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L'Italia dal 1996 al 2001: Breve storia della seconda e terza Repubblica dal 1994 al 2018 e dello stato sociale 2
L'Italia dal 1996 al 2001: Breve storia della seconda e terza Repubblica dal 1994 al 2018 e dello stato sociale 2
L'Italia dal 1996 al 2001: Breve storia della seconda e terza Repubblica dal 1994 al 2018 e dello stato sociale 2
E-book428 pagine4 ore

L'Italia dal 1996 al 2001: Breve storia della seconda e terza Repubblica dal 1994 al 2018 e dello stato sociale 2

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Storia - saggio (303 pagine) - Breve storia della seconda e terza Repubblica dal 1994 al 2018 e dello stato sociale. I governi Prodi, D'Alema e Amato.

Contro ogni previsione il cartello delle sinistre, in cui predominava il PDS (ex Partito Comunista Italiano), vinse le elezioni con il professore in Economia Romano Prodi, che si era guadagnato la leadership per la abilità nel risanare il settore delle partecipazioni statali in perdita da alcuni anni.
Per la sua rispettabilità egli doveva essere il cavallo di troia per convincere sia gli italiani a partecipare all’ introduzione della nuova moneta “euro”, sia la Germania e la Francia diffidenti verso un Paese così indebitato. Conseguito questo obiettivo, la rissosità nella coalizione prevalse, e Romano Prodi fu sostituito da Massimo D’Alema, il primo  Presidente del Consiglio  proveniente dal PCI,  che a sua volta fu costretto per beghe surreali tra i partiti che lo appoggiavano a dimettersi per essere sostituito nel 2000 da Giuliano Amato a cui fu affidata la fiducia per mettere un po’ d’ordine nei conti pubblici e di preparare le elezioni. Il capitolo III è dedicato alla svendita di quel patrimonio pubblico rappresentato dalle Partecipazioni Statali, ed il quarto focalizza la rivoluzione di internet che si affermava tumultuosamente in quegli anni. Nel V e VI Capitolo si analizza lo sviluppo socio economico dell’Europa e dell’Italia dal 1870 al 1915.

Silvano Zanetti  nato il 21 ottobre 1948 in provincia di Bergamo, da famiglia modesta, dopo aver conseguito la maturità classica, si iscrive al Politecnico di Torino dove si laurea in Ingegneria Meccanica. Dal 1977 si stabilisce a Milano dove si impiega presso diverse aziende metalmeccaniche come tecnico commerciale dove matura una buona conoscenza di usi-costumi-economia dei Paesi europei ed asiatici. Trova il tempo nel 1992 di frequentare un Master MBA all’Università Bocconi. Alla fine della sua carriera lavorativa si dedica al suo hobby da sempre : lo studio della storia e collabora con la rivista e-storia dal 2010 per poi prendere nel 2018 la decisione di scrivere i contenuti presenti in questa collana divulgativa di storia contemporanea.
LinguaItaliano
Data di uscita21 dic 2021
ISBN9788825418613
L'Italia dal 1996 al 2001: Breve storia della seconda e terza Repubblica dal 1994 al 2018 e dello stato sociale 2

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    Anteprima del libro

    L'Italia dal 1996 al 2001 - Silvano Zanetti

    Introduzione

    Dato uno spazio a N dimensioni conoscendo l’intensità, la direzione e il verso di tutte le forze attive, la risultante in direzione, verso e intensità è nota: la Storia.

    Confesso che era mia unica intenzione di scrivere un semplice e breve saggio storico sugli ultimi anni della politica italiana, dal 2013 al 2018, ovvero la XVIII legislatura. Per esempio, un volumetto dal titolo «Da Matteo Renzi a Matteo Salvini», oppure «Ascesa e declino di Renzi e l’affermazione del M5S» ecc.

    Completato un volumetto di circa 100 pagine, ebbi la malaugurata idea di farlo leggere ad alcuni amici per un loro commento. Fui subissato da critiche costruttive quali: come si fa a parlare in poche pagine di Jobs Act, Globalizzazione, Euro, Riforme costituzionali, se non si spiega quanto avvenne negli anni precedenti? La storia è sempre un dipanarsi di eventi, talvolta nuovissimi e imprevedibili, ma il più delle volte sviluppatisi senza soluzioni definitive negli anni precedenti (es. il debito pubblico, le riforme mai riformate) o che erano «in fieri» e che sono esplosi anni dopo (es. il basso valore aggiunto del settore pubblico e privato o i diritti civili). La soluzione di alcuni problemi ne crea sempre di nuovi per cui, quelli che erano considerati rivoluzionari e che avevano contribuito a cambiare la società nell’arco di due generazioni, diventano conservatori se non reazionari; arroccati nella difesa, con le unghie e coi denti, di conquiste e privilegi, mitizzati e sacralizzati in tabù intoccabili (la riforma del lavoro, il rapporto uomo-donna).

    Convinto da questi suggerimenti amichevoli mi sono accinto a questa immane, ma anche piacevole fatica, che mi ha impegnato due anni di vita.

    Per evitare che i lettori abbiano un giudizio sfavorevole su questo mio lavoro, concentrato soltanto su alcuni aspetti di quanto accaduto in questo lasso di tempo, vi aiuto a districarvi in questo mio «libro-puzzle».

    Il XX secolo fu contrassegnato in Europa da due sanguinose guerre mondiali, che hanno determinato la fine dell’Eurocentrismo, e della contrapposizione tra Capitalismo e Socialismo, con tutte le loro varianti: dal Nazifascismo al Liberalismo democratico, dalla Socialdemocrazia al Comunismo. Verso il 1990 si ebbe il crollo del regime comunista-utopista nell’URSS. Contemporaneamente prese forma ed ebbe successo l’originale «via cinese al Socialismo» che nega sì il Liberalismo politico (solo il Partito Comunista è legale) ma incentiva l’economia di libero mercato favorendo l’affermarsi di un Capitalismo senza Liberalismo.

    Le due culture politiche, Liberalismo e Socialismo, a cui si erano ispirate le élite politiche e culturali al comando in Europa, verso la fine del secolo, avevano esaurito il loro compito e le masse popolari, drogate dai media, erano pronte a dare il consenso ad altre élite più vicine ai loro bisogni primari, rifiutando le precedenti mediazioni ideologico-culturali. Le mediazioni religiose erano già state da lungo tempo rifiutate.

    L’Italia, essendo geopoliticamente e culturalmente parte integrante del mondo occidentale, da quegli sconvolgimenti e crisi di valori ne uscì a pezzi.

    Con il crollo del Comunismo in URSS crollò anche il duopolio democristiano–comunista che aveva retto l’Italia per 40 anni, e nel contempo si ebbe l’ascesa al potere politico di una élite avida e populista senza ben definiti ancoraggi culturali. Questo trapasso di potere reale segnò il fallimento della classe borghese liberale e degli intellettual-marxisti senza profonde radici nelle masse popolari. Tutti si dimostrarono incapaci di guidare la società italiana a fare il salto di qualità, passando da una società di consumi a una società ad alto valore aggiunto, in cui il fabbisogno di maggiore democrazia e partecipazione è anche più elevato.

    E mentre in questi ultimi 25 anni alcuni paesi continuavano ad accrescere il loro benessere, a cui partecipavano sempre più vasti strati della popolazione, l’Italia andava scivolando verso gli ultimi posti in Europa sia per i livelli di reddito sia per i livelli di diseguaglianza.

    L’avere aderito a pieno titolo, fin dall’inizio alla costituzione dell’Europa negli anni ’50, era stato di grande vantaggio per l’Italia, che aveva ricavato notevoli benefici per la propria industria manifatturiera, e di conseguenza aveva incrementato l’occupazione e il benessere generale. Tuttavia dal 2.000, con la creazione della moneta unica, l’«euromarco», l’Italia perdeva anche la sovranità della moneta. Le sarebbero rimasti solo gli obblighi di onorare i propri debiti, avendo ceduto a terzi sia il proprio mercato, sia la propria sovranità, delegata a Bruxelles con una infinita serie di accordi commerciali e civili.

    Il fallimento post 2.000 era insito nelle motivazioni della classe politica italiana che riteneva di poter rifilare all’Europa parte del suo enorme debito pubblico, essendo incapace ad attuare quelle riforme atte a ridurre la rendita parassitaria.

    Il gioco del cerino acceso da passare a qualcun’altro funzionò. Nessuno era disposto a farti entrare nel «condominio» chiamato Europa se poi non eri disposto ad accollarti le spese condominiali.

    La Gran Bretagna, verificato che gli svantaggi della sua partecipazione a un’Europa a trazione tedesca erano superiori ai vantaggi, sarebbe uscita da questa trappola, con l’appoggio del suo popolo.

    Ed ecco in breve i fili conduttori, che mi hanno ispirato nello scrivere questo saggio e che aiuteranno i lettori a capire quanto accaduto negli anni dal 1994 al 2018.

    In tutti i volumi, il primo, il secondo e talvolta il terzo capitolo, descrivono sia il panorama politico, sia i dibattiti tra i partiti, sia i Governi che si sono succeduti con le loro promesse, programmi e provvedimenti legislativi realizzati in quel preciso momento storico.

    I Partiti politici e i loro leader sono tutti coinvolti in una rissosità continua e, per dirlo alla Guicciardini, sembrano tutti super interessati a conseguire i propri interessi «particolari» piuttosto che pensare al bene comune. La lotta tra il cartello delle Sinistre e il cartello delle Destre, dominato da Silvio Berlusconi, durerà venti anni e finirà per portare il Paese stremato fuori da tutti i giochi politici europei.

    Nei restanti capitoli di ogni volume si introducono argomenti «a tema» che si distribuiscono fra i vari volumi. I due temi principali trattati sono: le rivoluzioni industriali, fino a quella dell’informatica, che si sviluppano di pari passo con il Capitalismo-liberale e, come contrappunto, la storia dello Stato sociale, dalla riforma delle pensioni di Bismarck, alla Third Way di Tony Blair, Gerhard Schröder, e al Jobs Act di Matteo Renzi.

    Accanto a questi due «mainstreams» si introducono anche temi completamente nuovi: l’immigrazione, gli attentati terroristici islamici, i mutamenti nella Chiesa Cattolica, il cambiamento dei costumi degli italiani, la Repubblica Popolare Cinese, la globalizzazione, il crollo del sistema bancario mondiale e poi la bancarotta sfiorata delle banche italiane.

    Per finire, un ringraziamento lo devo al nostalgico gruppo degli «amici Einaudini» capitanato da Francesco Favero (collegio universitario Principe Amedeo di Torino) sopravvissuti al ‘68 e in particolare ad Alessandro Accorinti, che si è sobbarcato l’immane compito di raddrizzare le mie bozze creative.

    Non vi è mai stata l’ambizione di redigere qui una storia onnicomprensiva del passato ventennio, ma solo una parziale rivisitazione dei momenti più significativi di cui sono stato testimone diretto o indiretto.

    Buona lettura…

    Silvano Zanetti

    Introduzione al secondo volume

    Nei primi tre capitoli sono analizzati ed elencati i principali dibattiti avvenuti nei partiti, e i leader che hanno reso possibile la genesi, l’attività e il disfacimento dei governi.

    I condizionamenti esterni di paesi stranieri o calamità furono insignificanti nella formazione dei governi di questa legislatura. Risulta evidente da subito che la Seconda Repubblica appena nata non garantisce ad alcun governo una stabilità temporale. In Italia, oltre al Parlamento, le Regioni, i Comuni, la Magistratura (completamente indipendente), vi sono le potenti lobbie della Confindustria, Confagricoltura, Sindacati, Cooperative, nonché la Chiesa Cattolica e migliaia di altre Associazioni.

    I maggiori partiti sono diffusi sì su scala nazionale, ma localmente il controllo appartiene a élite economiche o intellettuali, se non addirittura a capipopolo o capibastone il cui consenso è basato sulla capacità di distribuire grandi o piccole prebende pubbliche ai propri clientes fedelissimi generazione dopo generazione. La frammentazione del potere costringe ogni governo a elemosinare il sostegno di qualsiasi gruppo che esercita un nefasto potere contrattuale basato sul contraccambio: do ut des.

    A questo si sovrappongono le ambizioni personali di ogni politico alla ricerca di visibilità a vantaggio proprio o della lobby che lo ha appoggiato.

    Se la Prima Repubblica aveva ingabbiato queste velleità personali nella dura disciplina del centralismo democratico del Partito Comunista Italiano e nella Democrazia Cristiana che, pur suddivisa in correnti individualiste, era supervisionata da una ideologia e dalle autorità e organizzazioni della Chiesa Cattolica, ora ogni parlamentare conquistata la fiducia dell’elettore in particolare nei collegi uninominali, vuole negoziare il suo voto di fiducia o sfiducia per ottenere vantaggi per sé e per i suoi propri elettori.

    L’incapacità apparente di avere un governo stabile mina alla base l’Istituto della Democrazia Parlamentare, che viene assimilato a un sistema rissoso, incapace di esprimere una maggioranza che sostenga un governo operativo e assolutamente inadeguato in situazioni di emergenza.

    In realtà l’alternarsi di governi di breve durata non permette la realizzazione di piani pluriennali, ma permette a molti politici di scalare i vertici del potere come ministri, viceministri o sottosegretari.

    In quegli anni la presenza dello stato nell’economia diventava sempre più ingombrante. Il bilancio dello Stato sarebbe arrivato verso il 50% del PIL (prodotto interno lordo) e, considerando anche le società municipalizzate, si poteva dire che 2/3 degli italiani erano a reddito fisso statale. Una così forte presenza dello stato nell’economia, nella gestione di miriadi di enti e municipalizzate, permetteva a una classe di politici e sindacalisti, presenti nei consigli di amministrazione, se non di arricchirsi, senz’altro di godere di una vita più che dignitosa per sé, per le loro famiglie e le loro clientele. In questo gioco di clientelismo, non necessariamente illegale, tutta la società italiana era coinvolta e tutti erano complici e attori. Per le imprese che operavano nell’economia privata, che dovevano sopravvivere nella dura legge del mercato internazionale, senza un appoggio del governo, non restava che rifugiarsi in nicchie di mercato ad alta specializzazione.

    Dopo solo due anni dalla nascita della seconda repubblica e dopo due governi di breve durata nel 1996 si andò alle elezioni. Il primo governo Berlusconi era caduto per la defezione della Lega che si era presentata alle elezioni del 1994 in coalizione con Forza Italia. Bossi non era fatto per entrare nella Corte del Re Mida italiano delle televisioni, sempre sotto attacco da parte del cartello delle sinistre per la sua disinvolta capacità di comprare e sedurre il consenso di gran parte della società per e con le sue TV. Bossi voleva preservare la sua creatura che poggiava principalmente sull’idea della riforma dell’Amministrazione Statale su basi federaliste per permettere al Nord di correre più spedito, non essendo più zavorrato da una amministrazione centrale inefficiente e in gran parte meridionale.

    Il governo Dini che era succeduto a Berlusconi passò alla storia per la riforma delle pensioni che per alcuni anni mise in sicurezza il bilancio della Repubblica.

    Quando gli stati maggiori delle due coalizioni furono convinti di poter vincere in caso di elezioni anticipate, si andò alle elezioni.

    La sorpresa fu la vittoria del cartello delle sinistre che si presentò sotto il nome l’Ulivo con il candidato ufficiale a premier Romano Prodi.

    Vi erano tutte le premesse che il governo Prodi potesse durare una intera legislatura. Per la prima volta la sinistra composta da ex-PCI, costretti dalla storia e per motivi di marketing elettorale a riciclarsi come PDS entrava a pieno titolo nel governo. La sinistra radicale, i cosiddetti duri e puri scelsero di imitare don Chisciotte e continuare a combattere contro i mulini a vento, per costruire una società di uguali, non avendo imparato nulla dal crollo dell’Unione sovietica che per prima aveva cercato di realizzare questo tipo di società-utopia. Ma si sa il marxismo sociologicamente si impose in Italia come un messaggio messianico di emancipazione e riscatto per le classi sociali svantaggiate.

    In realtà il fazioso e ottuso establishment politico Italiano aveva già stabilito che si sarebbe disfatta di Prodi una volta ottenuto il passaporto per l’euro grazie all’affidabilità del premier.

    La sfiducia a Prodi fu platealmente decretata sia dagli alleati di estrema-sinistra stupidamente convinti che si poteva affondare anche il miglior governo amico, sia dai piccoli partiti centristi attenti alla gestione clientelare dello stato.

    Vi furono poi due governi presieduti dal segretario del PDS Massimo d’Alema. Per la prima volta dal dopoguerra un ex-comunista diventava Presidente del Consiglio e con lui altri ex-compagni divennero ministri.

    Rotta la bicamerale (progetto di riforma istituzionale) da scrivere d’intesa con Berlusconi, D’Alema flirtò eccessivamente con l’estrema sinistra, di lotta e di governo impegnata in una velleitaria e astratta guerriglia parlamentare, finendo impantanato nelle sabbie mobili.

    Constatata l’impossibilità di tenere assieme la rissosa eterogenea coalizione di piccoli partiti anelanti a una maggiore visibilità ma anche a una spartizione clientelare del potere nell’Aprile del 2000 si formò un governo Amato che includeva molti tecnici per permettere ai leader dei vari partiti della coalizione di sinistra di presentarsi differenziati alle elezioni che si tennero nella primavera del 2001.

    Il capitolo III è dedicato alla storia e alla svendita di quel patrimonio pubblico rappresentato dalle Partecipazioni Statali che dal 1980 erano in parte coinvolte in lotte di potere e di corruzione diffusa. Ma buttare l’acqua sporca con il bambino fu un errore imperdonabile e inqualificabile. E questo fu possibile anche grazie alla Sinistra Storica che, dopo un passato stalinista, era ansiosa di legittimarsi in Occidente come neo liberale. Per i sindacati italiani la proprietà di un’azienda non era mai stato un problema. Gli slogan padrone pubblico o privato non fa differenza o, addirittura, meglio un capitalista straniero perché più illuminato danno un’idea dell’arretratezza culturale di alcuni sindacati. E così lo Stato Italiano si trovò scoperto nelle industrie primarie dove il capitale privato non poteva essere interessato a intervenire, perché condannato al fallimento senza un appoggio e senza le sicure commesse dello Stato (un esempio sono il settore difesa, aereonautico, farmaceutico, elettronico dove sono necessari investimenti in ricerca decennali prima di avere un ritorno economico).

    Il quarto capitolo è dedicato alla IV rivoluzione industriale (la prima fu quella dell’acciaio a inizio ottocento, la seconda fu quella dell’elettricità a fine ottocento, la terza quella dei transistor verso la metà del XX secolo). A duecento anni di distanza dalla prima rivoluzione industriale avvenuta in Gran Bretagna, (vedere cap. V e VI del I volume) negli Stati Uniti si sviluppò una innovativa new economy basata su computer sempre più potenti, su software sempre più sofisticati, su Internet che necessitava di ambedue queste innovazioni.

    Fu una rivoluzione nel vero senso della parola: le conoscenze acquisite in precedenza divennero in breve obsolete, come le tecniche per la manifattura dei beni e per la produzione di servizi. La vita dell’umanità fece un gigantesco passo in avanti in quei pochi anni e possiamo paragonare i Silicon Valley boys ai Manchester boys della prima rivoluzione industriale di fine ottocento (vedi Cap. V del I Volume) e di cui abbiamo descritto il successo. Si è cercato di descrivere nel Capitolo IV le nuove metodologie di lavoro, le potenzialità, i rapporti sociali emersi. Il tutto avvenne lontano non solo dall’Italia, ormai ai margini degli stati industriali, ma anche dall’Europa, nella Silicon Valley, verso la fine del XX secolo. In California iniziò una grandiosa rivoluzione tecnologica che sconvolse il modo di produrre e pensare di milioni di persone: la rivoluzione dei computer e di internet.

    Nel V Capitolo si continua a sviluppare il tema storico dello sviluppo economico in Europa dal 1870 al 1915 con l’affermarsi del Protezionismo in Germania e Italia che in trenta anni compie la sua rivoluzione industriale anche se limitata al Centro Nord

    Nel VI Capitolo come contrappunto si studia lo sviluppo dello Stato sociale dal 1870 al 1915 in particolare in Gran Bretagna, Germania che per prima si dotò di una legislazione moderna per la protezione dei lavoratori in caso di malattia e infortuni e per la vecchiaia, e delle loro famiglie.

    Anche l’Italia imitò il modello tedesco e iniziò a dotarsi di un sistema di protezione e di previdenza sociale.

    Capitolo I – Il panorama politico e il dibattito nei partiti

    Nel primo capitolo si spiega la metamorfosi del PDS in DS che ebbe lo scopo di coinvolgere tutte le forze di sinistra in un nuovo partito e con nuovi programmi. Si distinguevano due posizioni tra i DS: da una parte Veltroni, postcomunista ma ulivista convinto, che credeva nella possibilità di formare un partito di sinistra che sintetizzasse le posizioni di cattolici ed ex comunisti, dall’altra D’Alema che sembrava preferire la nascita, con i DS, di un partito socialdemocratico europeo, in cui includere gli ex socialisti (PSI). Si illustra inoltre la ristrutturazione organizzativa di Forza Italia e della Lega che verso la fine della legislatura convergerà ancora su un’alleanza con Berlusconi. Infine si parlerà della diaspora dei democristiani, e della metamorfosi dell’estrema destra che abbandonerà le nostalgie neofasciste per abbracciare il sistema liberaldemocratico.

    1.1 – La metamorfosi del PDS (ex PCI) in DS

    Il PDS fu il principale attore della coalizione dell’Ulivo, che vinse le elezioni nel 1996 e che comprendeva, tra gli altri, il Partito Popolare Italiano, il Rinnovamento Italiano e i Verdi.

    Nella quota proporzionale, inoltre, il PDS si presentò insieme ad alcune formazioni minori (Comunisti Unitari, Cristiano Sociali, Federazione Laburista, Sinistra Repubblicana), apponendo nel contrassegno elettorale la dicitura "Sinistra Europea". il PDS risultò il primo partito italiano, con quasi 8 milioni di voti e il 21,1% dei voti.

    Romano Prodi, l’ispiratore dell’Ulivo, divenne presidente del Consiglio e costituì, con l’appoggio del Partito della Rifondazione Comunista (PRC) – ala radicale dell’ex-PCI – un esecutivo di centrosinistra, con il PDS rappresentato in particolare da Walter Veltroni, Vicepresidente del Consiglio, e da Giorgio Napolitano, Ministro degli Interni.

    Dal 5 febbraio 1997 al 9 giugno 1998 il Segretario del PDS Massimo D’Alema presiedette la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (c.d. III bicamerale). In quella circostanza D’Alema e Berlusconi ebbero un’occasione di convergenza proprio nell’ambito della Commissione bicamerale, per il processo di revisione costituzionale mirante al rafforzamento dell’esecutivo. Tuttavia entrambi erano alla ricerca di una maggiore visibilità che li legittimasse anche su un piano non esclusivamente partitico, in attesa del decorso del Governo Prodi, preparandosi così a superarlo da una prospettiva forse più conveniente in termini politico-istituzionali.

    Improvvisamente Berlusconi non ritenne più conveniente proseguire in quelle riforme costituzionali, forse convinto di vincere alle prossime elezioni. D’Alema accantonò pure quel progetto perché, come disse, le riforme costituzionali dovevano avere un consenso il più largo possibile e non essere motivo di divisione.

    Il 20 febbraio 1997 Massimo D'Alema aprì al Palaeur di Roma, davanti a 1130 delegati e a 600 ospiti, il 2°congresso del PDS. Tema dell'assise: La sinistra e il governo dell'Italia. La relazione di Marco Minniti verteva sul nuovo partito della sinistra e anticipava la mozione guida del segretario D'Alema che lanciava la Cosa 2. una nuova forza politica che aggregasse il PDS ad altre forze di sinistra per costruire una forza più grande della sinistra italiana. Il congresso approvò all’unanimità.

    Il 14 febbraio 1998 si costituì a Firenze una nuova formazione politica denominata Democratici di Sinistra (DS), nella quale confluirono, oltre al PDS, i laburisti, i Comunisti unitari, i Cristiano-sociali ed esponenti della Sinistra repubblicana. Guidati da D’Alema, i DS continuarono il dialogo con le forze di centro.

    Si distinguevano due posizioni tra i DS: da una parte Veltroni, postcomunista, ma ulivista convinto, credeva nella possibilità di formare un partito di sinistra che sintetizzasse le posizioni di cattolici e di ex comunisti, dall’altra D’Alema sembrava preferire la nascita, con i DS, di un partito socialdemocratico europeo, in cui includere gli ex socialisti (PSI) confluiti nel Polo di Berlusconi.

    Il progetto di D’Alema incontrò la tiepidezza degli ex dirigenti del vecchio PSI. Amato e Ruffolo, per esempio, percepivano un antisocialismo (o più propriamente anticraxismo) diffuso nel vecchio PDS. La tensione tra i due leader si era già manifestata nel 1994, quando D’Alema e Veltroni si erano sfidati nella successione a Occhetto, mentre nel novembre del 1996 la linea di Veltroni, anche se risultato di una necessaria mediazione con D’Alema, era sembrata prevalere.

    Immagine

    I vari simboli delle trasformazioni del PCI fino a giungere al PD.

    Guidati da D’Alema, i DS continuarono il dialogo con le forze di centro. La fusione si concretizzò con la convocazione degli Stati generali della Sinistra. I PDS divennero così a pieno titolo una forza della sinistra democratica italiana, in sintonia con la socialdemocrazia europea, continuando a rivendicare il riconoscimento della migliore tradizione del PCI come partito-simbolo della sinistra.

    Eliminarono dal simbolo il riferimento al PCI e lo sostituirono con una rosa rossa (simbolo appunto del socialismo europeo) con accanto prima la sigla del PSE e poi perfino la scritta per esteso "Partito del Socialismo Europeo.

    Dopo la crisi del Governo Prodi (ottobre 1998), D’Alema fu a capo di un governo che andava dall’Unione democratica per la Repubblica di Francesco Cossiga e al Partito dei comunisti italiani (PDCI), lasciando il vertice del partito a Veltroni.

    Dal 13 al 16 gennaio 2000 i dirigenti del partito DS organizzarono il loro primo congresso a Torino . Si confrontarono due mozioni:

    – La prima, maggioritaria, proponeva la riconferma di Veltroni come segretario, con l'appoggio, tra gli altri, del premier in carica D'Alema. Sosteneva il superamento della contrapposizione della Sinistra con il fronte moderato e rilanciava il progetto di coalizione dell'Ulivo, asserendo che l'Ulivo era il futuro dell'Italia. Veltroni aveva dichiarato nella sua relazione: "Sinistra riformista, ambientalismo e centro democratico sono culture ed esperienze che hanno bisogno l'una delle altre. Guai a pensare a nuovi fronti progressisti, o a contrapporre l'identità dei moderati a quella della Sinistra."

    – La seconda mozione rilanciava la presenza di una minoranza legata in maniera più sostanziale al ruolo della Sinistra: sosteneva che l'Ulivo avrebbe dovuto essere un'alleanza politica plurale, ma al contempo che il rafforzamento della coalizione non potesse risolversi nella dissoluzione delle diverse identità politiche.¹

    La prima mozione ottenne la maggioranza dei consensi, con il 79,9%. In quella occasione congressuale, inoltre, i DS approvarono lo statuto del partito. Molti affermano che con quel congresso i DS si fossero adeguati alla socialdemocrazia. In verità per timori di ulteriori scissioni non vi fu mai una revisione radicale e un’abiura del marxismo-leninismo, come fecero i socialdemocratici in Germania a Bad Godesberg nel 1956 e come fecero i laburisti inglesi con la Terza Via di Blair.

    Caduto il governo D’Alema (aprile 2000), dopo i deludenti risultati elettorali alle elezioni europee del 1999 e alle amministrative del 2000, i DS sostennero il governo Amato, ma le elezioni del 2001 diedero al partito solo il 16,6% dei voti costringendo di lì a poco alle dimissioni Veltroni.

    1.2 – La diaspora politica degli ex democristiani.

    Anche se solo il 30% degli italiani era cattolico praticante, l’80% della popolazione italiana in un modo più o meno velato faceva riferimento di massima alla religione cattolica che era una parte unificante di un paese regionalmente molto variegato.

    Franco Marini ex ministro del Lavoro ed esponente di punta del sindacalismo cattolico (CISL), eletto segretario del PPI nel 1997, cercò di tenere assieme le varie anime dell’Ulivo per garantire un leale appoggio al Governo Prodi. All’interno del partito, che aveva ereditato dalla DC l’organizzazione del partito in correnti (alias fazioni) si affermarono, tra le tante, in tempi diversi tre correnti di pensiero e potere diversi.

    La prima era capeggiata dall’ulivista emiliano Pier Luigi Castagnetti (ironicamente definito da una certa stampa il "garzone" di Prodi), ed era espressione dell’area modernizzatrice del cattolicesimo democratico settentrionale, attenta a unire l’originaria matrice cristiano-sociale con la lezione cattolico-democratica che si richiamava idealmente all’esperienza politica di don Giuseppe Dossetti. La spaccatura era anche geografica. Con Castagnetti vi erano i militanti settentrionali, specialmente veneti, guidati da Rosy Bindi, intenti a superare la conflittualità storica fra l’area socialcomunista e i popolari, al fine di giungere a una fusione fra socialisti e cattolici, fra laici e non credenti.

    La seconda faceva capo ai popolari meridionali Ciriaco De Mita (quello che aveva teorizzato che gli investimenti nel Sud dovevano essere politici), Nicola Mancino,

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