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Aspenia n. 94
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E-book372 pagine4 ore

Aspenia n. 94

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Economico, quello post-pandemia e geopolitico, quello post Afghanistan; esistono non uno, ma due dopoguerra da affrontare. Ne parlano tra gli altri sul numero 94 di Aspenia - rivista diretta da Marta Dassù - Robert Kagan, Jeffrey D.Sachs, Henry Kissinger, Eric Schmidt, Daniel Huttenlocher, Julian Lindley-French, Adam Tooze, Kenneth Rogoff, Giorgio La Malfa, Jean Pisani-Ferry, Daniel Gros, Yuen Yuen Yang, Luigi Gubitosi, Matteo Codazzi Alberto Mattiacci e Stefano Scarpetta.
C'è, dunque, un dopoguerra economico, che ad alcuni ricorda gli anni Trenta del secolo scorso, con le sue leve keynesiane; e ad altri evoca invece i vecchi anni Settanta, con il rischio di pressioni inflattive. La pandemia ha costretto tutti a ripensare con urgenza il rapporto tra Stati e mercati, se non altro perché i governi hanno dovuto adottare misure di emergenza non lontane da quelle tipiche dei tempi di guerra - di fatto, in un vero "stato di eccezione". L'aumento generalizzato del debito pubblico - ma anche, in verità, del debito privato - ne è un indice. A complicare il dopoguerra dell'economia c'è un forte tasso di incertezza sugli sviluppi tecnologici, in particolare nei settori più innovativi come quello dell'intelligenza artificiale con le sue infinite applicazioni, implicazioni etiche e conseguenze sul futuro del lavoro.

E poi c'è un dopoguerra geopolitico, legato almeno in modo simbolico al ritiro americano e della NATO dall'Afghanistan: segno, per alcuni, del progressivo declino occidentale, all'ombra di un'America che, anche con Joe Biden, si concentra a casa e sulla competizione con la Cina; e indicazione, per altri, che la coesione fra democrazie liberali continua a scricchiolare, a tutto vantaggio dei rivali autoritari. Dal punto di vista della Casa Bianca, l'uscita dal teatro afghano permette agli Stati Uniti di concentrarsi sui due fronti che contano davvero per Joe Biden (e prima di lui per Donald Trump): il dopoguerra dell'economia e la competizione con la Cina (tenendo intanto la Russia sotto controllo attraverso la NATO). Dal punto di vista dell'Europa è decisivo che dal ritiro dall'Afghanistan si capisca quanto sia giusto costruire una capacità di difesa europea. Sono finiti gli alibi: l'America "China first" ha meno riserve di un tempo su un'Europa della difesa; la Gran Bretagna post-Brexit non è certo di ostacolo. L'ostacolo è dentro l'Europa: sono le divisioni fra Stati nazionali in politica estera, è l'assenza di una cultura e di una visione strategica condivise, è l'abitudine ormai patologica a delegare la sicurezza, è, infine, la riluttanza a investire nello strumento militare.

LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9788871872803
Aspenia n. 94

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    Aspenia n. 94 - Aa.vv.

    editoriale

    I nuovi dopoguerra

    Stiamo vivendo due difficili dopoguerra – ammettendo che la battaglia contro il Covid sia sotto controllo e che il ritiro dall’Afghanistan concluda le forever wars, le guerre infinite in cui gli Stati Uniti e i loro alleati si sono impegnati con esiti diversi da parecchi decenni a questa parte.

    C’è un dopoguerra economico, che ricorda ad alcuni gli anni Trenta del secolo scorso, con le sue leve keynesiane; e ad altri, per esempio a Kenneth Rogoff, evoca invece i vecchi anni Settanta, con il rischio di pressioni inflattive. E c’è un dopoguerra geopolitico, legato almeno in modo simbolico al ritiro americano e della NATO dall’Afghanistan: segno, per alcuni, del progressivo declino occidentale, all’ombra di un’America che, anche con Joe Biden, si concentra a casa e sulla competizione con la Cina; e indicazione, per altri, che la coesione fra democrazie liberali continua a scricchiolare, a tutto vantaggio dei rivali autoritari. I dopoguerra avvengono in un sistema internazionale che definiamo multipolare ma non sappiamo come governare. In entrambi i casi – ripresa economica post pandemia e gestione delle conseguenze del ritiro dall’Afghanistan – c’è l’esigenza, e anche l’opportunità, di una ricostruzione: ossia di uno sforzo creativo per sviluppare idee nuove. Gli effetti diretti e indiretti delle decisioni che stiamo prendendo saranno probabilmente profondi e di lungo periodo. Aspenia cerca di spiegare perché.

    Aspenia n. 94 - I nuovi dopoguerra

    La ripresa delle economie avviene in un contesto che resta, nonostante la crisi della vecchia globalizzazione, fortemente interdipendente: cosa che naturalmente presenta vantaggi e svantaggi. Da un lato, circolazione delle merci, dei servizi, e in parte delle idee, con i noti benefici derivanti dalla specializzazione funzionale del lavoro; dall’altro, rapidi effetti-contagio, dipendenza da pochi fornitori per alcune componenti essenziali della produzione (energia, microchip, terre rare, medicinali e così via), competizione senza freni tra sistemi-paese, accentuazione delle diseguaglianze. C’è poi il costo ambientale dell’economia globalizzata, o quantomeno dell’attuale configurazione dei processi produttivi e di consumo. Il sovranismo economico esiste ed è qui per restare, scrivono parte dei nostri autori; ma è qui per restare, aggiungono altri, anche una vita economica globale, che avrà forme diverse da quelle degli ultimi decenni.

    La pandemia ha costretto tutti a ripensare con urgenza (anzi, in una situazione di panico) il rapporto tra Stati e mercati, se non altro perché i governi hanno dovuto adottare misure di emergenza non lontane da quelle tipiche dei tempi di guerra – di fatto, in un vero stato di eccezione. L’aumento generalizzato del debito pubblico (ma anche, in verità, del debito privato) ne è un indice.

    Il normale funzionamento dei mercati, oltre che della vita civile e dell’intera società, ne ha fatto le spese, anche se poi è proprio ai meccanismi di mercato che ci si è rivolti per produrre i vaccini, rilanciare la crescita, tamponare i danni in termini di reddito e qualità della vita. L’intreccio tra Stati e mercati – e fra decisioni pubbliche e libertà personali – è emerso come il tratto centrale, e problematico, della decisione politica. Per l’ovvia ragione (spesso dimenticata) che senza mercati nessuno sa come generare ricchezza e benessere, ma i mercati da soli non soddisfano tutte le esigenze e i desideri di una società complessa – a maggior ragione se democratica e ispirata ai valori liberali.

    In sostanza, il Covid-19 è arrivato in una fase già difficile per il capitalismo occidentale, che era assediato sia da dubbi interni sulle proprie capacità intrinseche di rigenerarsi e curare i suoi malanni (in particolare dopo la crisi finanziaria del 2008), sia da modelli politici che si pongono come alternativi a quello democratico-liberale (in testa il capitalismo di Stato cinese, dove il controllo centrale è in aumento, assieme al nazionalismo assertivo).

    Il dibattito sul nostro prima dopoguerra ruota così attorno alla possibile rifondazione del capitalismo, in base alle trasformazioni già in atto (transizione verde e transizione digitale come leve della ripresa europea) e in base alla volontà politica, espressa dall’amministrazione Biden anzitutto, di build back better: di ricostruire, ma di farlo su basi migliori e più sostenibili. Tenendo conto che i segnali di fragilità della democrazia americana hanno alle spalle il disagio economico di una parte importante della società.

    Questo obiettivo politico – o forse questo slogan – è stato rilanciato dal G7 principalmente come alternativa ai sogni di grandezza di Pechino, a conferma che la competizione (fra forme diverse di capitalismo in questo caso) è sempre un motore di cambiamento.

    Se il dopoguerra dell’economia è di tipo trasformativo, esistono tuttavia approcci diversi al grado di innovazione necessaria delle scelte politiche, fino alle tesi abbastanza velleitarie (alcune espresse anche in questo numero) su una sorta di palingenesi del capitalismo occidentale, che lo renderebbe quasi irriconoscibile rispetto a quello attuale: ma non sembra questo il caso né di Biden (non è rivoluzione ma evoluzione, spiega Angel Ubide) né dell’Unione Europea, che hanno adottato piuttosto un’impostazione fondata sull’aumento degli investimenti pubblici come leva per grandi opere infrastrutturali, per l’innovazione tecnologica e la transizione ambientale. La scommessa dell’Europa, in particolare, è che il Recovery Plan riesca a moderare le divergenze fra le economie, come esito della ripresa in atto: perché oltre un certo livello, la divergenza fra economie più o meno solide porterebbe a tensioni ingestibili nell’area euro. Per la prima volta da decenni, l’Italia è tra i paesi che crescono in fretta, non è insomma il malato d’Europa: ma è un trend che andrà consolidato dalle riforme necessarie per utilizzare al meglio i fondi europei. E non è ancora chiaro come evolverà, sul piano europeo e con una nuova coalizione tedesca, il dibattito sul futuro delle politiche fiscali, Patto di Stabilità in particolare. È vero che il debito medio europeo è ormai attorno al 100%; ma è anche vero che il fronte dei frugali torna a farsi sentire.

    Aspenia n. 94 - I nuovi dopoguerra

    A complicare il dopoguerra dell’economia c’è un forte tasso di incertezza sugli sviluppi tecnologici, in particolare nei settori più innovativi come quello dell’intelligenza artificiale con le sue infinite applicazioni e implicazioni etiche. Di questo tratta la sezione Scenario, legata strettamente alle questioni che riguardano il futuro del lavoro, tema discusso da tempo ma a cui il fattore Covid ha impresso una forte accelerazione, con sviluppi più rapidi di quelli che si potevano anticipare.

    È evidente che le tecnologie digitali, ma anche quelle del settore energetico o le nanotecnologie, sono una leva potente di cambiamento: in questo senso sono potenzialmente parte di una visione ottimistica del futuro globale.

    Ma non è mai semplice guidare l’evoluzione tecnologica, visto che essa è per sua natura imprevedibile nelle applicazioni e negli effetti a cascata: per questo è consigliabile una certa modestia e flessibilità da parte dei decisori politici nel momento di tracciare piani, indicare scadenze e fare scelte irreversibili su una tecnologia piuttosto che un’altra. E restano i dilemmi etici legati all’Intelligenza artificiale: l’Europa che si concentra sugli aspetti regolatori può essere in vantaggio su questo ma rischia anche di accentuare il suo ritardo tecnologico.

    In ogni caso, non aiuta granché discutere il dopoguerra economico (e infatti abbiamo deciso di non farlo) lungo una direttrice eccessivamente semplificata Stato-mercato: più Stato, meno mercato, o viceversa, secondo l’oscillazione di un pendolo che si è sempre mosso nell’ultimo secolo. La riflessione va piuttosto impostata su aspetti qualitativi, come la capacità di governance effettiva, la qualità dei servizi ai cittadini, l’efficienza nella definizione dei prezzi (e delle tariffe), l’impatto della fiscalità sulle diseguaglianze, la riduzione dell’impronta ambientale, il declino della proprietà a favore del possesso, le forme dell’interdipendenza globale e la loro concreta gestione. Del resto, il cittadino/utente/consumatore (che è anche produttore, nella misura in cui lavora o comunque partecipa alla vita civile) si aspetta l’accesso a beni e servizi in base ai diritti che gli sono riconosciuti, ed è solitamente poco interessato al modo (per via pubblica o privata) in cui può usufruirne. Soprattutto se si incorpora la variabile dei rapporti transnazionali nelle politiche economiche – come andrebbe sempre fatto – si devono adottare parametri più sofisticati per definire le grandi linee di una ricostruzione intelligente e realistica. Non opereremo più nella vecchia globalizzazione, spiega Pisani-Ferry, ma comunque in nuovo contesto globale, per quanto più frammentato e quindi difficile da governare. Se ci si illude di potere controllare fenomeni complessi, in particolare attraverso chiusure o dazi, si finisce per ridurre le dimensioni dei mercati e l’efficienza della produzione, senza alcun vantaggio duraturo per i cittadini che si vorrebbero proteggere. Ed è inevitabile che il nazionalismo economico accentui anche la conflittualità geopolitica: quanto durerà il nuovo dopoguerra?

    Dunque, almeno come conclusione provvisoria e sintetica: ben venga un più forte ruolo della politica nello spingere le energie del capitalismo verso obiettivi condivisi e virtuosi (i beni pubblici come obiettivo essenziale, per Jeffrey Sachs); ma sempre tenendo conto dei possibili effetti indesiderati, sempre ricordando che investimenti pubblici e vitalità del settore privato devono integrarsi per generare una crescita solida e sempre consapevoli della difficoltà, sul piano internazionale, di combinare in modo selettivo cooperazione (in diminuzione) e competizione (in aumento).

    Aspenia n. 94 - I nuovi dopoguerra

    E qui veniamo al secondo dopoguerra, quello geopolitico. È un dopoguerra molto più localizzato e specifico, la fine della guerra dei vent’anni in Afghanistan, che avviene in un contesto di competizione estrema fra Stati Uniti e Cina.

    Si è chiusa in modo inglorioso per gli Stati Uniti e gli alleati la più lunga e dispendiosa missione fuori area della NATO. Ma è chiaro a tutti, o almeno dovrebbe esserlo, che si tratta di un dopoguerra solo per le forze armate occidentali, visto che l’Afghanistan tornato ai talebani resta altamente instabile e potenzialmente al centro di futuri conflitti regionali.

    Le modalità del ritiro occidentale, con le sue conseguenze, hanno acceso di nuovo il dibattito sul disimpegno americano dai teatri del Grande Medio Oriente, su cui gli Stati Uniti avevano investito un importante capitale geopolitico negli ultimi decenni. Charles Kupchan parla di un nuovo isolazionismo americano. Per Aspenia, è un disimpegno selettivo: gli Stati Uniti si concentrano sul fronte interno e sull’Asia pacifico, mentre aumentano le spese militari complessive; e non ridurranno il loro impegno in Europa, anche se all’Europa chiedono di assumersi maggiori responsabilità di sicurezza, perlomeno nella gestione delle crisi ai confini.

    Quali saranno le conseguenze geopolitiche della chiusura caotica della lunga missione a Kabul? L’Occidente ha subito una sconfitta politica, prima che militare; ma è difficile pensare che l’Afghanistan offra grandi occasioni di rivalsa alla Cina, che finanzierà l’Emirato per trarne vantaggi strategici ed economici ma teme anche contagi nello Xinjiang; alla Russia, che ha appoggiato in questi anni l’opposizione a Kabul ma si fida ben poco del nuovo governo ed è reduce a sua volta dal ritiro del 1989; all’Iran, che teme per la sorte della minoranza Hazara nel nuovo Emirato sunnita e avrà problemi – come tutti i paesi confinanti, prima dell’Europa – con i flussi di rifugiati. Il vero attore che conta da sempre nelle vicende afghane, il Pakistan, ha una grande voce in capitolo, che sta esercitando in forme varie; ma dovrà uscire dall’ambiguità. Nel breve termine, insomma, siamo i perdenti e abbiamo di fronte dei vincitori, a cominciare dai talebani naturalmente e almeno potenzialmente da alcuni dei paesi della regione, dove si apre un nuovo great game da seguire con molta attenzione. Ma guardando più in là, con una visione più lunga, le implicazioni del ritiro da Kabul potrebbero essere assai meno lineari.

    Dal punto di vista della Casa Bianca, l’uscita dal teatro afghano permette agli Stati Uniti di concentrarsi sui due fronti che contano davvero per Joe Biden (e prima di lui per Donald Trump): il dopoguerra dell’economia e la competizione con la Cina (tenendo intanto la Russia sotto controllo attraverso la NATO). In questa visione, secondo cui le risorse di una grande potenza sono comunque limitate e vanno quindi utilizzate dove servono davvero, l’Afghanistan ha un’importanza tutto sommato limitata; è un assunto di tipo realpolitico (Lord Palmerston sarebbe stato contento, scrive nel suo saggio Julian Lindley-French), che dovrà però reggere alla prova di una eventuale ripresa del terrorismo jihadista.

    Questo non elimina la perdita di credibilità, almeno temporanea, dell’attuale amministrazione americana. Quando il presidente americano afferma, come ha fatto ancora in agosto, che la difesa dei diritti umani resterà al centro della politica estera americana, difficile credergli: difficile soprattutto da parte delle donne di Kabul, che tornano nella situazione di violenta inferiorità predicata dall’Emirato. E una parte degli alleati degli Stati Uniti, sia locali che internazionali, cominciano a dubitare del sostegno di Washington: fra cui gli europei, che lamentano l’assenza di consultazioni sul ritiro dall’Afghanistan ma che non sono mai stati in grado di proporre piani alternativi credibili.

    Il nuovo great game in Asia centrale vede di conseguenza un aumento di peso degli attori regionali, dal Pakistan all’Iran, più la Russia (con le sue repubbliche centroasiatiche) e la Cina: sarà interessante vedere se e quanto riusciranno a cooperare per stabilizzare l’Afghanistan. E andrà seguito il movimento del Qatar, protagonista della pessima mediazione di Doha fra americani e talebani, che pare avere scelto la Turchia come suo braccio militare. In che modo evolverà questo gioco di influenze?

    Cina e Russia sfruttano per ora la sconfitta politica occidentale. E tentano di costruire nuovi formati di consultazione regionale, in parziale alternativa al G20 guidato dall’Italia. Ma sia Pechino che Mosca temono a loro volta una ripresa della jihad globale: è il punto su cui Roma fa leva quando propone una concertazione internazionale sull’Afghanistan.

    Il regime talebano si trova di fronte a una società almeno in parte cambiata rispetto a venti anni fa, anche come riflesso dell’intervento occidentale. Avrà forti difficoltà a governare e non ha le capacità economico-finanziarie per stare in piedi da solo. Il ritiro da Kabul, quindi, non segna certo la fine della storia; apre piuttosto una nuova fase del grande gioco in Asia centrale e della lotta a un terrorismo jihadista che ha ormai basi diffuse in più continenti. I paesi occidentali, nonostante gli errori compiuti per strada, hanno ancora responsabilità da esercitare e strumenti di influenza, cioè potere.

    Aspenia n. 94 - I nuovi dopoguerra

    Nei loro articoli per Aspenia, Robert Kagan e Julian Lindley-French ricostruiscono i passaggi-chiave che hanno segnato l’esperienza occidentale in Afghanistan e i passi falsi che hanno ridotto l’efficacia degli sforzi collettivi nel paese. La discussione che si è aperta sul nation building era inevitabile; ma non può essere impostata in modo superficiale. La linea di demarcazione tra operazioni antiterrorismo, controguerriglia, stabilizzazione, pacificazione, e infine state building (che è forse il termine più corretto quando si cerca di creare istituzioni, piuttosto che una nazione) non esiste concretamente nella realtà, nel senso che non è affatto così netta.

    La storia dice che gli Stati Uniti, e a loro supporto non solo simbolico molti paesi alleati, sono intervenuti in Afghanistan dopo l’11 settembre per combattere il terrorismo e non per salvare gli afghani dai talebani. Ma dice anche che una volta abbattuto il regime che ospitava al Qaeda, era abbastanza inevitabile tentare di creare le condizioni per consentire all’Afghanistan di autogovernarsi senza diventare nuovamente un campo di addestramento per cellule terroristiche e guerriglieri: cosa su cui, dopo il ritiro, non abbiamo nessuna vera garanzia.

    In breve, le molte carenze dell’approccio occidentale a una società culturalmente difficile, frammentata e complessa come quella afghana sono state ampiamente analizzate e spiegate; ma la presenza internazionale nel paese non può essere condannata in toto dalla prospettiva dei valori, anche perché diplomatici, militari, operatori umanitari, funzionari di organizzazioni internazionali viaggiano portando con sé quei valori – ed è bene che lo facciano, vista l’alternativa che è sotto i nostri occhi. Esiste comunque – che lo si voglia o no – una dimensione etica del problema, legata al destino delle componenti più deboli della società afghana, che i talebani minacciano di schiacciare sotto la loro visione quasi-totalitaria della politica.

    Il dilemma vero, dopo il fallimento in Afghanistan, non è se abbandonare l’idea che sia conveniente (Realpolitik) o giusto (internazionalismo liberale) diffondere i valori democratici e difendere i diritti umani. Il dilemma vero è come riuscire a farlo: se non abbiamo alcun interesse a rinunciare ai nostri valori e se i diritti umani (in teoria universali, non occidentali) non possono essere ignorati, quali sono le alternative per riuscire a promuoverli? Anche questo secondo dopoguerra, insomma, richiede uno sforzo creativo. E richiede una buona dose di quella pazienza strategica di cui l’Occidente non ha dato prova in Afghanistan. Parte dello sforzo creativo dovrà essere interno: costruire democrazie liberali che funzionino meglio su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ma dovrà aggiungersi una componente internazionale: se le vecchie ricette non funzionano più, dovremo trovare altri modi per difendere valori e diritti in un’epoca multipolare, e segnata dalla contrapposizione fra democrazie liberali e rivali autoritari. Questo richiederà, fra l’altro, che l’Europa assuma a sua volta maggiori responsabilità dirette, con i rischi che ne conseguono.

    Aspenia n. 94 - I nuovi dopoguerra

    L’Europa sarà capace di farlo? O per l’Europa conterà soltanto il dopoguerra dell’economia, mentre il vecchio continente – privo di una vera politica estera comune, di capacità militari credibili e soprattutto della volontà politica di usarle – resterà inesistente nel dopoguerra della geopolitica? Il problema è che queste due dimensioni non possono più restare separate.

    È decisivo che l’Europa tragga, dal ritiro dell’Afghanistan, le lezioni giuste e non quelle sbagliate. È giusto costruire una capacità di difesa europea: sarà fra l’altro una condizione per un rapporto più equilibrato con l’America, salvando il futuro di una NATO di cui continuiamo ad avere bisogno. È sbagliato pensare che l’alleanza con gli Stati Uniti non risponda più ai nostri interessi di fondo: in un contesto internazionale segnato dall’ascesa di potenze autoritarie e da rischi transnazionali, la coesione fra democrazie liberali resta – o dovrebbe restare – una priorità per entrambe le sponde dell’Atlantico.

    È ormai chiaro, e da vari decenni, che una dipendenza esclusiva dalla protezione americana non risponde più alla realtà delle cose: né per gli americani né per noi europei. Questo significa che la NATO del futuro dovrà essere più bilanciata e che gli europei dovranno avere le capacità per agire nel proprio vicinato quando lo riterranno nei propri interessi. L’assenza dell’Europa di fronte alla crisi siriana è un indicatore del problema; così come l’evoluzione della Libia, dove abbiamo lasciato tutto lo spazio possibile a Turchia e Russia, le due potenze esterne con una presenza militare sul terreno.

    La lezione dell’Afghanistan, per gli europei, è quanto poco abbiamo contato, per varie ragioni, nella conduzione e conclusione della più lunga missione della NATO. Dove pure abbiamo speso parecchi soldi e perso giovani soldati. Ma è prima di tutto nel vicinato dell’UE (Mediterraneo allargato e Sahel), non in Asia centrale, che si misurerà la credibilità della gestione europea delle crisi. Riusciremo ad avere un approccio comune, con le capacità per sostenerlo e un sistema decisionale che permetta di agire?

    La difesa europea non può restare uno slogan che si trascina da decenni; va presa sul serio. Non abbiamo più alibi: l’America China first ha meno riserve di un tempo su un’Europa della difesa; la Gran Bretagna post-Brexit non è certo di ostacolo. L’ostacolo è dentro di noi: sono le divisioni fra Stati nazionali in politica estera; è l’assenza di una cultura e di una visione strategica condivise; è l’abitudine ormai patologica a delegare la nostra sicurezza; è la riluttanza a investire nello strumento militare pensando che basti la potenza civile. Non basta: se la dura lezione afghana deve servire, e se l’Europa vuole diventare un attore centrale dei due dopoguerra, deve finalmente capire che ripresa economica e strategia geopolitica vanno combinate. E derivarne scelte conseguenti, non solo parole. Siamo su questo in estremo ritardo.

    Aspenia n. 94 - I nuovi dopoguerra

    DEMOGRAPHY WATCH

    LA GRANDE FLESSIONE

    Negli ultimi decenni la combinazione di demografia e globalizzazione ha prodotto un grande aumento dell’effettiva offerta di lavoro, soprattutto in Asia e in Europa orientale, a scapito dei lavoratori occidentali. Oggi assistiamo a un’inversione di quelle dinamiche in senso più favorevole alle classi lavoratrici occidentali. Per uscire da debito e deficit i governi punteranno probabilmente sull’inflazione.

    Nei sette decenni trascorsi dai primi anni Cinquanta del Novecento, gli andamenti delle variabili nominali – inflazione, aspettative inflazionistiche e tassi d’interesse – sono stati sensibilmente diversi rispetto ai secoli precedenti. Lo si evince bene dal grafico 1, che mostra i rendimenti delle obbligazioni britanniche a lunga scadenza dal 1694 al 2020. L’inflazione di lungo termine, le aspettative inflazionistiche e i tassi d’interesse nominali (ma anche reali) sono rimasti relativamente stabili per centinaia di anni, salvo impennarsi a partire dal 1950, raggiungendo l’apice negli anni Settanta. Da allora sono ridiscesi altrettanto rapidamente, fino ai minimi odierni.

    Grafico 1 • La pluridecennale discesa dei tassi d’interesse

    Grafico 1 • La pluridecennale discesa dei tassi d’interesse

    Fonte: FRED, Bank of England.

    Ci concentriamo qui sulla costante discesa delle variabili nominali a partire dagli anni Ottanta e su ciò che al riguardo può riservarci il futuro. L’indipendenza delle banche centrali e il loro mandato di controllo dell’inflazione hanno sicuramente concorso a centrare tale traguardo. Ma il compito non è stato poi così difficile, specie per il calo strutturale dell’inflazione a partire dagli anni Ottanta. Dalla grande crisi finanziaria del 2008-2010 le banche centrali hanno anzi avuto difficoltà a scongiurare che l’inflazione scendesse sotto il loro obiettivo, normalmente fissato al 2% annuo. Dunque qualcos’altro, oltre al miglioramento del regime monetario, deve aver concorso a tenere bassa l’inflazione in tempi recenti.

    DAL RADDOPPIO DELLA FORZA LAVORO AL DECLINO ATTUALE. Dietro alle spinte deflazionistiche degli ultimi decenni vi è soprattutto un mix di demografia e globalizzazione. L’integrazione dell’enorme popolazione cinese (e di quella esteuropea) nel sistema del commercio mondiale ha più che raddoppiato la forza lavoro globale nei trent’anni dal 1980 al 2010. Il bacino di lavoratori cui un’azienda occidentale desiderosa di delocalizzare poteva attingere è passato dai poco più di 700 milioni del 1980 agli oltre due miliardi del 2010: il maggiore incremento di forza lavoro nella storia. Questo processo vede ora una massiccia inversione, con l’eccezione della forza lavoro africana.

    Grafico 2a • La popolazione in età da lavoro si riduce quasi ovunque

    Grafico 2a • La popolazione in età da lavoro si riduce quasi ovunque

    Grafico 2b • L’incremento della popolazione in età da lavoro rallenta

    Grafico 2b • L’incremento della popolazione in età da lavoro rallenta

    Nota: le tendenze in Africa e, in misura minore, in India, sono delle eccezioni.

    Fonte: UN Population Statistics.

    Oltre all’inclusione nel commercio mondiale, a determinare la parabola della popolazione cinese in età da lavoro sono stati due importanti fattori: una massiccia migrazione interna dalle province dell’ovest – rurali e prive di sbocchi al mare – alle città costiere e industriali dell’est; e un’epocale modifica della piramide demografica, con la caduta dei tassi di natalità (in parte dovuta alla politica del figlio unico) e il conseguente aumento percentuale delle coorti più anziane. Sviluppi demografici analoghi si sono registrati in quasi tutte le economie avanzate, la cui proporzione di giovani è diminuita sensibilmente tra il 1970 e il 2010 (ancora prima in Giappone, che ha anticipato la tendenza) a fronte di un sensibile aumento dei pensionati.

    Aspenia n. 94 - I nuovi dopoguerra

    La modifica del rapporto pensionati/lavoratori (causa l’aumento dei primi rispetto ai secondi) è di per sé deflazionistica: i lavoratori devono produrre beni e servizi che valgano più dei loro salari, altrimenti diventa diseconomico assumerli. Viceversa, giovani e anziani che non lavorano consumano ma non producono, incrementano la domanda rispetto all’offerta. Gli indici di dipendenza sono migliorati sensibilmente fin verso il 2010, ma da allora vanno peggiorando rapidamente nella maggior parte dei paesi.

    Tabella 1 • Gli indici di dipendenza crescono per l’aumento degli anziani, non dei giovani

    Tabella 1 • Gli indici di dipendenza crescono per l’aumento degli anziani, non dei giovani

    Fonte: US Population Statistics.

    La combinazione di demografia e globalizzazione ha dunque prodotto un enorme aumento dell’effettiva offerta di lavoro. L’aumento si è concentrato quasi esclusivamente in Asia e in Europa orientale, dove i salari erano inizialmente una frazione di quelli occidentali. Il risultato finale è stato un forte aumento dei salari a est e relativa stagnazione salariale a ovest, come mostrato dalla tabella

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