarica.

    Contro il rifiuto di Blount verso tutto ciò che nelle Scritture si oppone all’uso della Ragione, Charles Leslie nel Metodo breve e facile contro i deisti suggerisce quattro regole per valutare l’attendibilità dei miracoli: che siano tali da poter essere percepiti dai sensi umani; che si siano verificati alla presenza di testimoni; che siano poi stati ricordati tramite ricorrenze pubbliche; che tali ricorrenze abbiano avuto inizio all’epoca stessa del miracolo. L’obiettivo di Leslie è quello di dimostrare la verità di tutti i miracoli biblici e la falsità di quelli coranici attraverso un metodo riconoscibilmente storico. Così facendo, Leslie ritiene di poter dimostrare che la negazione dell’attendibilità delle testimonianze bibliche equivale a negare la veridicità del De bello gallico.

    Un importante contributo al dibattito sui miracoli viene fornito da Collins il quale, rifugiatosi in Olanda per sfuggire alle polemiche suscitate dai suoi primi scritti, studia la lingua ebraica e si familiarizza con la tradizione talmudica. Osservando come l’assenza di vocali e la variabilità della punteggiatura nell’antico ebraico diano adito a una pluralità di possibili interpretazioni del medesimo testo, Collins sostiene che le profezie e i miracoli biblici vadano letti in senso allegorico piuttosto che letterale.

    Thomas Woolston riprende le argomentazioni proposte da Collins e nei Sei discorsi sui miracoli inscena una satira dei testi evangelici affermando che se i miracoli venissero presi alla lettera Gesù emergerebbe come un ciarlatano qualunque.

    Dopo Collins e Woolston, la discussione sui miracoli verte prevalentemente sulla resurrezione: nell’Esame delle testimonianze sulla resurrezione di Gesù, Thomas Sherlock rappresenta un dibattito giudiziario tra chi, come i deisti, reputa che la resurrezione sia impossibile in quanto contravviene alle regole della natura e chi vede nel martirio degli apostoli la dimostrazione della veridicità delle loro testimonianze. Conyers Middleton, autore della Lettera da Roma e delle Riflessioni sulle variazioni o incongruenze, che si trovano fra i quattro Evangelisti assume una posizione intermedia in cui, pur riconoscendo l’eredità pagana di molti costumi ebraici e accettando la tesi dell’allegoricità della Bibbia, propone di considerare autentici i miracoli antecedenti al II secolo, mentre rifiuta come falsi tutti quelli successivi.

    Morale e religione: Shaftesbury, Hutcheson, Smith

    Il deismo svolge un ruolo rilevante nella secolarizzazione della cultura che culmina con l’Illuminismo europeo. Sul versante della morale, l’affrancamento dalla religione viene realizzato da Anthony Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury, e da Francis Hutcheson i quali, pur non prendendo parte attiva al dibattito sulla religione, sembrano condividere implicitamente la condanna deista nei confronti del dogmatismo religioso.

    Shaftesbury si esprime contro il fanatismo nella sua Lettera sull’entusiasmo, in cui suggerisce al primo ministro Lord Sommers, al quale è diretto lo scritto, di combattere l’estremismo religioso con l’irrisione e l’ironia, piuttosto che con la repressione fisica dei suoi istigatori. La moderazione del rimedio proposto da Shaftesbury contro gli eccessi dell’entusiasmo è indice della sua visione ottimistica della natura umana, che gli deriva alla Scuola dei platonici di Cambridge. Contro il pessimismo hobbesiano, Shaftesbury pensa che le inclinazioni egoistiche dell’uomo siano ampiamente controbilanciate dalla naturale tendenza alla simpatia (concetto poi ripreso da Hutcheson, Hume e Adam Smith) e alla collaborazione sociale. La simpatia istintiva di cui tutti gli uomini sono dotati sta alla base del senso morale, ovvero del sentimento del bene e del male, che secondo Shaftesbury rivela molte affinità con il senso estetico. Nei suoi scritti sulla morale naturale (raccolti in tre volumi nelle Caratteristiche di uomini, maniere, opinioni e tempi), Shaftesbury insiste sull’autonomia della morale rispetto alla religione, tema centrale nelle argomentazioni deistiche.

    Per Shaftesbury la religione deve assecondare, e non asservire, la morale istintiva. Senza disconoscere il fondamento razionale assegnato dai deisti all’etica, egli abbraccia tuttavia una concezione panteistico-vitalistica della realtà basata sull’autonomia del sentimento rispetto alla Ragione. A questa concezione si riallaccia Francis Hutcheson nel Saggio sull’origine delle nostre idee della bellezza e della virtù e nelle successive opere di argomento morale, in cui ribadisce la tesi (ripresa anche da Hume) della naturale benevolenza dell’uomo, che si manifesta nella sua capacità di agire a favore del prossimo indipendentemente dal proprio tornaconto personale. L’originalità del pensiero etico di Hutcheson sta nelle conclusioni utilitaristiche che egli trae dalla morale sentimentale di Shaftesbury. Precorrendo l’aritmetica morale di Jeremy Bentham, Hutcheson afferma che la virtù coincide con la maggiore felicità per il maggior numero di persone.

    In polemica con Shaftesbury, Bernard de Mandeville propone nella sua Favola delle api un originale sviluppo del pensiero hobbesiano: l’uomo è costitutivamente egoista, ma è proprio dai vizi individuali che deriva il benessere della collettività. Se tenute sotto controllo da un’autorità legislativa, le forme di competizione sociale si rivelano come il principio propulsivo del progresso umano, in quanto incanalano l’aggressività umana in una serie di attività utili allo Stato. Secondo Mandeville, in una società ben regolata l’uomo combatte non più per la distruzione dei propri simili, come accade nello stato di disordine primordiale, ma per suscitare l’invidia altrui. Nella Teoria dei sentimenti morali Adam Smith, allievo di Hutcheson, anche sulla scorta di Hume, elaborerà la dottrina della spontanea armonia degli interessi individuali e della natura sociale dell’agire umano. Fondatore dell’economia politica classica, Smith consegna la teorizzazione del liberismo economico alla sua Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni.

    L’epistemologia di Thomas Reid

    Thomas Reid mette a frutto le proprie conoscenze in matematica e nelle scienze naturali per elaborare una teoria della mente di impostazione naturalistica. Nel suo primo scritto, il Saggio sulla quantità, è critico nei confronti dell’aritmetica morale di Hutcheson e del suo uso delle equazioni algebriche al fine di calcolare la quantità di piacere e dolore (virtù e vizio) nelle azioni umane.

    La psicologia delle facoltà è il risultato più interessante della sua critica all’ideal system: con i Saggi sui poteri intellettuali dell’uomo e i Saggi sui poteri attivi dell’uomo intende offrire un’analisi scientifica delle facoltà della mente umana che, dopo aver messo in discussione la teoria delle idee di Locke e soprattutto la sua definizione di potere passivo, sappia sottrarsi all’esito scettico della filosofia di Hume. Con il Trattato sulla natura umana di Hume, Reid si era misurato già nella Ricerca sulla mente umana secondo i principi del senso comune. Questa opera lo ha reso celebre nella storia della filosofia in quanto fondatore della scuola del senso comune, nozione che non solo è al centro del dibattito britannico di secondo Settecento, ma esercita una vasta influenza anche sul continente, prima sulla filosofia tedesca e poi su quella francese (a partire da Victor Cousin). La sua dottrina morale – attenta al ruolo delle passioni e fondata sul senso morale inteso come attiva consapevolezza dell’azione, da parte dell’uomo, dotato della libertà del volere – sarà discussa, e criticata, da Kant proprio per il ruolo giocato dal sentimento morale e sarà invece apprezzata da Jacobi, assertore della conoscenza intuitiva come fede.

    Rimandi

    Volume 51: Isaac Newton

    Volume 52: Thomas Hobbes

    Volume 52: Baruch Spinoza

    Volume 52: I platonici di Cambridge

    Volume 52: John Locke

    David Hume

    Pierre Bayle

    Voltaire

    Modelli di società a confronto: utopia politica ed economia

    Volume 65: John Constable e il naturalismo romantico

    George Berkeley

    Gianni Paganini

    George Berkeley è uno dei più fini interpreti della way of ideas (il metodo delle idee tipico di tutta la filosofia moderna), che sviluppa nella direzione dell’immaterialismo, sostenendo la tesi dell’esistenza solo mentale dei corpi e delle loro presunte qualità oggettive. Nelle sue intenzioni, l’immaterialismo dovrebbe sconfiggere le derive materialistiche della scienza moderna e riconciliare la filosofia con le certezze del senso comune. In realtà, l’esito ultimo del suo pensiero è una sorta di nuovo platonismo, incentrato sul primato degli spiriti e in particolare di quello spirito dominante che è Dio.

    Senso comune e analisi delle idee

    George Berkeley è sicuramente uno dei maggiori oppositori dei deisti e dei free-thinkers che nella cultura anglosassone hanno fornito una versione radicale della cultura illuministica e sviluppato l’eredità lockiana nella direzione del materialismo e della critica del cristianesimo. Al tempo stesso egli è uno dei più fini e sottili interpreti della way of ideas (il metodo delle idee tipico di tutta la filosofia moderna), che sviluppa nella direzione dell’immaterialismo, cioè la tesi dell’esistenza solo mentale dei corpi e delle loro presunte qualità oggettive. Nelle sue intenzioni, l’immaterialismo o idealismo dovrebbe al contempo sbaragliare le derive materialistiche del meccanicismo moderno e scongiurare le implicazioni scettiche contenute nella nozione di idea come oggetto vero e proprio della rappresentazione. Al tempo stesso, l’immaterialismo dovrebbe servire a restaurare, nel nuovo clima della scienza settecentesca, le certezze di una visione platonica dell’universo incentrata sul primato degli spiriti e in particolare di quello spirito dominante che è Dio. Tutto questo fa sì che nella riflessione di Berkeley convivano l’analisi dell’esperienza più attenta alle sue reali componenti e la speculazione metafisica e apologetica.

    Il punto di partenza è la strada maestra del buon senso comune, conforme ai dettami della natura, che egli intende sostituire alle astrazioni dei filosofi e degli scienziati. Fra le tesi iconoclaste che Berkeley formula contro

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