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Piove governo ladro
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E-book396 pagine5 ore

Piove governo ladro

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Piove, governo ladro è una frase passata alla storia. Divenne un modo di dire. Ma chi la disse, e perché?
Oggi, Piove, governo ladro, potrebbe essere scambiata per una tipica espressione o modo di dire del “grillismo”, invece viene dritto dritto dall’Ottocento. In pochi mesi – dalle elezioni politiche del 4 marzo 2018 in poi – siamo entrati a pieno titolo nella Terza Repubblica. Prima, però, è esistita la Seconda e, ovviamente, la Prima.
Come parlava, e come parla, il Potere se facciamo una rapida cavalcata tra le tre Repubbliche?

Urge mettere in fila tutte le parole, le espressioni, le frasi idiomatiche della politica, raccontare quando, come e perché nacquero, in quale contesto e cosa, invece, significano oggi.


La storia, naturalmente, come la Politica, si evolve, cambia freneticamente, ma alcuni tecnicismi resistono. Infatti, esistono alcuni oggetti misteriosi che indicano, nella tecnica elettorale e parlamentare, pratiche ben specifiche. Tante domande a cui questo libro cerca di fornire alcune risposte il più possibile precise e documentate, non senza un tocco di leggera ironia. Viviamo, infatti, in un’epoca in cui “anche il cretino si è specializzato”, diceva Ennio Flaiano, grazie ai social e all’onnipresenza della tv e dei talk show.
Infine, ci sono le parole dello sport entrate nel lessico della Politica, facendola diventare un gergo, prima elitario, poi comune. Come è stato possibile?
Tante domande alle quali questo libro cerca di fornire risposte il più possibile precise e documentate, non senza un tocco di leggera ironia.

Ettore Maria Colombo, classe 1968, è molisano. Vanta una laurea, all’Università Cattolica del Sacro Cuore, in Scienze Politiche, e un corso di specializzazione in Giornalismo. Ha lavorato da Milano (Liberazione, Diario della Settimana, Vita) e poi da Roma (Europa, il Riformista, il Messaggero, Panorama), sempre come cronista politico-parlamentare.
Dal 2015 scrive per QN, dal 2019 per il sito Tiscali.it e cura anche un blog personale di politica, “L’Uovo di Colombo”.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mag 2020
ISBN9788835832478
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    Anteprima del libro

    Piove governo ladro - Ettore Maria Colombo

    Ettore Maria Colombo

    Piove governo ladro

    Un Dizionario della politica

    della Terza Repubblica

    senza dimenticare le altre…

    Ettore Maria Colombo

    Piove governo ladro

    © 2019 by All Around srl

    I edizione cartacea dicembre 2019

    ISBN: 9788899332662

    redazione@edizioniallaround.it

    www.edizioniallaround.it

    Indice

    Introduzione

    Prima Repubblica

    Azionisti, repubblicani, qualunquisti

    Comunisti e socialisti

    Democristiani

    Socialisti

    Radicali

    Missini

    Seconda Repubblica

    Pool di Milano

    Post-democristiani

    Post-comunisti

    Berlusconi e berlusconiani

    Bossi e leghisti

    Prodi e democratici

    Neocomunisti

    Post-missini

    Terza Repubblica

    Monti e centristi

    Pd e centrosinistra

    Le trasmissioni Tv e radio

    I quotidiani e le loro firme

    La bibliografia vera e propria

    Introduzione

    Le ragioni di un libro sotto forma di dizionario sulle parole della politica

    Vi siete abituati a dire «io a quello lo asfalto»? Bene, bravi (cioè, per niente, anzi: male!), ma sappiate che il verbo usato per indicare la volontà di distruggere qualcuno se lo è inventato Matteo Renzi. E se, scherzando, rassicurate, in modo ironico, qualcuno/a dicendogli «stai sereno» anche: sempre a Renzi dovete il modo di dire.

    «Zingaraccia»o «sbruffoncella» non dovreste mai dirlo a nessuno, ma se lo fate sappiate che il merito della definizione è di Salvini. Infine, una serie di luoghi comuni tipici dei modi di dire della politica: sono così banali, nel linguaggio comune, che neppure uno ci pensa che siano frutto di una sorta di politichese for dummies.

    Gli esempi, naturalmente, non sono esaustivi, anzi: si potrebbe andare avanti all’infinito. Abbiamo scelto solo quelli più classici e caratteristici, attenendoci alla politica in senso stretto e tralasciando temi tipici della lingua economica, della sociologia e del diritto.

    - A -

    Abbassare i toni. Di solito lo raccomanda il capo dello Stato, quando il livello dello scontro politico si fa molto acceso, ma capita anche che lo chieda una forza politica – di solito quella al governo – verso chi sta all’opposizione. Di solito, l’invito non viene accolto…

    Esempi: «Colle: Abbassare i toni in politica oppure la legislatura sarà a rischio» (dal comunicato stampa del Quirinale del 12 febbraio 2011 dopo l’incontro tra Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi); Luigi Di Maio: «Bisogna cominciare ad abbassare i toni perché bisogna iniziare a fare le cose concrete» (da agenzia Agi del 13 maggio 2019).

    Agibilità politica. Se ne parla, da sempre, in merito a Silvio Berlusconi: prima della sua discesa in campo, di fatto la questione neppure esisteva. Se ne trovava traccia solo nei volantini militanti della Sinistra radicale degli anni Settanta, che chiedeva spazi politici di discussione e manifestazione.

    L’agibilità politica, dunque, è una locuzione che si è trasformata in cliché, complici i media. Berlusconi, dopo essere stato condannato in tre gradi di giudizio per frode fiscale sui conti Mediaset nel 2013, era stato dichiarato decaduto per effetto della legge Severino dalla carica di senatore, con un voto del 2015. A quel punto, nel centrodestra e in particolare dentro Forza Italia, è nata la richiesta di concedergli agibilità politica. Ma, come sempre, tutto è bene quel che finisce bene. Infatti, il 12 maggio 2018, il Tribunale di sorveglianza di Milano ha concesso a Berlusconi la riabilitazione cancellando gli effetti della condanna, grazie all’impegno di aver assistito gli anziani nella casa-famiglia di Cesano Boscone. Da allora in poi il Cavaliere è tornato a essere candidabile, in quanto sono decaduti gli effetti della legge Severino e così è risultato eletto alle europee del 2019 per Forza Italia. L’agibilità politica Berlusconi se l’è ripresa all’estero.

    Esempi: Beppe Grillo, fondatore dell’M5s, commenta così la questione: «L’agibilità politica per Berlusconi è una grazia camuffata» (da Il Sole 24 ore del 7 agosto 2013).

    Aiutiamoli a casa loro. Slogan tradizionalmente utilizzato dalla Destra, fin all’inizio degli anni Novanta (quando in Italia iniziarono ad arrivare numerose ondate di migranti), che il Pd nel 2017 mutua in una immagine pubblicitaria (card) usata per Facebook e quasi subito ritirata causa impetuose polemiche.

    Lo slogan era la citazione di un brano dell’ultimo libro del segretario del Pd, Matteo Renzi, Avanti (Feltrinelli). Renzi voleva dire che il modo migliore per gestire in maniera umanitaria l’immigrazione è contribuire allo sviluppo dei Paesi di origine delle migrazioni. Gli esperti lo giudicano, però, uno slogan sbagliato perché sembra preso pari pari da quelli della Destra. In pratica, un modo per limitarsi a dire che bisogna impedire alle persone in difficoltà di venire in Italia. Ciò non toglie che sia, tecnicamente, un ottimo slogan: arriva dritto al punto – «gli immigrati non li vogliamo» – e in maniera positiva, proponendo di «aiutarli» sì, ma da un’altra parte. Probabilmente è stato proprio per la doppia valenza del messaggio che Renzi ha deciso di includerlo nel suo libro, ma le critiche fortissime hanno spinto il Pd a ritirarlo quando, però, ormai la frittata era stata fatta.

    Al buio (crisi). Si dice, aprire una crisi di governo al buio, non in senso pokeristico, ma in senso tecnico: apri la crisi ma senza sapere come va a finire, cioè senza avere possibili soluzioni, o carte alternative, in mano. È sempre un rischio o un azzardo. Matteo Salvini, nell’estate del 2019, così si è comportato e, come si è visto, mal gliene incolse…

    Esempi: Augusto Minzolini, «Così la crisi al buio terrorizza il Palazzo: tutti sono a rischio», 21 agosto 2019.

    Amico (governo). Quando un politico di opposizione definisce un governo amico è meglio che il premier, i suoi ministri e la maggioranza che lo sostiene si mettano sul chi va là.

    Dall’opposizione, governi amici non esistono. Invece, definire amico un governo che si sostiene è poco più che un pannicello caldo: prima o poi, in cambio dell’amicizia quel leader o quel partito chiederà qualcosa (posti di governo, provvedimenti ad hoc, nomine, etc.). Insomma, meglio che qualcuno ti dica che il governo che stai guidando o sostieni è nemico

    Esempi: «Gentiloni va in Europa e promette un governo amico dell’Italia» (da IlSole24ore.it, 6 settembre 2019).

    Amico (fuoco). In guerra, come in politica, è una delle cose peggiori che ti possano capitare. Nel gergo militare il fuoco amico indica la situazione in cui soldati o mezzi vengono a trovarsi sotto il fuoco delle proprie batterie o di quelle alleate. In politica capita fin troppo spesso di subirlo e prima o poi ogni leader ne fa le spese.

    Matteo Renzi, per tutto il periodo in cui ha guidato il Pd (partito dal quale è uscito per fondare Italia Viva), se n’è sempre e molto lamentato, ma dall’autunno 2019 ha iniziato iniziare a fare fuoco amico contro il governo Conte II, che in teoria sostiene. Conte ha capito l’antifona e fa sapere: «Non sono sereno».

    Esempi: Matteo Renzi, «Ho deciso di lasciare il Pd dopo sette anni di fuoco amico» (dall’agenzia La Presse del 17 settembre 2019); Adriano Biondi, «Che senso ha il fuoco amico di Matteo Renzi sul governo e perché è ineluttabile» (da Fanpage.it del 22 settembre 2019).

    Ammanigliato. L’uomo politico lo è sempre per definizione o almeno così pensano i cittadini.

    Per il vocabolario il termine indica una «persona protetta in alto luogo, che si vale di forti appoggi e complicità». In questo caso il passaggio da una Repubblica all’altra non ha cambiato il significato del termine. Nel suo Dizionario del politichese (1981) il giornalista Gino Pallotta lo definiva «un faccendiere, maneggione, capace di ottenere favori passando di porta in porta, di maniglia in maniglia».

    Ammucchiata. «Il mio manifesto europeista non è un ammucchiata» assicurava Carlo Calenda sotto le elezioni europee (da La Repubblica del 21 gennaio 2019).

    «Non sarà facile fare un’ammucchiata contro di noi» preconizzava, prima delle elezioni politiche, Luigi Di Maio leader dei 5Stelle (da Il Messaggero del 3 maggio 2018). «La Sinistra ha fatto un’ammucchiata» era il giudizio dei giornali di Destra sui governi di centrosinistra che furono. Insomma, l’ammucchiata in politica esiste eccome, ma per la lingua italiana non si dice, anche se ovviamente si fa.

    Antiberlusconismo. Un fenomeno che, nel bene e nel male, ha segnato la storia d’Italia negli ultimi vent’anni, nato con la stessa discesa in campo di Berlusconi.

    La prima grande manifestazione di antiberlusconismo è stata senz’altro quella organizzata dal quotidiano il manifesto, il 25 aprile 1994, in occasione della festa della Liberazione, a stretta distanza dalle elezioni politiche che avevano segnato il trionfo di Forza Italia e la nascita del governo Berlusconi I. Da allora, di manifestazioni anti-berlusconiane ne sono state fatte molte: si va dal No Cav Day (giorno per dire no al Cavaliere) organizzata dalla rivista Micromega con l’adesione de girotondi, dell’Idv di Di Pietro e di alcuni esponenti del Pd a piazza Navona, l’8 luglio 2008 (è quella del famoso grido di Nanni Moretti «con questi dirigenti non vinceremo mai!»), al No Berlusconi Day organizzato dal Popolo Viola, con l’appoggio della Cgil, il 5 dicembre 2009, sempre a Roma, in piazza San Giovanni in Laterano.

    Poi, ecco le grandi ondate di scioperi dei sindacati (nel 1994, nel 2001-2002 e nel 2008-2009) e le tante manifestazioni organizzate dal Pd, da quella al Circo Massimo di Veltroni (2008) a quelle a piazza del Popolo. Ma l’antiberlusconismo è stato anche un fenomeno sociale e culturale, con risvolti profondi nel costume e nella vita quotidiana degli italiani, e tra gli intellettuali, nei giornali e anche in esponenti del mondo dello spettacolo (cinema, Tv, teatro), che ne hanno fatto una vera e propria bandiera.

    D’Alema, accusato di inciucio per aver varato la Bicamerale per le riforme con Berlusconi (fallita, peraltro) e Renzi, colpevole di voler stringere con Berlusconi un patto per le riforme (il famoso patto del Nazareno) sono stati ritenuti, a torto o a ragione, troppo friendly con Berlusconi, vissuto come il nemico pubblico numero Uno degli anti-berlusconiani, quindi dei berlusconiani di fatto.

    Antirenzismo. È diventato un modo di dire, e di essere, anche l’anti-renzismo, cioè la contrapposizione quasi sistematica alle politiche portate avanti da Matteo Renzi, come leader del Pd e come presidente del Consiglio, dal 2015 al 2017.

    Contrastato sia dentro il Pd dalla minoranza interna che poi porterà le critiche alle estreme conseguenze con la scissione di Mdp (il famoso fuoco amico), sia nel centrodestra e nei 5Stelle, Renzi ha subito – anche grazie alla sua protervia e ai suoi modi da bullo – un’opposizione durissima sfociata nella contrapposizione al referendum istituzionale proposto sulle riforme Boschi del 4 dicembre 2016. Una sconfitta sonora, per Renzi, sepolto da una valanga di no (il 59%) ma che era comunque riuscito a ottenere un buon numero di (il 40%).

    Cgil, Avpi, partiti a sinistra del Pd, la minoranza interna del partito, intellettuali e commentatori (i famosi professoroni del No nell’accezione negativa e spregiativa con cui Renzi li appellava) si schierano in un blocco compatto con due finalità: far bocciare dai cittadini la schiforma costituzionale (come veniva chiamata dall’union sacré delle opposizioni) e far cadere Renzi. Entrambi gli obiettivi sono stati per lungo tempo raggiunti, dato che subito dopo il referendum Renzi si dimise da Palazzo Chigi e dopo la sconfitta alle politiche del 2018 si dimette da segretario del Pd. Ma nell’estate 2019 Renzi riprenderà l’iniziativa politica, prima facendo da levatrice all’accordo tra M5s e Pd per sostenere il governo Conte II e poi fondando un nuovo partito, Italia Viva, i cui gruppi parlamentari oggi tengono sotto scacco il premier Giuseppe Conte. Gli antirenziani non si libereranno facilmente di Renzi.

    Asfaltare. «Io a quello lo asfalto» è uno dei termini più in voga nel linguaggio politico, per indicare il desiderio di distruggere o azzerare un avversario o un competitor di altro partito o schieramento, ma è entrato nell’uso comune.

    Si tratta, in realtà, dell’uso figurato del verbo asfaltare. Solo l’Accademia della Crusca, sul suo sito ufficiale, riporta i sinonimi di umiliare, annientare, distruggere qualcosa o qualcuno, sconsigliandone l’uso nei contesti formali (sic). L’espressione è usata all’inizio solo nelle cronache sportive (si asfaltano intere squadre o singoli giocatori) e fino al 2011-2012 il verbo si trova raramente. Ma è a settembre del 2013 che il termine esonda. Tanto per cambiare, la responsabilità è di Matteo Renzi che utilizza l’espressione «Li asfaltiamo!» durante il discorso di chiusura della festa del Pd a Milano alle elezioni del 2013 (da Andrea Montanari, Renzi lancia la sfida alla Destra. «Se si vota questa volta li asfaltiamo», La Repubblica, 16 settembre 2013).

    L’espressione usata da Renzi impressiona l’opinione pubblica, scatena diverse polemiche a causa della sua sfumatura aggressiva e provoca una buona dose di polemiche. L’allora sindaco di Firenze contro-replica a chi sosteneva che asfaltare fosse un termine troppo duro con un post sul suo profilo Facebook del 18 settembre 2013: «Oh, ma fanno tutti polemica sulle parole. Rottamare non va bene, asfaltare è violento, cool è troppo inglese». Da allora il verbo inizia a circolare sui media, a partire da talk show, penetrando nel linguaggio comune nell’accezione di sconfiggere, annientare, nei social network e in Rete.

    Esempi: Francesco Piccinini, «Conte ha asfaltato Salvini (e nessuno se lo sarebbe mai aspettato)», da FanPage.it del 20 agosto 2019; Franco Grilli, «Berlusconi asfalta il Conte bis: è il governo delle quattro sinistre» (da il Giornale del 18 settembre 2019).

    Autunno caldo. Quando arriva l’autunno, come un orologio svizzero, i sindacati scendono in piazza e promettono che l’autunno sarà caldo, ma la minaccia ogni anno che passa è sempre più spuntata.

    Dopo anni di disintermediazione tra politica e corpi sociali (gli anni del governo Renzi), governi e sindacati hanno ritrovato il filo del dialogo e il famoso tavolo verde (altra definizione tipica: il classico tavolo da gioco del poker o del biliardo diventa, nel gergo sindacale, quello tra sindacati e governo) di palazzo Chigi è stato riaperto, proprio con Conte.

    I sindacati chiedono, di solito, aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro e più tutele per i loro assistiti: se non ottengono soddisfazione alle loro richieste sono pronti a scendere in piazza tra mobilitazioni e scioperi, scatenando un autunno caldo. Il termine viene dal biennio 1969-1970 in cui, dopo la contestazione studentesca del 1968, migliaia di lavoratori di tutti i comparti, fabbriche e condizioni sociali, erano scesi in piazza per ottenere salari più dignitosi e vere protezioni sociali: li ottengono entrambi nel 1970 con il varo dello Statuto dei lavoratori e di nuovi contratti di lavoro, specialmente per il settore dei metalmeccanici.

    Avvocato (del popolo). Per l’intera Prima Repubblica è esistito un solo Avvocato: si chiamava Gianni Agnelli, era il padrone della Fiat e non ha mai pensato di fare – noblesse oblige - politica (l’ha fatta, invece, con il Pri, sua sorella, Suni Agnelli, e con la Dc suo fratello, Umberto Agnelli).

    Nella Seconda Repubblica, invece, erano saliti alla ribalta gli avvocati. Prima, quelli che difendono gli inquisiti durante gli anni di Tangentopoli (Sergio Spezzali, Giuliano Pisapia, etc.). Dopo la pletora di avvocati cui tocca l’ingrato compito di difendere Silvio Berlusconi (Niccolò Ghedini, suo influente consigliori dentro Forza Italia, Maurizio Paniz, poi deputato, Pietro Longo, etc.). Infine, nella Terza Repubblica, ecco di nuovo un Avvocato al singolare, l’Avvocato del popolo, il due volte premier Giuseppe Conte.

    Completi grigi, pochette d’ordinanza e ciuffo sbarazzino, sembra sempre che Conte stia patrocinando una causa (con una toga che tutti gli immaginano addosso), anche quando presiede un Cdm o tiene un vertice di governo. La definizione se l’è attribuita lui stesso nel discorso di insediamento del suo governo (il Conte I) davanti alle Camere, il 4 giugno 2018: «Sono professore e avvocato … mi accingo ora a difendere gli interessi di tutti gli italiani».

    Il 5 giugno, nella replica al Senato, è ancora più esplicito: «Mi propongo a voi, e attraverso voi, come avvocato che tutelerà l’interesse dell’intero popolo italiano».

    Amico del popolo, invece, è la definizione che gli affibbia Di Maio con un paragone storico assai ardito. Infatti, l’Amico del popolo per definizione era il rivoluzionario francese Jean-Paul Marat, capo dei giacobini: fonda, nel 1789, un giornale presto famoso e che ne prende il soprannome (L’ami du peuple appunto), ma fa una brutta fine (ghigliottina). In ogni caso, dopo un anno e mezzo, Conte si trasforma: con il cambio di governo, dismette i panni dell’amico del popolo per prendere quelli del professor futuro (o, come ha rettificato lui stesso, del professore proteso al futuro). È nato il BisConte.

    Esempi: Andrea Carli, «Conte bis? I 15 mesi a palazzo Chigi dell’avvocato del popolo diventato leader politico» (da Il Sole 24 ore del 27 agosto 2019); Mario Ajello, «Conte, da avvocato del popolo a professor futuro» (da Il Messaggero del 2 settembre 2019); Giuseppe Marino, «Addio all’avvocato del popolo: adesso Giuseppi fa l’umanista» (da Il Giornale del 30 agosto 2019).

    - B -

    Bacio, bacio!. Il sodalizio politico tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio comincia con un bacio: lo disegna il writer romano TvBoy a due passi da Montecitorio, in via del Collegio Capranica, il 23 marzo 2018, il giorno in cui si insedia il nuovo Parlamento che apre la XVIII legislatura.

    Un bacio davvero profetico, degno del miglior giornalista e anche del miglior astrologo: le trattative, lunghe e laboriose, per formare il nuovo governo gialloverde ancora non erano neppure cominciate. Il disegno viene cancellato in poche ore, addirittura viene aperta un’inchiesta.

    Passa un anno e TvBoy colpisce ancora. Giura il Conte II e nottetempo, il 6 settembre, compare sui muri della Capitale la celebrazione del nuovo accordo giallorosso di governo. Nel murales si vedono Le tre Grazie (Conte, Di Maio e Zingaretti, abbracciati, felici e sorridenti), ispirata al celebre dipinto di Raffaello, più il richiamo al Cupido (Renzi) di Botticelli che colpisce due cuori intrecciati in giallorosso. Ma chi è TvBoy? Palermitano trapiantato a Barcellona, vero nome Salvatore Benintende, lo street artist ha già fatto parlare di sé più volte con le sue opere, tutte originali. «L’arte ha il potere di immaginare un mondo parallelo», racconta TvBoy a volto coperto a Repubblica.it nel 2018.

    Badanti. Se sei un leader e hai la badante sei poco leader.

    L’ossimoro della definizione riguarda un leader maschio (e macho) per eccellenza e per definizione, Silvio Berlusconi, che ha avuto come badante la senatrice Mariarosaria Rossi, intima amica della sua fidanzata ufficiale, Francesca Pascale. Pensare al Cavaliere che ha la badante, ormai, è normale quasi quanto lo era vedere Massimo D’Alema badante di Romano Prodi o pensare Salvini e Di Maio lo siano stati di Conte.

    Anche il leader della Lega, Umberto Bossi, aveva la badante: Rosy Mauro, persino vicepresidente del Senato e con un fidanzato poliziotto con cui finiva regolarmente sui giornali di gossip. Ma anche lei, come la Rossi, dopo anni di servizio è stata dimissionata in malo modo.

    Esempi: Susanna Turco, «Ascesa e declino di Maria Rosaria Rossi, la badante di Berlusconi» (da L’Espresso del 20 ottobre 2016).

    Banane (Repubblica delle). «L’Italia è una Repubblica delle Banane!» è un’accusa o autoaccusa che spesso si fa all’Italia, anche in sede europea (dove non ci amano).

    Il termine, che ha avuto molta fortuna, viene da oltreoceano e indica una piccola nazione – spesso latino-americana, e ancor più spesso caraibica – instabile dal punto di vista politico, ma soprattutto governata da un’oligarchia ricca e corrotta e con un’economia dipendente solo da un modesto settore agricolo controllato dalle multinazionali.

    Oggi è usato nella polemica politica per affermare la sottomissione di uno stato sovrano, europeo e non, alle ingerenze politiche ed economiche di soggetti sovra-statali economici esterni.

    Barbari (vecchi e nuovi). Sono sempre alle porte e stanno sempre per arrivare.

    Barbari erano i leghisti, quando calano su Roma, nel 1992-1994 (subito addomesticati, peraltro) e barbari sognanti si facevano chiamare i leghisti fan di Roberto Maroni. Barbari erano i berluscones quando prendono il potere con un partito azienda e null’altro alle spalle. Barbari erano i comunisti che reggevano il governo Prodi e volevano imporre più tasse per tutti. Barbari, ovviamente, erano i grillini quando, nel 2013, fanno il loro primo ingresso in Parlamento, promettendo di aprirlo come una scatoletta di tonno. Proprio Beppe Grillo – nemesi della politica, oltre che della storia – ha gridato il suo «Fermiamo i Barbari!». Lo fa nel corso dell’estate 2019 per evitare elezioni anticipate che il barbaro sognante Matteo Salvini avrebbe sicuramente vinto e al prezzo di obbligare il suo Movimento all’inedita alleanza con il Pd.

    Esempi: Annalisa Cuzzocrea, «Grillo ai 5Stelle: Niente voto, fermiamo i Barbari» (da Repubblica, 10 agosto 2019).

    Benaltrismo. È un termine tanto recente quanto già desueto.

    Lessicalmente, è «la tendenza a sminuire una discussione dicendo che i problemi o le soluzioni sono ben altri».

    Deriva dall’espressione ben oltre con l’aggiunta del suffisso -ismo. Nella Seconda Repubblica aveva trovato una sua notevole fortuna. L’ex segretario della Cgil Sergio Cofferati, che ambiva a diventare leader della Sinistra di allora, accusava la Sinistra di benaltrismo e benoltrismo. Del tutto inesistente il secondo termine e inusuale il primo, l’espressione ci vuole ben altro (per risolvere un problema) ogni tanto viene rispolverata, ma senza convinzione. Da non confondere con buonismo.

    Esempi: Sergio Cofferati, «Dare ai sindaci poteri di polizia o il benaltrismo ci seppellirà» (da QN del 9 luglio 2006).

    Berlusconismo. L’enciclopedia Treccani se la cava con tre righe «movimento di pensiero e il fenomeno sociale e di costume suscitato da Silvio Berlusconi e dal movimento politico da lui fondato», ma sia chi lo ha sostenuto sia chi lo ha avversato ne è stato accompagnato per vent’anni.

    Il ventennio berlusconiano, infatti, non passa solo per ben quattro governi in diversi periodi storici, tre vittorie elettorali schiaccianti (1994, 2001, 2008), la fondazione di ben tre partiti (Forza Italia, il Pdl, ancora Fi), campagne politiche, decine di atti legislativi e decisioni storiche. Il berlusconismo sta anche nel vissuto dell’Italia che inizia la sua lunga transizione nei primi anni Novanta (1992-1994) e la termina quando Berlusconi cade e cede il passo (2013-2014, incandidabilità e decadenza da senatore).

    Venti anni in cui la storia d’Italia è radicalmente cambiata, anche per colpa o per merito di Silvio Berlusconi, nella società e nei costumi oltre che nella politica. Da segnalare che, in realtà, come fenomeno mediatico, culturale e sociale, il berlusconismo nasce molto prima della discesa in campo, di fatto dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso. Poi si passa dal berlusconismo come sinonimo di ottimismo imprenditoriale al primato di Berlusconi che condiziona la politica italiana negli anni Novanta e Duemila. Tra gli studiosi e gli storici c’è chi attribuisce al berlusconismo il merito di aver fermato i comunisti nei primi anni Novanta e chi lo legge come un tentativo di peronismo argentino che incubava, addirittura, un nuovo fascismo. Insomma, nel berlusconismo si può leggere tutto e anche il suo contrario, ma ormai è diventato materia per gli storici e i sociologi.

    Bibbiano (partito di). Nel lessico politico è spuntato fuori di recente sotto forma di un «e ora parliamo di Bibbiano».

    L’espressione è usata da Lega, Fratelli d’Italia e Cinque Stelle ed evoca un presunto coinvolgimento del Pd in fatti di presunta violenza istituzionale e educativa perpetrata sui bambini del comune di Bibbiano, paese vicino Reggio Emilia, Emilia-Romagna). «Parliamo di Bibbiano!» vuole sminuire la figura dell’avversario (in genere del Pd) per alludere a una macchia (pesante visto che sono coinvolti dei bimbi) che svaluta l’interlocutore.

    «E allora Bibbiano?» è diventato un tormentone per indicare un movimento politico fatto di manipolatori e pedofili. Con il partito di Bibbiano, però, ora l’M5s si è alleato…

    Esempi: Matteo Salvini: «Mai con il partito di Bibbiano e gli danno il ministero della Famiglia» (da Facebook, 7 settembre 2019); «Per Di Maio il Pd è ancora il partito di Bibbiano» (da Nexquotidiano.it, 30 Settembre 2019).

    Buonismo. Il nome buonismo e l’aggettivo buonista entrano in circolazione come neologismi di successo già nel 1995.

    In generale, caratterizzano i modi di fare, di dire e l’atteggiamento politico del Pds di Walter Veltroni (che della retorica del buonismo è stato il maestro) e dell’Ulivo di Romano Prodi. Il primo a usare la parola buonismo è il professor Ernesto Galli Della Loggia in un editoriale intitolato «L’Ulivo di Prodi o Garibaldi» (dal Corriere della sera, 11 maggio 1995). Ma a partire dagli anni Duemila si afferma un nuovo significato, che ha ormai completamente soppiantato il precedente: il buonismo è diventato un’ostentazione di falsa bontà, in particolare nei confronti dei migranti, di minoranze etniche, talvolta di chi solo delinque. Per Salvini e per gli esponenti della Destra è l’intera Sinistra politica a essere diventata buonista, come i vari intellettuali, attori e cantanti radical chic contrari alla sua politica sull’immigrazione.

    Esempi: Bartolo Dall’Orto, «Basta buonisti, banchieri, burocrati e barconi. La sfida di Salvini ai mali dell’Ue» (da Il Giornale del 10 marzo 2018); «Scandalo Riace, Salvini: Chissà cosa diranno adesso i buonisti» (da Il Tempo del 2 ottobre 2018).

    Bunga-bunga. L’espressione, ormai, è di uso corrente, ma fino al 2010 un mistero l’avvolgeva, almeno in Italia.

    Da allora, tutti sanno che cos’è (un atto sessuale), dove si svolgeva (nella villa di Arcore) e tra chi (Berlusconi e le sue giovani ospiti femminili, poi dette olgettine). Il termine precede di molto i festini che si sono svolti dal 2010 in poi nelle residenze private dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi.

    Attestato già nel XIX secolo come toponimo del continente australiano o come usanza degli aborigeni australiani, il termine viene ripreso nel 1910 in Gran Bretagna nell’ambito del celebre scherzo la beffa della Dreadnought, quando un gruppo di intellettuali inglesi, tra cui anche la scrittrice Virginia Woolf, ottiene il permesso di visitare la corazzata HMS Dreafnought e lo fa con i visitatori camuffati da principi abissini. Ogni volta che il comandante mostra loro un particolare della nave, gli ospiti mormorano «bunga, bunga!». L’episodio diventa un tormentone popolare con il nome di Dreadnought hoax. Poi, diventa una barzelletta sconcia e così arriva in Italia, dove Berlusconi inizia a raccontarla ai suoi ospiti.

    Ma a conferire vita imperitura al bunga-bunga sarà, appunto, lo scandalo del Rubygate, cioè le intercettazioni telefoniche tra alcune persone coinvolte e Berlusconi, che fa pressioni sulla Questura di Milano per far scarcerare Ruby, presunta nipote di Mubarak.

    Esempi: «La minorenne (Ruby, ndr.) fa entrare negli atti giudiziari un’espressione inedita, il bunga bunga». (Piero Colaprico e Giuseppe D’Avanzo, da Repubblica, 28 ottobre 2010).

    - C -

    Campagna (acquisti). La si fa negli altri partiti o nel campo degli schieramenti politici dei propri avversari.

    Il termine è mutuato dal gergo del calcio, dove la campagna acquisti è la norma di ogni pre-campionato, ma ha avuto successo anche in politica e viene normalmente usato in diverse occasioni che indicano il passaggio di un esponente politico da un partito o schieramento all’altro.

    Esempi: Pierfrancesco Borgia, «Meloni fa campagna acquisti tra i politici locali. Oltre duecento amministratori passano a Fdi» (da Il Giornale del 14 agosto 2018); «Matteo Salvini, la campagna acquisti della Lega fa tremare il nuovo esecutivo» (da Libero del 30 agosto 2019).

    Capitano (Salvini). «O Capitano! Mio Capitano!». No, la famosa poesia di Walt Whitman (resa celebre dal film L’attimo fuggente di Peter Weir) non c’entra nulla.

    Nella politica italiana quando si parla del Capitano viene in mente solo la figura di Matteo Salvini. Alla radice del soprannome affibbiato dai suoi fan al leader della Lega non c’è una caratteristica fisica, familiare o caratteriale, ma un mero calcolo comunicativo. La paternità del soprannome Capitano attribuito a Matteo Salvini è del suo spin doctor, Luca Morisi, che ne cura la comunicazione e ne è l’autentico deus ex machina del successo mediatico. L’utilità di un nomignolo per un politico è di facile intuizione: serve a far sembrare un leader più vicino al suo popolo e come uno di loro. Sui motivi specifici della scelta di Capitano come soprannome da dare a Salvini regna ancora il mistero ma è certo che, come nel caso di Forza Italia, alla base c’è stata una vera ricerca di mercato.

    Esempi: «Matteo Salvini, il nostro Capitano» (pagina pubblica di Facebook dei militanti e simpatizzanti leghisti).

    Capolinea (essere arrivati al). Quella che, dal punto di vista lessicale, è «ultima fermata di una linea di trasporto pubblico, da cui riparte la corsa successiva», in politica, di solito, si dice dei governi vicini al loro esaurirsi.

    Claudio Martelli, nel 1989, lo dice in malo modo riferito al governo De Mita: «Il governo è al capolinea, e vale per tutti, anche per il conducente». Quando ci si arriva c’è sempre poco da fare. Bisogna vedere, però, se quando si riparte si è ancora a bordo o se, invece, per colpa o disattenzioni proprie, si è rimasti alla fermata.

    Esempi: «Salvini annuncia: Governo al capolinea, andiamo in Parlamento a dire che la maggioranza non c’è più» (da Open dell’8 agosto 2019).

    Casta. È diventata, da alcuni anni, ormai un decennio, l’Alfa e l’Omega di tutti i mali della politica italiana.

    Nel dibattito politico italiano indica un gruppo di persone che, ricoprendo cariche pubbliche, difendono e incrementano privilegi personali ingiustificati. Un’accezione conseguente al clamoroso successo, in termini di vendite e di potere evocativo, del libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili (Rizzoli, Milano, uscito il 2 maggio del 2007). Il titolo del libro deriva da una frase di Walter Veltroni citata nel testo: «Quando i partiti si fanno caste di professionisti, la principale campagna anti-partiti viene dai partiti stessi».

    A livello di curiosità, va ricordato che il Vate Gabriele D’Annunzio usò il termine casta in alcuni dei discorsi più incendiari contro la classe dirigente liberale uscita dalla Prima guerra mondiale. «La casta politica che insudicia l’Italia da cinquant’anni – scriveva D’Annunzio ne La vedetta d’Italia del 21 settembre 1920 – non è capace se non di amministrare la sua propria immondizia…Basta! Questa parola noi la grideremo su la piazza di Montecitorio e su la piazza del Quirinale» (da M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, Bompiani, Milano 2018).

    Cattivismo. È, ovviamente, il contrario di buonismo e alcuni dizionari lo hanno accolto in tale accezione.

    Ma dato il significato che il suo contrario, la parola buonismo, ha assunto, si imporrebbe di aggiornare anche quello di cattivismo, sporadicamente e polemicamente adoperato, nella stampa e in Rete, da chi mal sopporta

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