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L'Italia dal 2017 al 2018 / II
L'Italia dal 2017 al 2018 / II
L'Italia dal 2017 al 2018 / II
E-book397 pagine4 ore

L'Italia dal 2017 al 2018 / II

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Storia - saggio (302 pagine) - Breve storia della seconda e terza Repubblica dal 1994 al 2018 e dello stato sociale


La sera stessa del 4 dicembre alla conferma della clamorosa sconfitta al referendum e per la felicità dei suoi avversari

Matteo Renzi si dimise da capo del Governo, ma non da segretario del PD; e questo fu un errore. Silveri Paolo Gentiloni, di nobile discendenza, e navigata esperienza politica nel centro cattolico formò un nuovo governo con l’intento di farlo giungere a fine legislatura nel 2018. Riuscì a bloccare i tentativi anche all’interno del suo governo che volevano annullare d’un colpo la legislazione del precedente governo e con ragionevoli compromessi riuscì ad arrivare alla scadenza naturale della legislatura. Riuscì a fare approvare una nuova legge elettorale in parte maggioritaria ed in parte proporzionale che avrebbe dovuto portare in Parlamento partiti più rappresentativi del corpo elettorale. Si accenna anche alla seconda ondata immigratoria verificatasi dal 200° la 2018 ed alla bancarotta sfiorata delle banche italiane dopo la cura ”Monti”.

Infine per concludere questa collana nel capitolo VII si fa una panoramica socio-economica della seconda e terza repubblica dal 1994 al 2018.


Silvano Zanetti è nato il 21 ottobre 1948 in provincia di Bergamo, da famiglia modesta. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è iscritto al Politecnico di Torino dove si è laureato in Ingegneria Meccanica. Dal 1977 vive a Milano dove ha lavorato presso diverse aziende metalmeccaniche come tecnico commerciale e maturato una buona conoscenza di usi, costumi ed economia dei Paesi europei ed asiatici. Nel 1992 ha frequentato un Master MBA all’Università Bocconi. Alla fine della sua carriera lavorativa si dedica al suo hobby di sempre, lo studio della storia. Collabora con la rivista e-Storia dal 2010. Nel 2018 ha preso la decisione di scrivere i contenuti presenti in questa collana divulgativa di storia contemporanea.

LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2023
ISBN9788825423273
L'Italia dal 2017 al 2018 / II

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    Anteprima del libro

    L'Italia dal 2017 al 2018 / II - Silvano Zanetti

    Introduzione

    Dato uno spazio a N dimensioni conoscendo l’intensità, la direzione ed il verso di tutte le forze attive, la risultante in direzione, verso ed intensità è nota: la Storia.

    Ogni forza rappresentativa di ogni essere vivente, agente in un qualsiasi piano è la risultante di infinite forze attive e potenziali, tutte tese a massimizzare il vantaggio esistenziale.

    Ogni forza rappresentativa di ogni essere vivente, conseguito il massimo vantaggio tende a mantenerlo ed a difenderlo strenuamente.

    Il massimo vantaggio conseguito da una forza rappresentativa di ogni essere vivente è temporale in quanto le forze escluse di ogni essere vivente tenderanno a migliorare il loro vantaggio esistenziale.

    Confesso che era mia unica intenzione di scrivere un semplice e breve saggio storico sugli ultimi anni della politica italiana, dal 2013 al 2018, ovvero la XVIII legislatura. Per esempio, un volumetto dal titolo «Da Matteo Renzi a Matteo Salvini», oppure «Ascesa e declino di Renzi e l’affermazione del M5S» ecc.

    Completato un volumetto di circa 100 pagine, ebbi la malaugurata idea di farlo leggere ad alcuni amici per un loro commento. Fui subissato da critiche costruttive quali: come si fa a parlare in poche pagine di Jobs Act, Globalizzazione, Euro, Riforme costituzionali, se non si spiega quanto avvenne negli anni precedenti? La storia è sempre un dipanarsi di eventi, talvolta nuovissimi e imprevedibili, ma il più delle volte sviluppatisi senza soluzioni definitive negli anni precedenti (es. il debito pubblico, le riforme mai riformate) o che erano «in fieri» e che sono esplosi anni dopo (es. il basso valore aggiunto del settore pubblico e privato o i diritti civili). La soluzione di alcuni problemi ne crea sempre di nuovi per cui, quelli che erano considerati rivoluzionari e che avevano contribuito a cambiare la società nell’arco di due generazioni, diventano conservatori se non reazionari; arroccati nella difesa, con le unghie e coi denti, di conquiste e privilegi, mitizzati e sacralizzati in tabù intoccabili (la riforma del lavoro, il rapporto uomo-donna).

    Convinto da questi suggerimenti amichevoli mi sono accinto a questa immane, ma anche piacevole fatica, che mi ha impegnato due anni di vita.

    Per evitare che i lettori abbiano un giudizio sfavorevole su questo mio lavoro, concentrato soltanto su alcuni aspetti di quanto accaduto in questo lasso di tempo, vi aiuto a districarvi in questo mio «libro-puzzle».

    Il XX secolo fu contrassegnato in Europa da due sanguinose guerre mondiali, che hanno determinato la fine dell’Eurocentrismo, e della contrapposizione tra Capitalismo e Socialismo, con tutte le loro varianti: dal Nazifascismo al Liberalismo democratico, dalla Socialdemocrazia al Comunismo. Verso il 1990 si ebbe il crollo del regime comunista-utopista nell’URSS. Contemporaneamente prese forma ed ebbe successo l’originale «via cinese al Socialismo» che nega sì il Liberalismo politico (solo il Partito Comunista è legale) ma incentiva l’economia di libero mercato favorendo l’affermarsi di un Capitalismo senza Liberalismo.

    Le due culture politiche, Liberalismo e Socialismo, a cui si erano ispirate le élites politiche e culturali al comando in Europa, verso la fine del secolo, avevano esaurito il loro compito e le masse popolari, drogate dai media, erano pronte a dare il consenso ad altre élites più vicine ai loro bisogni primari, rifiutando le precedenti mediazioni ideologico-culturali. Le mediazioni religiose erano già state da lungo tempo rifiutate.

    L’Italia, essendo geopoliticamente e culturalmente parte integrante del mondo occidentale, da quegli sconvolgimenti e crisi di valori ne uscì a pezzi.

    Con il crollo del Comunismo in URSS crollò anche il duopolio democristiano–comunista che aveva retto l’Italia per 40 anni, e nel contempo si ebbe l’ascesa al potere politico di una élite avida e populista senza ben definiti ancoraggi culturali. Questo trapasso di potere reale segnò il fallimento della classe borghese liberale e degli intellettual-marxisti senza profonde radici nelle masse popolari. Tutti si dimostrarono incapaci di guidare la società italiana a fare il salto di qualità, passando da una società di consumi ad una società ad alto valore aggiunto, in cui il fabbisogno di maggiore democrazia e partecipazione è anche più elevato.

    E mentre in questi ultimi 25 anni alcuni paesi continuavano ad accrescere il loro benessere, a cui partecipavano sempre più vasti strati della popolazione, l’Italia andava scivolando verso gli ultimi posti in Europa sia per i livelli di reddito sia per i livelli di diseguaglianza.

    L’avere aderito a pieno titolo, fin dall’inizio alla costituzione dell’Europa negli anni ’50, era stato di grande vantaggio per l’Italia, che aveva ricavato notevoli benefici per la propria industria manifatturiera, e di conseguenza aveva incrementato l’occupazione ed il benessere generale. Tuttavia dal 2.000, con la creazione della moneta unica, l’euromarco, l’Italia perdeva anche la sovranità della moneta. Le sarebbero rimasti solo gli obblighi di onorare i propri debiti, avendo ceduto a terzi sia il proprio mercato, sia la propria sovranità, delegata a Bruxelles con una infinita serie di accordi commerciali e civili.

    Il fallimento post 2.000 era insito nelle motivazioni della classe politica italiana che riteneva di poter rifilare all’Europa parte del suo enorme debito pubblico, essendo incapace ad attuare quelle riforme atte a ridurre la rendita parassitaria.

    Il gioco del cerino acceso da passare a qualcun’altro funzionò. Nessuno era disposto a farti entrare nel condominio chiamato Europa se poi non eri disposto ad accollarti le spese condominiali.

    La Gran Bretagna, verificato che gli svantaggi della sua partecipazione ad un’Europa a trazione tedesca erano superiori ai vantaggi, sarebbe uscita da questa trappola, con l’appoggio del suo popolo.

    Ed ecco in breve i fili conduttori, che mi hanno ispirato nello scrivere questo saggio e che aiuteranno i lettori a capire quanto accaduto negli anni dal 1994 al 2018.

    In tutti i volumi, il primo, il secondo e talvolta il terzo capitolo, descrivono sia il panorama politico, sia i dibattiti tra i partiti, sia i Governi che si sono succeduti con le loro promesse, programmi e provvedimenti legislativi realizzati in quel preciso momento storico.

    I Partiti politici ed i loro leaders sono tutti coinvolti in una rissosità continua e, per dirlo alla Guicciardini, sembrano tutti super interessati a conseguire i propri interessi «particolari» piuttosto che pensare al bene comune. La lotta tra il cartello delle Sinistre e il cartello delle Destre, dominato da Silvio Berlusconi, durerà venti anni e finirà per portare il Paese stremato fuori da tutti i giochi politici europei.

    Nei restanti capitoli di ogni volume si introducono argomenti a tema che si distribuiscono fra i vari volumi. I due temi principali trattati sono: le rivoluzioni industriali, fino a quella dell’informatica, che si sviluppano di pari passo con il Capitalismo-liberale e, come contrappunto, la storia dello Stato sociale, dalla riforma delle pensioni di Bismarck, alla Third Way di Tony Blair, Gerhard Schröder,ed al Jobs Act di Matteo Renzi.

    Accanto a questi due mainstreams si introducono anche temi completamente nuovi: l’immigrazione, gli attentati terroristici islamici, i mutamenti nella Chiesa Cattolica, il cambiamento dei costumi degli italiani, la Repubblica Popolare Cinese, la globalizzazione, il crollo del sistema bancario mondiale e poi la bancarotta sfiorata delle banche italiane.

    Per finire, un ringraziamento lo devo al nostalgico gruppo degli «amici Einaudini» capitanato da Francesco Favero (collegio universitario Principe Amedeo di Torino) sopravvissuti al ‘68 ed in particolare ad Alessandro Accorinti, che si è sobbarcato l’immane compito di raddrizzare le mie bozze creative.

    Non vi è mai stata l’ambizione di redigere qui una storia onnicomprensiva del passato ventennio, ma solo una parziale rivisitazione dei momenti più significativi di cui sono stato testimone diretto o indiretto.

    Buona lettura…

    Silvano Zanetti

    Introduzione al decimo volume

    La sconfitta del Governo Renzi al referendum sulla riforma costituzionale aveva visto uno schieramento trasversale non conforme al conflitto borghesia-proletariato tipico del XX secolo. Il fronte del NO, che si caratterizzava come il TCR (Tutti Contro Renzi) aveva arruolato sia l’estrema Sinistra (furibonda per l’approvazione del jobs act) sia la Destra politica (quella contro l’immigrazione, contro i diritti civili, e federalista), sia il partito populista del Movimento 5 Stelle, in specie al Sud, che aveva pagato il prezzo più alto della crisi economica. I giovani che stavano pagando la crisi più di tutti chiaramente potevano votare solo No.

    Il fronte del Sì, nel Centro-Nord pro Renzi, era supportato da un elettorato di Centrosinistra che comprendeva parte della classe operaia, pensionati riformisti e, per la prima volta, buona parte della piccola e media borghesia progressista (il cosiddetto centro politico) composta da tecnici e professionisti che operavano nel libero mercato. Fondamentale notare che la classe imprenditoriale, da venti anni fedele a Berlusconi, aveva avuto un atteggiamento neutrale se non benevolo verso il Governo Renzi.

    Rilevanti erano le novità socio-economiche intervenute negli ultimi 25 anni. Fino al 2000 si era mantenuto uno sviluppo economico affannoso costellato da continue svalutazioni che permettevano di ricuperare competitività alle imprese italiane. La svalutazione si rendeva necessaria per l’incapacità della classe politica di riformare il Paese eliminando le rendite parassitarie e di convogliare il risparmio e le energie verso le imprese high tech. Lo sviluppo( meglio dire i consumi) cominciò ad essere finanziato a debito in specie a vantaggio di lavoratori e pensionati a reddito fisso (circa 17 milioni di pensionati e 8 milioni di dipendenti statali o assimilati) contro solo 15 milioni di lavoratori operanti sul libero mercato.

    Con l’adesione affrettata all’euro nel 2000 l’Italia rinunciò al controllo della moneta che finì nelle mani della Banca Centrale Europea asservita alla Germania ed alla Francia, ed iniziò il declino economico che si accentuò nel 2008 con la crisi finanziaria mondiale e, nel 2011, con la politica del fiscal compact di Mario Monti.

    La scomparsa della fluttuazione del cambio (con l'idea di rimuovere il rischio valuta) permetteva di fornire ogni bene e ogni servizio laddove serviva a prezzi costanti. I diversi paesi potevano quindi sfruttare i propri vantaggi competitivi comparativi, e quindi si determinava una crescente eterogeneità delle strutture produttive (alcuni paesi si specializzarono nel settore high-tech, altri nel settore mid-range, altri nel turismo…), che portava però ad una divergenza crescente e progressiva del tenore di vita (reddito pro capite) tra i cittadini dei diversi paesi. Questo cambiamento, ben visibile a partire dal 2008, in precedenza solo nascosto dal crescente indebitamento verso l'estero (vedi in particolare il caso dei paesi euro-periferici), fu distruttivo. Quale Paese euro avrebbe accettato un continuo declino nel suo tenore di vita rispetto agli altri, e fino a quando? Purtroppo, non esisteva nessun meccanismo capace di correggere automaticamente la crescente eterogeneità, dal momento che la zona euro era stata costruita senza adottare principi federalistici, senza cioè il trasferimento organizzato di risorse in eccedenza dai paesi più ricchi ai paesi più poveri.

    Non solo lo sviluppo economico italiano non riuscì a tenere il passo con l’Europa, ma ancora peggio perse in qualità, ovvero nell’alta tecnologia (in Italia non nasceva nessuna azienda legata ad internet o all’informatica, solo aziende che commercializzavano prodotti esteri) così l’Italia, al pari della Spagna, divenne subfornitrice dell’industria Germanica e Francese.

    La doppia sfida di Renzi, consisteva nell’aggiornare la legislazione sociale e civile ai nuovi Moeurs et costumes e nel contempo nel riavviare un ciclo economico virtuoso boom anni sessanta incentivando l’economia di mercato che poi avrebbe finanziato lo Stato sociale. Questo programma turbava i sonni di gran parte della società italiana, da sempre nemica delle leggi del mercato in economia, del merito nella promozione sociale nell’amministrazione pubblica ed amica della rendita fondiaria, finanziaria, statale.

    Verso la fine del secolo andò riaffermandosi negli ambienti politici e sindacali la dottrina economica di Keynes in versione italica: i consumi trascinano la crescita economica e non il settore dei servizi e la manifattura, come fino ad allora si era creduto. Evidentemente la cultura liberal-marxista che stabiliva il primato del produttore-consumatore si era rovesciata. Veniva sconfessata anche la teoria dei tecnocrati della Banca d’Italia che per porre fine alla instabilità monetaria ed irresponsabilità economica dei Governi erano stati fautori verso la fine del secolo di una adesione senza esitazioni al trattato di Maastricht, ed alla cessione della sovranità economica all’UE. Il debito pubblico continuò a crescere ad opera di tutta una classe politica e sindacale, espressione della piccola borghesia statale, che si affannava a cercare e conservare il consenso a debito, non incentivando i creatori di valore, troppo pochi per incidere elettoralmente.

    Il risultato fu un debito pubblico al 120-130% del PIL.

    La sconfitta di Renzi fu anche la sconfitta di una parte della società progressista ed inevitabilmente il successivo Governo Gentiloni dovette con modi felpati attuare la restaurazione. Su questo occorre giudicare il suo Governo, per la sua capacità di resistere alla fronda interna della Sinistra ed alla marea dilagante populista. La percezione dell’opinione pubblica che Gentiloni fosse un frenatore per necessità, alimentò la percezione che il paese fosse guidato da un nocchiero costretto non a seguire una rotta (riformista), ma ad assecondare le folate di vento ed il gioco elle correnti (di tutte le opposizioni, non solo interne). E fu la stessa maggioranza parlamentare, che prima aveva sostenuto Renzi, ad appoggiare poi la restaurazione portando il partito ad una clamorosa sconfitta.

    Nei primi 4 capitoli ci si sofferma su questa piccola restaurazione politica in cui si vide il PD impegnato in una ritirata politica ed ideologica per rimanere al governo. La produzione legislativa fu notevole e vale la pena ricordare : il decreto salva banche, la nuova legge elettorale, la legge contro la povertà, la restaurazione della Buona Scuola, la riforma del terzo settore.

    Questo aveva reso l’opposizione populista aggressiva e decisiva nel rovesciare un simbolo dell’ancien regime legato alle ideologie liberal-marxiste. Il fatto che un rancoroso Renzi fosse rimasto Segretario del PD, nonostante i tentativi di modificare la sua immagine e ben poco della sua politica, concorse al disastro elettorale. Interferenze estere o condizionamenti economici erano determinati dall’avere aderito a tanti trattati che vincolavano la libertà di movimento di ogni Governo. Il futuro dell’Italia si decideva a Bruxelles. Tutto accadde per volontà solo di forze indigene.

    Con le elezioni del 4 marzo 2018 la maggioranza degli italiani che per 25 anni si era divisa in Centrodestra, egemonizzato da Silvio Berlusconi e Centrosinistra egemonizzato dalla fusione dell’ex partito comunista con la sinistra cattolica, cambiò, riversando la sua fiducia sul Movimento 5 Stelle e sulla Lega Nord, ambedue populisti ed anti ideologici. Non poteva essere diversamente dopo un ventennio di declino che aveva di fatto riportato lo standard medio di vita indietro di 20 anni, con poche speranze per il futuro. La maggioranza degli elettori era pronta a dare la fiducia a nuovi raggruppamenti sfiduciando la precedente classe politica. La speranza per un cambiamento positivo era per forza di cose incanalata verso i partiti alternativi a quelli tradizionali.

    Nel capitolo V si accenna ancora alla seconda ondata di immigrazione proveniente, stavolta, principalmente dall’Africa, e alla tradizionale politica di sinistra ancora indecisa tra integrazione, assimilazione, e multiculturalismo.

    Il VI capitolo ha come tema la crisi delle banche italiane che, come prestatori di denaro, andarono in crisi proprio perché la parte manifatturiera (in specie l’edilizia) era andata in crisi dopo la cura di cavallo di Mario Monti, che aveva fatto crollare i consumi interni. Il fallimento di alcune banche trascinò nel fallimento anche migliaia di piccoli azionisti o risparmiatori e questo ebbe un grande impatto emotivo sull’opinione pubblica alimentato dai media. Gli attacchi personali all’ex premier Renzi sfociarono nel nulla, ma questo lasciò un segno nell’opinione pubblica.

    Nell’ultimo capitolo, il VII, si compie una zoommata sulla seconda e terza repubblica dal 1994 al 2018. Il bilancio è sconfortante e la semplice lettura dei grafici allegati illustra un declino che pare inarrestabile.

    Lo Stato sociale del ventennio passato evidenziò un’eccessiva protezione degli anziani a scapito delle giovani generazioni. Per finanziare le crescenti esigenze dello Stato sociale si ricorse sempre più alla fiscalità generale non per magnanimità delle forze politiche e sindacali, ma semplicemente per la constatazione che ogni aggravio sulle imprese ne avrebbe compromesso l’esistenza o forzato l’emigrazione verso lidi più ospitali.

    I sindacati, che avevano fiutato la potenzialità di voto di 17 milioni di pensionati, fecero il possibile per catturarne il loro consenso. Questo significava impiegare le poche risorse disponibili a scopi assistenziali, trascurando una politica lungimirante per lo sviluppo dell’industria e dei servizi per, ovvero la creazione di valore e ricchezza i soli atti a finaniare lo stato sociale e per assicurare un futuro più dignitoso ai giovani.

    Capitolo I - Il panorama politico e il dibattito tra i partiti

    La maggioranza dei parlamentari eletti nel PD erano stati scelti dall’ex comunista Bersani ed avevano dovuto subire causa force majeure la leadership di Matteo Renzi non avendo proposte alternative credibili. Dopo la sconfitta, Renzi era chiaramente un’anatra zoppa su cui era facile sparare e cercare una rivincita. Matteo fece lo sbaglio di non dimettersi da Segretario, anzi volle inseguire una improbabile rivincita. Organizzò convegni e sfoggiò la solita dialettica per un messaggio positivo e riformista. Misconobbe il suo egocentrismo e optò per una gestione collegiale. Questo non servì ad impedire la scissione a sinistra di una trentina di parlamentari del PD, che nel patteggiamento con il segretario non avevano ottenuto un numero di seggi proporzionale alle loro aspettative, per le prossime legislative.

    Il M5S sentiva il profumo del potere con l’avvicinarsi delle elezioni, e accumunati da questo miraggio tutte le componenti del Movimento: trotzkista, populista, governativa, qualunquista si compattarono. In questo frangente emerse il giovane Di Maio, esponente dell’ala governativa-populista.

    1.1 – Il Partito Democratico: la resa dei conti

    La diarchia Renzi-Gentiloni con l’uno ancora Segretario di partito, da sempre pronto ad una strategia di attacco e l’altro, il nuovo Primo Ministro, da sempre incline alla mediazione, era destinata a portare il PD al disastro.

    Tre giorni dopo la vittoria del No al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, il Segretario del PD Matteo Renzi si dimise da Presidente del Consiglio, sostituito da Paolo Gentiloni un mediatore di professione, ma non da Segretario del Partito Democratico e per molti fu questo il suo più grande errore. Due personalità così all’antitesi e conflittuali sottotraccia avrebbero portato problemi nel PD.

    Al contrario di Tony Blair e di Gordon Brown, i quali erano sì all’antitesi, ma l’accordo e la mediazione sempre ricercata e rispettata da entrambi aveva invece portato il Partito Laburista a governare per 3 legislature.

    Renzi, conscio di godere dell’assenso del 40% degli elettori, riteneva di potere ancora sbaragliare con una tattica diversa (divide et impera) l’accozzaglia dei partiti incompatibili fra di loro per tendenze politiche, che si erano coalizzati solo per sconfiggerlo.

    Ma Renzi ormai era divenuto un’anatra zoppa ed all’interno del suo partito fu subito organizzata una fronda per defenestrarlo. Importanti membri della minoranza del partito, come il Presidente della Toscana Enrico Rossi e l’ex capogruppo alla Camera dei Deputati Roberto Speranza chiesero le dimissioni del Segretario Renzi e contemporaneamente annunciarono la propria intenzione di candidarsi alla Segreteria del partito. Dopo poche settimane anche il Presidente della Puglia Michele Emiliano annunciò la stessa intenzione. Fatto ancora più grave, il 28 gennaio del 2017 Massimo D'Alema, ex Presidente del Consiglio e tra i principali oppositori di Renzi all'interno del PD, lanciò un nuovo movimento politico e chiese un congresso di partito minacciando una scissione nel caso in cui Renzi non avesse accettato la richiesta (come risultò da un’intervista rilasciata dopo la sconfitta di Renzi al referendum costituzionale).

    Nel febbraio 2017 Renzi annunciò l'intenzione di dimettersi da Segretario, ma convocò il congresso e le elezioni primarie in primavera, esprimendo l'intenzione di ricandidarsi. Gli oppositori di Renzi andarono in confusione. Da un lato chiedevano le dimissioni del segretario e dall’altro pretendevano che il congresso che avrebbe dovuto sancire il passaggio di consegne venisse rinviato a fine anno per permettere alle opposizioni di organizzarsi. Non si era mai visto, nella storia parlamentare, che una minoranza chiedesse alla maggioranza di rimanere in sella per meglio scalzarla in seguito.

    L’8 febbraio 41 parlamentari del PD sottoscrissero una lettera per dare sostegno a Gentiloni e per arrivare alla conclusione della legislatura, mentre il 9 febbraio 17 parlamentari, sempre del PD, sottoscrissero una lettera per andare a votare «appena possibile».

    Il 13 febbraio nella Direzione PD passò a larga maggioranza la mozione renziana per tenere il congresso entro breve tempo. «La resa dei conti interna» disse Renzi «è durata fin troppo: va messo un punto».

    Il 16 febbraio Renzi fece appello alla minoranza interna del Pd, che minacciava la scissione: «partecipi al congresso con regole condivise. Ma se mi chiedono di non candidarmi, allora sappiano che per me questa è una condizione inaccettabile».

    Pier Luigi Bersani dichiarò che la scissione c’era già stata: «abbiamo perso per strada un sacco di gente e io mi chiedo come possiamo recuperarla».

    Vi furono tentativi di mediazione da parte di Dario Franceschini, ma la minoranza del PD sapeva di non avere un programma alternativo e credibile e nessuna speranza per poter conquistare la maggioranza degli elettori che ancora credevano in Renzi, il demiurgo che aveva portato il partito al 40%.

    Il 17 febbraio Renzi offrì alla minoranza lo slittamento di un mese delle primarie. Per i bersaniani, che ritenevano che Renzi volesse un «congresso cotto e mangiato», la proposta non era sufficiente e continuarono a invocare un congresso «vero» che segnasse «una svolta radicale». Fece infatti discutere la diffusione di un fuori-onda in cui Delrio diceva che Renzi non avrebbe fatto nulla per evitare la scissione.

    Il 18 febbraio la minoranza del PD, guidata da Bersani, dal Presidente della Puglia Michele Emiliano e dal Presidente della Toscana Enrico Rossi si riunì al Teatro Vittoria di Roma e chiese lo spostamento del congresso in autunno e il pieno sostegno al Governo Gentiloni fino alla scadenza naturale del 2018. Il 19 febbraio Renzi chiuse alla minoranza: «peggio della parola scissione c’è solo la parola ricatto». Emiliano tentò la mediazione provando a fare «quel passo indietro che consenta di uscire tutti con l’orgoglio di appartenere a questo partito». Durante l'assemblea nazionale del 19 febbraio, Renzi si dimise ufficialmente da Segretario del partito, facendo partire l'iter per il congresso che prevedeva dapprima il voto dei militanti dei circoli per i candidati che si erano presentati e poi le primarie aperte a tutti i simpatizzanti di partito fissate per il 30 Aprile. Il 21 febbraio Emiliano annunciò che sarebbe rimasto nel PD.

    1.1.1 – La convention del Lingotto

    Dal 10 al 12 Marzo 2017, al Lingotto¹ di Torino, Renzi organizzò una convention per ripensare e proporre un nuovo programma alla luce delle esperienze positive e negative fatte in due anni. Catalizzò ancora l’interesse della stragrande maggioranza della nomenclatura del PD e dei suoi alleati di centro. Furono tre giorni di dibattito intenso più o meno addomesticati e si percepì che il leader aveva capito la lezione. Si allargava sì il gruppo dirigente anche ai non fedelissimi, ma si confermava il fascino di una Sinistra solidale ed orientata allo sviluppo.

    Hanno provato ad approfittare di un momento di mia debolezza per distruggere il PD, così esordiva Matteo Renzi, per azzerare tre mesi di polemiche e preoccupazione. Lui il leader azzoppato dalla sconfitta del referendum ripartiva all’attacco: «La partita inizia adesso e non rinnegava il noi" degli ultimi giorni.

    Ma nel chiudere la tre giorni convocata al Lingotto per raccogliere le idee che sarebbero divenute mozione congressuale, riaffermava la sua leadership: Senza io non c'è noi, scandiva. Un partito ha bisogno di più leader, aggiungeva chiamando alle armi i quarantenni.

    Al congresso si candidò con Maurizio Martina, che copriva il campo più a sinistra, ed era sostenuto da Dario Franceschini, che guardava all'area moderata. Lo sostenne e salì con lui sul palco Paolo Gentiloni: Al Lingotto con Renzi. Più forza al PD per il futuro dell'Italia», scriveva Gentiloni, ma poi in serata da Berlino a chi gli chiedeva di alleanze rispose che lui si occupava di governo.

    Matteo Renzi è e restava il leader, affermavano i Ministri: Chi ha una leadership giovane e riformista la discute, se del caso la corregge ma non la ammazza come ha sempre fatto la sinistra», dichiarava Marco Minniti infiammando la platea. E Graziano Delrio lo paragonava a Diego Armando Maradona: Senza di lui il Napoli non avrebbe vinto lo scudetto».

    Renzi rivolgendosi a D’Alema dichiarava: E non è credibile chi oggi fa l'Amarcord dell'Ulivo dopo averlo segato e aver fatto cadere il Governo Prodi»; se Prodi fosse stato segretario oltre che premier questo non sarebbe accaduto: Non possiamo replicare modelli del passato. I principi sono lo stop alle correnti nel partito. E poi legalità: quella dimenticata da Luigi De Magistris che sta

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