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Il Racconto di Arthur Gordon Pym
Il Racconto di Arthur Gordon Pym
Il Racconto di Arthur Gordon Pym
E-book258 pagine4 ore

Il Racconto di Arthur Gordon Pym

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Volume numero 6 della collana "Classici" a cura di Pierluigi Pietricola.

Unico romanzo di Poe, scritto nel 1837 sull'onda del clamore mediatico suscitato dalle grandi spedizioni antartiche, Il racconto di Arthur Gordon Pym unisce le suggestioni classiche dell'avventura della grande tradizione letteraria marinaresca ai deliri inquieti di una fantasia votata al decadentismo.

La trama, presentata come una serie di fatti realmente accaduti, ruota attorno alla vicenda di Arthur Gordon Pym, un giovane che si imbarca clandestinamente a bordo della baleniera Grampus, ritrovandosi a vivere una serie di disavventure in mare. Scampato a un naufragio, viene salvato dall’equipaggio della nave "Jane Guy", insieme alla quale farà rotta verso il Polo Sud alla ricerca di terre inesplorate. Terre che, ben presto, riveleranno ai componenti dell’equipaggio tutto il loro fascino maledetto e ammantato di mistero.

In una prosa che pagina dopo pagina si fa più delirante, i motivi classici del genere - ammutinamenti, tempeste, naufragi, isole misteriose - verranno contaminati da una vena di orrore che renderà il viaggio del protagonista una terribile discesa agli inferi e la lotta per la vita una vera iniziazione alla morte.

Una storia allucinata ed allucinante che altro non rappresenta se non il viaggio dell’autore nell’antro tenebroso della sua anima.

Un’opera capace di suggestionare grandissimi scrittori di mare come Stevenson, Melville, Conrad, considerata uno dei momenti più alti della letteratura fantastica moderna.

LinguaItaliano
Data di uscita3 mar 2022
ISBN9788869347757
Il Racconto di Arthur Gordon Pym
Autore

Edgar Allan Poe

Edgar Allan Poe (1809 Boston - 1849 Baltimora), dopo aver frequentato per breve tempo l'università della Virginia, si arruola nell’esercito, dove raggiunge il grado di sergente maggiore, per poi venire espulso. Trovandosi in grave disagiatezza economica, inizia a collaborare in qualità di critico letterario per varie riviste e quotidiani, iniziando anche la sua attività di scrittore: Il Manoscritto trovato in una bottiglia (1833), La caduta della casa degli Usher (1840), I delitti della Rue Morgue (1841). Seguono poi alcuni racconti del terrore, che hanno posto le basi per la letteratura horror novecentesca, come La maschera della morte rossa e Il pozzo e il pendolo, entrambi del 1842, e Il gatto nero, del 1843. Gli ultimi anni della sua vita sono tormentati emotivamente e psicologicamente. Un crollo fisico e nervoso che peggiorerà in seguito della precoce morte della moglie Virginia, malata di tubercolosi, e che porterà lo scrittore all’alcolismo. Un declino che lo condurrà alla morte, nel 1849.

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    Il Racconto di Arthur Gordon Pym - Edgar Allan Poe

    Edgar Allan Poe

    Il racconto di Arthur Gordon Pym

    © Bibliotheka Edizioni

    Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma

    tel: (+39) 06. 4543 2424

    info@bibliotheka.it

    www.bibliotheka.it

    e-Isbn 9788869347757

    È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale,

    del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione

    scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Direttore della collana Classici Bibliotheka: Pierluigi Pietricola

    Diesegno di copertina: Riccardo Brozzolo

    Edgar Allan Poe

    Edgar Allan Poe (1809 Boston - 1849 Baltimora).

    Dopo aver frequentato per breve tempo l’università della Virginia, si arruola nell’esercito, dove raggiunge il grado di sergente maggiore, per poi venire espulso.

    Trovandosi in grave disagiatezza economica, inizia a collaborare in qualità di critico letterario per varie riviste e quotidiani, iniziando anche la sua attività di scrittore: Il Manoscritto trovato in una bottiglia (1833), La caduta della casa degli Usher (1840), I delitti della Rue Morgue (1841).

    Seguono poi alcuni racconti del terrore, che hanno posto le basi per la letteratura horror novecentesca, come La maschera della morte rossa e Il pozzo e il pendolo, entrambi del 1842, e Il gatto nero, del 1843.

    Gli ultimi anni della sua vita sono tormentati emotivamente e psicologicamente. Un crollo fisico e nervoso che peggiorerà in seguito della precoce morte della moglie Virginia, malata di tubercolosi, e che porterà lo scrittore all’alcolismo. Un declino che lo condurrà alla morte, nel 1849.

    Il romanzo che ha dato vita all’horror psicologico. Un tour de force narrativo capace di influenzare tutta la futura narrativa del terrore e di far emergere, pagina dopo pagina, le più recondite paure del lettore.

    Introduzione

    A.G. Pym.

    Al mio ritorno negli Stati Uniti, qualche mese fa, dopo una straordinaria serie di avventure nei mari del Sud e altrove, di cui si dà conto nelle pagine seguenti, feci casualmente la conoscenza di alcuni gentiluomini di Richmond, Virginia, i quali mostrarono un profondo interesse per tutte le questioni inerenti le regioni che avevo visitato, e mi sollecitarono ripetutamente, come per un dovere, a rendere pubblico ciò che mi era occorso. Avevo molte ragioni, tuttavia, per rifiutare di farlo, alcune delle quali di natura del tutto privata, non riguardando altri che me, altre meno. Una delle considerazioni che mi scoraggiava dal compiere l’impresa era che, non avendo tenuto un diario per la maggior parte del tempo in cui ero stato assente, temevo di non essere in grado di scrivere, basandomi esclusivamente sulla memoria, un resoconto così somigliante e organico da possedere l’aspetto di quella verità che pure avrebbe dovuto rappresentare, fatta salva la naturale ed inevitabile esagerazione a cui tutti noi siamo inclini quando descriviamo eventi che hanno avuto su di noi una tale potente influenza da eccitare le facoltà immaginative.

    Un altro motivo che mi tratteneva era che gli avvenimenti da ben narrare fossero di natura così incredibilmente prodigiosa che, non supportati da prove concrete come necessariamente dovevano essere, avrebbero rischiato senz’altro di invalidare le mie affermazioni, (proprio perché basate per l’appunto esclusivamente sulla testimonianza di un solo individuo, per di più un mezzosangue indiano). Così, non potevo sperare che nella fede della mia famiglia e in quella dei miei amici che avevano avuto modo, nel corso della loro vita, di riporre fiducia nella mia buonafede – con ogni probabilità, il grande pubblico avrebbe considerato ciò che avrei detto solo una finzione sfacciata e ingegnosa.

    La sfiducia nelle mie capacità di scrittore fu, tuttavia, una delle principali cause che mi impedirono di seguire il suggerimento dei miei consiglieri. Tra quei signori della Virginia che esprimevano il massimo interesse per la mia storia, più precisamente per quella parte che si riferiva all’Oceano Antartico, vi era il signor Poe, fino a poco tempo addietro editore del Southern Literary Messenger, rivista mensile pubblicata dal signor Thomas W. White nella città di Richmond, il quale mi consigliò caldamente, tra le altre cose, di preparare immediatamente un resoconto completo di ciò che avevo visto e patito, e di confidare nella esperienza e nel buon senso del pubblico, insistendo, a ragione, che per quanto approssimativa fosse risultata la stesura del libro, la sua stessa rozzezza, se ve ne fosse stata, avrebbe accresciuto la possibilità di essere accolto come vero. Nonostante questa analisi, non mi decidevo a seguire i suoi consigli.

    In seguito, propose (comprendendo che non mi sarei mai mosso in merito) che lo autorizzassi a redigere con parole sue un racconto della prima parte delle mie avventure, basandosi sui dati da me stesso forniti, per pubblicarlo sul Southern Messenger sotto le vesti di finzione. A questo, non avendo nulla da obiettare, diedi il mio assenso, stabilendo solo che il mio vero nome non dovesse comparire. Di conseguenza, sul Messenger di gennaio e febbraio (1837) apparvero due puntate di questa finta narrativa e, affinché potesse essere considerata una finzione a tutti gli effetti, il nome del signor Poe fu apposto in calce agli articoli nell’indice della rivista.

    Il modo in cui venne accolto questo stratagemma mi indusse alla fine ad intraprendere una stesura completa e a pubblicare le avventure in questione; perché scoprii che, nonostante l’aria di favola che era stata così ingegnosamente costruita attorno a quella parte della storia che apparve sul Messenger (pur senza che fosse stato alterato o snaturato un solo dettaglio), il pubblico ancora non era punto disposto a prenderlo come una favola, e difatti diverse tra le lettere che furono inviate all’indirizzo del signor P. esprimevano chiaramente la convinzione contraria. Conclusi quindi che i fatti della mia narrazione si sarebbero dimostrati di natura tale da portare con sé prove sufficienti della loro autenticità, e che di conseguenza avevo poco da temere l’incredulità popolare.

    Svelato questo antefatto, si capirà immediatamente quanto, di ciò che segue, sia di mia mano; e si comprenderà anche che nessun evento rappresentato nelle prime pagine, scritte dal signor Poe, sia stato manipolato. Anche per quei lettori che non hanno letto il Messenger, non sarà necessario indicare dove finisce la sua parte e dove inizia la mia; la differenza di stile balzerà subito all’occhio.

    New York, luglio 1838.

    Capitolo I

    Mi chiamo Arthur Gordon Pwym. Mio padre era un rispettabile commerciante di articoli di mare di Nantucket, dove sono nato. Il mio nonno materno era un avvocato di buona pratica. Era fortunato in ogni cosa e aveva speculato con successo con i titoli azionari della Edgarton New Bank, come era chiamata in precedenza. Con questi e altri mezzi era riuscito a raggranellare una somma di denaro accettabile. Era più attaccato a me stesso, credo, che a qualsiasi altra persona al mondo, e così mi aspettavo di ereditarne alla morte la maggior parte delle fortune. Mi mandò, a venticinque anni, alla scuola del vecchio signor Ricketts, un gentiluomo con una sola mano e i modi eccentrici: è ben noto a quasi tutte le persone che hanno visitato New Bedford. Rimasi nella sua scuola fino all’età di sedici anni, quando la lasciai per l’accademia del signor E. Ronald, sulla collina. Lì divenni intimo con il figlio del sig. Barnard, un capitano di mare che generalmente navigava alle dipendenze di Lloyd e Vredenburgh. Anche il signor Barnard è piuttosto conosciuto a New Bedford e ha molti parenti, ne sono certo, a Edgarton. Suo figlio si chiamava Augustus e aveva quasi due anni più di me. Aveva partecipato con suo padre a una spedizione sulla baleniera John Donaldson e mi parlava sempre delle sue avventure nell’Oceano Pacifico meridionale. Andavo spesso a casa con lui e rimanevo tutto il giorno, a volte tutta la notte. Occupavamo lo stesso letto, e lui faceva in modo di tenermi sveglio fino quasi all’alba, raccontandomi storie sugli abitanti dell’isola di Tinian e di altri luoghi che aveva visitato durante i suoi viaggi. Non potevo fare a meno di interessarmi a quello che diceva, così a poco a poco sentii una gran voglia di andare per mare.

    Possedevo una barca a vela chiamata Ariel, che valeva circa settantacinque dollari. Aveva un mezzo ponte o una cuddy, una cabina di poppa, ed era armata in stile sloop – non ricordo il suo tonnellaggio, ma poteva contenere dieci persone senza troppa folla. In questa barca avevamo l’abitudine di imbatterci nelle avventure più folli del mondo e, ora che ci ripenso, mi sembrano mille meraviglie che io sia ancora vivo oggi.

    Racconterò una di queste avventure a mo’ di introduzione a una storia più lunga e assai più drammatica.

    Una sera ci fu una festa dal signor Barnard, e sia Augustus che io ci ritrovammo verso la fine parecchio sbronzi. Al solito, in questi casi, preferivo infilarmi nel suo letto piuttosto che tornarmene a casa. Lui si addormentò, come pensavo, senza alcuna difficoltà (era più o meno l’una quando la festa si sciolse), e senza dire una parola sul suo argomento preferito. Poteva essere passata una mezz’ora da quando ci eravamo messi a letto, e stavo per addormentarmi anch’io, quando d’improvviso si tirò su e giurò con un terribile bestemmia che non si sarebbe messo a dormire per nessun Arthur Pym al mondo, proprio quando da sud-ovest soffiava una brezza così gloriosa. Non fui mai così sbalordito in vita mia, non sapendo cosa intendesse, e pensando che i vini e i liquori che aveva bevuto lo avessero fatto uscire completamente di senno. Continuò a parlare in modo molto freddo, tuttavia, dicendo che sapeva che lo supponessi ubriaco, ma che non era mai stato più sobrio in vita sua. Era solo stufo, aggiunse, di starsene a cuccia come un cane in una notte così bella, ed era determinato ad alzarsi, vestirsi e uscire a divertirsi con la barca. Riesco a malapena a dire cosa mi possedesse, ma non appena quelle parole gli uscirono dalla bocca, sentii un brivido di irrefrenabile eccitazione e piacere, e quella folle idea mi parve una delle cose più deliziose e ragionevoli del mondo, sebbene fuori vi fosse una burrasca e l’aria di fine ottobre era freddissima. Ciò nonostante, balzai fuori dal letto, in una sorta di estasi, e gli dissi che mi sentivo coraggioso quanto lui, e stanco quanto lui di giacere a letto come un cane, e pronto per ogni divertimento o scherzo come qualsiasi Augustus Barnard di Nantucket.

    Senza perdere tempo, ci rimettemmo i vestiti precipitandoci alla barca. Era ormeggiata al vecchio molo in rovina presso il deposito di legname di Pankey & Co., e quasi sbatteva il fianco contro i tronchi ruvidi. Augustus ci saltò dentro e la salvò, perché era quasi mezza piena d’acqua. Fatto ciò, issammo la randa di fiocco, tenemmo la corrente e uscimmo coraggiosamente in mare aperto. Il vento, come ho detto, soffiava freddo da sud-ovest. La notte era molto limpida e gelida.

    Augustus aveva preso il timone e io mi ero appostato all’albero maestro, sul ponte della cabina. Filavamo a grande velocità, senza proferire una parola – sin da quando ci eravamo staccati dal molo. Chiesi ora al mio compagno che rotta intendesse seguire e a che ora pensava fosse probabile che dovessimo tornare indietro. Fischiettò per qualche minuto, poi disse in tono aspro: «Va’ a casa, tu puoi tornartene a casa se lo ritieni opportuno.»

    Volgendo gli occhi su di lui, percepii subito che, nonostante la sua presunta nonchalance, era molto agitato. Me ne rendevo conto perfettamente sotto il chiaro di luna: il suo viso era più pallido del marmo e la sua mano tremava così tanto che riusciva a malapena a trattenere il timone. Capivo che qualcosa era andato storto e mi sentivo seriamente allarmato. In quel periodo, sapevo ben poco su come si governa una barca e perciò dipendevo completamente dall’abilità nautica del mio amico. Anche il vento era improvvisamente aumentato, mentre ci allontanavamo veloci dal riparo della terra. Tuttavia, mi vergognavo di tradire la mia ansia, e per quasi mezz’ora mantenni un silenzio assoluto.

    Alla fine, però, non ce la feci più e accennai ad Augustus la possibilità di tornare indietro. Come prima, impiegò quasi un minuto prima di rispondere o di considerare il mio suggerimento. «Non c’è fretta» disse infine; «c’è tempo, a casa torneremo tra poco.»

    Mi aspettavo una risposta simile, ma qualcosa nel tono di quelle parole mi riempì di un’indescrivibile sensazione di terrore. Di nuovo lo scrutai attentamente. Le sue labbra erano livide ed entrambe le ginocchia gli tremavano così tanto che sembrava appena in grado di tenersi in piedi.

    «Per l’amor di Dio, Augustus» gridai, ormai spaventato a morte; «Balli tutto… che ti prende?... cos’hai in mente?»

    «In mente!» esclamò, mostrando la più grande sorpresa, e allo stesso tempo abbandonando la barra del timone e cadendo in avanti sul fondo della barca, «in mente... perché… cosa in mente… tornare a casa… non vedi?»

    Ecco che tutta la verità ora mi balenò davanti. Mi gettai su di lui e lo sollevai. Era ubriaco – ubriaco fradicio – non riusciva più né a stare in piedi, né a parlare né a vedere. I suoi occhi erano completamente vitrei; e quando lo lasciai andare, al colmo della disperazione, rotolò come un semplice tronco nell’acqua del fondo da cui l’avevo sollevato. Era evidente che durante la sera aveva bevuto molto più di quanto sospettassi e che la sua condotta a letto era stata il risultato di uno stato di ubriachezza estrema, uno stato che, come la follia, spesso consente alla vittima di imitare esteriormente il comportamento di una persona in pieno possesso delle sue facoltà.

    La freschezza dell’aria notturna, tuttavia, aveva sortito il suo solito effetto – l’energia mentale aveva cominciato a cedere dinanzi al suo potere – e la percezione confusa che senza dubbio aveva allora della sua pericolosa situazione aveva contribuito ad accelerare il crollo.

    Ormai era completamente inerme e non vi era alcuna possibilità che non sarebbe rimasto in quello stato per diverse ore. È quasi impossibile figurarsi quanto fossi terrorizzato. I fumi del vino ingollato da poco erano evaporati, lasciandomi doppiamente spaventato e indeciso. Sapevo di essere del tutto incapace di gestire la barca e che un forte vento e una forte marea ci stavano spingendo verso la distruzione. Una tempesta si stava chiaramente addensando dietro di noi; non avevamo né bussola né provviste; ed era chiaro che, se avessimo tenuto quella rotta, avremmo perso di vista la terra prima dell’alba.

    Questi pensieri, e una folla di altri altrettanto terrorizzanti, balenavano nella mia mente con una rapidità sconcertante e, per alcuni istanti, mi paralizzarono al punto da non rendermi possibile agire in alcun modo. La barca fendeva l’acqua a una velocità pazzesca, con il vento in poppa – senza neppure un terzarolo ad opporsi al fiocco o alla randa – e la prua scorreva completamente immersa nella schiuma. Era un autentico miracolo che non scuffiasse… Augustus, come ho detto, aveva lasciato andare il timone, e io ero troppo agitato per pensare di governarlo. Per fortuna, tuttavia, la barca continuava a rimanere stabile e, gradualmente, cominciai a recuperare un certo grado di lucidità mentale.

    Nel frattempo, il vento stava montando paurosamente, e ogni volta che ci alzavamo da un tuffo in avanti, il mare dietro cadeva pettinando il cassero e ci inondava d’acqua. Anch’io ero completamente intorpidito, in ogni arto, quasi inconsapevole della sensazione. Alla fine, evocando la risolutezza della disperazione, mi gettai sulla randa e la disarmai. Come ci si poteva aspettare, la vela sorvolò la prua e, inzuppandosi d’acqua, strappò via l’albero corto dalle assi: solo quest’ultimo incidente mi salvò dalla distruzione istantanea. Ora, rimasto con solo il fiocco, sfrecciavo avanti con il vento, imbarcando ancora qualche grande ondata ma sollevato dal terrore di una morte incombente. Mi misi alla barra e cominciai a respirare con minore affanno, intuendo che ci restava ancora una possibilità di salvezza. Augustus giaceva tuttora inerme sul fondo della barca; poiché c’era pericolo che potesse affogare (nel punto in cui era caduto, l’acqua raggiungeva quasi un piede d’altezza), mi diedi da fare per sollevarlo un po’, riuscendo a tenerlo seduto grazie a una cima che gli feci passare attorno alla vita, assicurandola poi a un anello del ponte di cabina. Sistemata così ogni cosa, per quanto l’agitazione e il freddo me lo consentissero, raccomandai l’anima a Dio, ripromettendomi di affrontare gli eventi con tutta la forza d’animo che ancora mi restava.

    Con tanta fatica ero appena giunto a tale risoluzione, quando, all’improvviso, un urlo forte e prolungato, come proveniente dalle gole di mille demoni, sembrò pervadere tutta l’aria attorno e sopra la barca. Non dimenticherò mai, finché vivrò, l’intensità dell’agonia terrorizzante che provai in quel momento. I capelli mi si drizzarono in testa, sentii il sangue gelarsi nelle vene, il cuore smise completamente di battere e, senza neppure riuscire ad alzare una sola volta gli occhi per capire quale fosse la causa della mia paura, caddi di testa, privo di sensi, sul corpo inerme del mio compagno.

    Rinvenni nella cabina di una grossa baleniera (la Penguin) diretta a Nantucket. Diversi uomini mi attorniavano e, tra questi, Augustus, più pallido della morte, si dava da fare a sfregarmi le mani. Nel vedermi aprire gli occhi, le sue esclamazioni di gratitudine e di gioia diedero la stura ad accessi di risate e di lacrime da parte di quei personaggi dall’aria rude. Il mistero della nostra sopravvivenza fu presto svelato. Eravamo stati investiti dalla baleniera che, navigando stretta di bolina, in direzione di Nantucket, con tutte le vele spiegate stava correndo quasi perpendicolare rispetto alla nostra rotta. Pur essendovi diversi uomini di guardia a prua, nessuno di essi aveva visto la nostra barca fino a quando non era stato impossibile evitare la collisione: le loro urla di avvertimento nell’avvistarci erano state ciò che mi aveva spaventato così terribilmente. L’enorme nave, mi dissero, ci era cascata praticamente addosso, in un lampo, con la stessa facilità con cui la nostra piccola barca sarebbe passata sopra una piuma, e senza il benché minimo impedimento percettibile alla sua avanzata.

    Non si era levato un solo grido dal ponte della imbarcazione che aveva avuto la peggio: udirono un leggero suono, come un gracidio mescolato al ruggito del vento e dell’acqua, quando il fragile legno era stato inghiottito e per un momento aveva strisciato lungo la chiglia della sua distruttrice – tutto qui. Pensando che la nostra barca (che si ricorderà era stata disalberata) fosse un semplice relitto che era stato abbandonato alla deriva, il capitano (il capitano E.T.V. Block, di New London) decise di proseguire la sua rotta senza preoccuparsi ulteriormente della questione. Fortunatamente, due degli uomini di vedetta giurarono con fermezza di aver visto qualcuno al nostro timone, e rappresentarono la possibilità di poterlo ancora salvare. Ne seguì una discussione, durante la quale Block si arrabbiò e, dopo un po’, disse che non era affar suo dover badare di continuo ai relitti; che la nave non avrebbe dovuto virare per simili sciocchezze; e se pure vi fosse stato qualcuno un po’ malconcio lì sotto, non era colpa di nessuno se non la sua: sarebbe potuto annegare e andarsene al diavolo, o qualche altra espressione del genere.

    Ad opporsi allora fu Henderson, il primo ufficiale, giustamente indignato per quelle parole così orribili e crudeli. Poiché tutto l’equipaggio della nave era con lui, parlò senza peli sulla lingua, dicendo al capitano che lo considerava un pendaglio da forca, e che intendeva disubbidire agli ordini, lo avessero pure impiccato una volta sceso a terra. Avanzando deciso, affibbiò uno spintone a Block (che impallidì senza fiatare) e, afferrato il timone, impartì l’ordine con voce decisa: «Barra di sottovento!»

    Gli uomini scattarono ai loro posti e la nave compì una perfetta virata di bordo. Siccome l’intera scena era durata quasi cinque minuti, qualsiasi tentativo di salvataggio si era praticamente reso vano – sempre che a bordo della barca vi fosse stato davvero qualcuno.

    Ciò nonostante, come il lettore ha visto, sia io che Augustus venimmo tratti in salvo, e il merito di ciò va attribuito a due circostanze fortuite, di quelle ritenute quasi impossibili, che le persone credenti e di buon senso accreditano alla speciale intercessione della Provvidenza.

    Mentre la nave stava ancora virando, l’ufficiale aveva fatto calare la scialuppa e ci era saltato dentro, proprio con quei due uomini di vedetta, credo, che sostenevano di avermi visto al timone. Non appena la scialuppa si era staccata dalla murata di sottovento (la luna splendeva ancora luminosa), la nave

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