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L'enigma delle sabbie
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E-book481 pagine11 ore

L'enigma delle sabbie

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Info su questo ebook

A bordo di una barca a vela, il Dulcibella, Davies e Carruthers navigano nel Mare del Nord, intorno alle isole Frisone, a caccia di anatre, ma la crociera in realtà nasconde altri misteri e si rivela più emozionante e rischiosa del previsto: tra nebbie e tempeste che mettono a dura prova l’imbarcazione, i due amici si convincono con il passare dei giorni di essere involontariamente entrati in un ingranaggio più grande di loro. Per riuscire a sventare il piano che mette a repentaglio la sicurezza dell’Inghilterra sono disposti ad affrontare qualsiasi pericolo, anche a costo della vita. L’enigma delle sabbie, com’era nelle intenzioni di Childers, contribuì tra l’altro a mutare la strategia della Marina Inglese, focalizzandone l’attenzione dal Mediterraneo al Mare del Nord per controbattere le mire espansionistiche tedesche. Oltre a Björn Larsson, anche Ian Fleming, John le Carré e molti altri ammetteranno di avervi trovato preziosa ispirazione.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2014
ISBN9788897012993
L'enigma delle sabbie
Autore

Erskine Childers

Robert Erskine Childers was born in 1870 to an English father, Robert Caesar Childers, a famed professor of oriental languages at University College London, and his wife Anna, from the distinguished Barton family of Co Wicklow, Ireland. Both parents died from TB when he was a small boy, and Childers was brought up at his mother's family home. From Trinity College Cambridge, he went straight into the Civil Service as a House of Commons clerk, pursuing his first passion, for sailing, during the long parliamentary recesses. In 1899 he volunteered for service in the Boer War and wrote a popular account of his experiences, following this up in 1903 with The Riddle of the Sands. As a writer, he took up the cause of Irish Home Rule, and moved with his family to Ireland after distinguished service in the Royal Navy in the First World War. He was elected to the Dail, the Irish parliament, and was a delegate in the negotiations for the Anglo-Irish treaty of 1922. But the terms fell short of his hopes of full independence, and Childers joined the Republicans in the civil war that followed. He was arrested by the Free State government and court-martialled. He was executed by firing squad on 24 November 1922.

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    L'enigma delle sabbie - Erskine Childers

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    titolo originale

    The Riddle of the Sands

    Erskine Childers

    L’ENIGMA DELLE SABBIE

    traduzione di Taddeo Roccasalda

    © 2013 Lantana editore srl

    ISBN: 978-88-97012-99-3

    Il brano di Björn Larsson riportato in bandella è tratto da:

    La saggezza del mare, Iperborea, 2003, p. 157.

    Si ringraziano Rock Reynolds e «l’Unità» per l’autorizzazione a riprodurre l’articolo

    L’enigma Erskine Childers (21 agosto 2012), qui pubblicato in appendice

    all’opera.

    Si ringrazia Antonio Leonardi per la revisione della terminologia nautica.

    www.lantanaeditore.com

    «Ho riletto L’enigma delle sabbie per l’ennesima volta, benché lo sapessi praticamente a memoria. È un libro straordinario. Dopo tutto uno dei motivi per cui ho scritto il mio romanzo era che avrei voluto leggerne un altro di Childers».

    Björn Larsson

    Prefazione di Rock Reynolds

    A bordo di una barca a vela, il Dulcibella, Davies e Carruthers navigano nel Mare del Nord, intorno alle isole Frisone, a caccia di anatre, ma la crociera in realtà nasconde altri misteri e si rivela più emozionante e rischiosa del previsto: tra nebbie e tempeste che mettono a dura prova l’imbarcazione, i due amici si convincono con il passare dei giorni di essere involontariamente entrati in un ingranaggio più grande di loro. Per riuscire a sventare il piano che mette a repentaglio la sicurezza dell’Inghilterra sono disposti ad affrontare qualsiasi pericolo, anche a costo della vita. L’enigma delle sabbie, com’era nelle intenzioni di Childers, contribuì tra l’altro a mutare la strategia della Marina Inglese, focalizzandone l’attenzione dal Mediterraneo al Mare del Nord per controbattere le mire espansionistiche tedesche. Oltre a Björn Larsson, anche Ian Fleming, John le Carré e molti altri ammetteranno di avervi trovato preziosa ispirazione.

    Robert Erskine Childers (Londra, 1870 – Dublino, 1922)

    Di padre inglese e madre irlandese, nella sua breve vita dominata dalla passione politica Childers attirò su di sé le opinioni più contrastanti. Fu di volta in volta odiato e ammirato, accusato di spionaggio oppure ricordato come patriota della causa irlandese. Ufficiale dell’aeronautica inglese nella prima guerra mondiale e decorato con medaglia al valor militare, già allo scoppiare del conflitto a bordo del suo yacht, il celebre Asgard, sbarcava sulle coste vicino a Dublino un carico di armi. La sanguinosa repressione della rivolta di Pasqua da parte delle autorità britanniche (1916) convinse definitivamente Childers della necessità di schierarsi. Dal 1919 divenne cittadino irlandese, lottando attivamente per l’indipendenza della sua nuova patria. Ma l’ambiguità della sua doppia discendenza anglo-irlandese lo rese impopolare su entrambi i fronti. Arrestato dalle autorità del Libero Stato d’Irlanda subì un processo sommario, e venne fucilato nel novembre 1922. «Venite più vicino, ragazzi, così per voi sarà più facile»: queste – così ci sono state tramandate – le parole che rivolse ai soldati del plotone di esecuzione, ai quali volle stringere la mano prima che facessero fuoco.

    L’ENIGMA DELLE SABBIE

    Premessa

    Nell’ottobre del 1902, il mio amico Carruthers venne a trovarmi nel mio studio e, solo dopo avermi strappato la promessa che avrei mantenuto, sia pur temporaneamente, il più assoluto riserbo, mi raccontò gli avvenimenti descritti in queste pagine. Fino ad allora, ne sapevo quanto il resto dei suoi amici, e cioè che era stato in crociera su una barca insieme a un certo Davies e che tale esperienza aveva cambiato radicalmente le sue abitudini e il suo modo di essere.

    Al termine della narrazione – che mi colpì profondamente per tutta una serie di fattori, quali innanzi tutto una certa affinità con alcune mie riflessioni e congetture, per non parlare dell’importanza intrinseca della vicenda e del tono animato con cui fu esposta – Carruthers mi assicurò che tutti gli elementi scoperti durante la crociera erano stati tempestivamente comunicati alle autorità competenti. Queste, superando una sprezzante perplessità iniziale, dovuta in parte alla deplorevole inefficienza dei servizi segreti, li avevano a suo avviso utilizzati per sventare una catastrofe nazionale. Ripeto, «a suo avviso», dal momento che per quanto non ci fosse alcun dubbio che il pericolo fosse stato momentaneamente scongiurato, non si aveva la benché minima certezza che le suddette autorità avessero mosso anche un solo dito per porvi rimedio. La natura del segreto venuto alla luce, infatti, era talmente delicata che il semplice fatto di sospettare una cosa simile avrebbe potuto compromettere l’efficacia della scoperta stessa.

    A ogni modo, la faccenda rimase sopita per un po’ di tempo, anche perché, per una serie di motivi personali che si paleseranno più avanti al lettore, Carruthers e Davies manifestarono espressamente il desiderio che la loro storia non divenisse di dominio pubblico.

    Il precipitare degli eventi, tuttavia, li obbligò a riconsiderare la loro posizione. Pare infatti che quelle informazioni, estorte con tanta fatica e rischio al governo tedesco e prontamente trasmesse alle autorità britanniche, non avessero avuto che un blando impatto sulla politica nostrana. Giunti alla conclusione che il governo stesse trascurando la sicurezza nazionale, i due amici avevano preso la decisione di rendere pubblica la propria esperienza. Motivo per cui Carruthers era venuto a chiedere il mio consiglio. Il grosso inconveniente risiedeva nel fatto che vi fosse implicata una personalità inglese di chiara fama e che, qualora non si fosse agito con la massima discrezione, e ne fosse stata rivelata l’identità, qualche innocente, in particolare una giovane donna, sarebbe stato schiacciato dal dolore e dall’ignominia. Del resto, purtroppo, correvano già tante voci spiacevoli e menzognere in cui era ravvisabile appena un briciolo di verità.

    Dopo aver esaminato ogni aspetto della questione, sostenni con entusiasmo che l’episodio andasse divulgato. Agli inconvenienti di carattere personale si sarebbe potuto ovviare con un po’ di tatto. Dal punto di vista «pubblico», invece, rimandare la questione al buon senso dell’intera nazione non avrebbe prodotto altro che benefici. Si decise dunque per la divulgazione del caso a livello nazionale; dopodiché si passò a esaminarne le modalità. Forte del consenso di Davies, Carruthers propendeva per un resoconto oggettivo ed essenziale dei fatti, privo di qualsiasi connotazione umana. Io non ero assolutamente d’accordo, in primo luogo perché, così facendo, le voci correnti anziché scemare avrebbero finito per aumentare a dismisura. In secondo luogo perché, se presentato in una forma simile, il resoconto avrebbe finito per perdere ogni carica persuasiva e compromettere definitivamente le proprie finalità. Dopotutto persone ed eventi erano legati in modo indissolubile. Omettere, ridurre o addirittura sopprimere circostanze ed episodi non avrebbe fatto che trasmettere al lettore l’impressione di un’iniqua macchinazione. Facendomi prendere sempre più la mano, giunsi a sottolineare la necessità di rendere la storia nella maniera più esplicita e dettagliata possibile, col chiaro e onesto intento di divertire e conquistare il maggior numero di lettori. Non c’era dubbio, tuttavia, che andassero prese delle precauzioni.

    Per farla breve: i due amici chiesero il mio aiuto e io mi misi subito a loro disposizione. Il compito di scrivere e rivedere il libro fu affidato a me. Carruthers mi avrebbe prestato il suo diario e raccontato, naturalmente dal suo punto di vista e fin nei minimi particolari, ogni singola fase di quella che chiamavano la loro «inchiesta». Davies avrebbe dato il suo contributo, illustrandomi le carte nautiche e narrandomi la sua versione dei fatti. La storia si sarebbe basata sul resoconto di Carruthers che, pur viziato da stramberie ed errori, luci e ombre, avrebbe dovuto rivelarsi il più fedele possibile alla realtà. Il tutto però alle seguenti condizioni: che non si facesse menzione dell’anno di svolgimento dei fatti; che i nomi dei personaggi fossero puramente immaginari; e, su mia espressa richiesta, che mi fosse concessa qualche piccola libertà nel tentativo di mascherare l’identità dei personaggi inglesi.

    Il lettore non dimentichi che tutti questi personaggi sono ancora in vita e, qualora abbia l’impressione che un tema sia stato trattato con estrema leggerezza o esitazione, è pregato di non prendersela con l’autore; costui, a prescindere che si tratti di gente nota o sconosciuta, preferirebbe tacere piuttosto che aprir bocca e proferire parole dal sapore pur vagamente impertinente.

    E. C., marzo 1903

    Nota: le mappe e le carte sono tratte da quelle degli Ammiragliati inglese e tedesco; sono stati omessi solamente dettagli irrilevanti.

    I. La lettera

    Ho letto di uomini che, pur costretti da esigenze professionali a vivere per lunghi periodi in completa solitudine (eccezione fatta per alcuni uomini di colore), si sono imposti come regola morale quella di vestirsi di tutto punto per cena allo scopo di preservare la propria dignità ed evitare di abbandonarsi alla barbarie. Ed è in uno stato d’animo simile, non privo di un certo imbarazzo, che mi trovavo alle ore diciannove del 23 settembre di qualche anno fa, mentre mi dedicavo alla toeletta serale nel mio appartamento di Pall Mall. Ero convinto che data e luogo non solo giustificassero un parallelismo del genere, ma lo facessero addirittura a mio vantaggio; in effetti, a differenza dell’oscuro amministratore birmano, che può benissimo essere definito un essere di scarsa sensibilità e dalla fibra grossa, uno che vive a esclusivo contatto con la natura, io, be’... io ero un giovane d’alto rango e alla moda, uno di quelli che conosce le persone giuste e frequenta i club giusti, un funzionario destinato a una sicura e brillante carriera al ministero degli Esteri... Insomma a uno così era lecito perdonare lo stato d’animo di compiaciuto martirio in cui versava, condannato com’era alla completa solitudine di un settembre londinese. A maggior ragione se si tiene conto della forte considerazione che costui nutriva nei confronti degli eventi mondani. Ho parlato di «martirio», ma a dire il vero la questione era infinitamente peggiore. In fondo, come tutti ben sanno, sentirsi martire è una cosa piacevole, mentre l’aspetto realmente tragico della mia situazione risiedeva nel fatto che la fase del martirio l’avessi superata ormai da un pezzo. Avevo potuto assaporarne la dolcezza, seppur in maniera sempre meno intensa a partire dalla metà di agosto, allorché i legami erano ancora vivi e le simpatie innumerevoli. Mi ero reso conto che la comitiva di Morven Lodge sentiva la mia mancanza. Era stata la stessa Lady Ashleigh a comunicarmelo con estremo garbo, rispondendo a una lettera in cui le spiegavo, in uno stile efficacemente solenne, che tutta una serie di circostanze mi impediva di lasciare l’ufficio. «Possiamo ben immaginare quanto debba essere impegnato in questo periodo», recitavano le sue parole, «e mi auguro che non si affatichi troppo. Sentiremo tutti la sua mancanza». Uno dopo l’altro, promettendo di scrivermi e deridendomi con delle finte condoglianze, gli amici presero ad «abbandonarmi» per dedicarsi ai passatempi o godersi l’aria fresca. E fu così che, mentre tutti disertavano la nave che colava a picco, cominciai a trovare un oscuro piacere nella sofferenza, finché, una o due settimane dopo la definitiva dispersione del mio mondo ai quattro venti vivificanti del cielo, giunsi quasi a provarci gusto.

    Cominciai anche a fingere un certo interesse verso gli altri cinque milioni di concittadini e scrissi un gran numero di lettere venate di sagacia e sarcasmo dozzinale, nelle quali, pur alludendo alla situazione patetica in cui versavo, lasciavo comunque intendere che fossi di vedute abbastanza larghe da provare piacere intellettuale negli scenari, nella gente e nelle abitudini londinesi durante la stagione morta. Giunsi addirittura a compiere atti razionali su istigazione altrui. In fondo, benché tendessi a preferire l’isolamento totale, mi rendevo conto che di gente infelice come me ce n’era a bizzeffe, anche se vedeva la cosa da un punto di vista molto più prosaico. Ne seguirono gite al fiume e iniziative simili, dopo l’orario d’ufficio. Il problema è che io detesto il fiume per la sua chiassosa volgarità, specie in questa stagione. E fu così che ben presto decisi di abbandonare la comitiva delle escursioni all’aperto e di declinare l’invito di H. a dividere con lui un cottage sul lungofiume, che pur mi avrebbe consentito di rientrare rapidamente in città al mattino. Preferii piuttosto trascorrere una o due settimane dai Cathesby nel Kent; quando però questi decisero di affittare la casa e andarsene all’estero, la loro assenza non mi rese poi così inconsolabile, anche perché i ripieghi parziali come quello non facevano per me. Non durò molto neppure il piacere delle osservazioni sarcastiche. Per qualche sera, una sete passeggera, di quelle suppongo condivise da molti, una brama di avventure avvincenti come quelle descritte nelle Nuove mille e una notte, mi spinse ad addentrarmi in alcune «oasi ombreggiate» di Soho e anche più a est. Questa sete però fu definitivamente placata un afoso sabato sera dopo un’ora di immersione nell’atmosfera fumosa di un varietà di infimo ordine sulla Ratcliffe Highway. Qui mi ritrovai seduto accanto a una donna corpulenta che, per porre rimedio al caldo che la opprimeva, portava spesso la mano a una bottiglia di tiepida birra scura con cui rinfrescava sé stessa e il neonato che aveva portato con sé.

    Giunta la prima settimana di settembre, avevo rinunciato ormai a qualsiasi palliativo e deciso di abbandonarmi alla tetra ma dignitosa routine fatta di lavoro, club e casa. Fu allora che caddi preda di una delle sofferenze più atroci, sconvolto come fui dalla terribile verità che quello stesso mondo che io ritenevo indispensabile, dopotutto, poteva fare a meno del sottoscritto. E meno male che, a detta di Lady Ashleigh, sentivano tutti la mia mancanza! Una lettera di F., un membro della comitiva, scritta «in tutta fretta, visti i preparativi per la caccia» e giuntami tardivamente, in risposta a una delle mie missive più brillanti, mi diede a intendere che ai ricevimenti casalinghi la mia assenza si era sentita poco e niente. Appresi inoltre che per il sottoscritto non si era sprecato il benché minimo sospiro, nemmeno tra quelli cui supponevo Lady Ashleigh potesse aver discretamente alluso con quel suo pur esplicito: «Sentiremo tutti la sua mancanza». Un colpo ben più doloroso, seppure scagliato con minor violenza, mi fu inferto da mia cugina Nesta che mi scrisse: «Dev’essere davvero tremendo dover restare a cuocere a Londra! D’altra parte, immagino che sarai molto felice di avere un lavoro così importante e interessante». Piccola peste maliziosa! Tuttavia dovevo aspettarmelo: la sua era una piccola vendetta per un’innocua illusione che avevo continuato per anni ad alimentare nella testa dei miei parenti e amici; un’illusione che avevo seminato in particolare nel cuore delle credule zitelle piene di ammirazione che avevo portato a cena nel corso delle ultime due stagioni. Si trattava di una finzione cui io stesso ero quasi giunto a credere. La verità è che il mio lavoro non era né importante né interessante: al momento, consisteva principalmente nel fumare sigarette, informare che il signor «Tal dei tali» sarebbe tornato ai primi di ottobre, andare a pranzo da mezzogiorno alle due e, nel cosiddetto tempo libero, redigere compendi – diciamo così – di rapporti consolari tutt’altro che riservati per poi infilarli all’interno di schedari di ghisa. La mia detenzione in ufficio non dipendeva dalla comparsa di nubi all’orizzonte internazionale – anche se, detto per inciso, si andava profilando una minaccia simile – ma dai capricci di un personaggio distante eppure influente, i cui effetti, ramificandosi verso il basso, avevano scombussolato le vacanze, del resto così ben programmate, degli umili sottoposti. Nel mio misero caso, poi, quei capricci avevano sconvolto del tutto ogni accordo preso con K., che amava decisamente starsene a Whitehall durante la canicola.

    Sarebbe bastata una cosa sola a far traboccare il mio calice già colmo di amarezza; e fu proprio questa preoccupazione a occupare il mio tempo, quella fatidica sera, mentre mi preparavo per cena. Sì, d’accordo, altri due giorni in quella città morta e in decomposizione e la mia schiavitù sarebbe terminata. Ma, ironia della sorte, non sapevo dove andare! La comitiva di Morven Lodge si stava man mano disperdendo. Una terribile voce riguardo a un fidanzamento, che a quanto pare si era rivelato uno dei suoi frutti maledetti, cominciò a tormentarmi con la rinnovata certezza che non fossi mancato a nessuno, lasciandomi dentro quell’impronta deprimente di cinismo che di solito è generata dalla consapevolezza di non contare nulla. Alcuni inviti a ricevimenti che si sarebbero tenuti di lì a poco, e che a luglio avevo declinato sentendomi piacevolmente desiderato, ora mi si rivoltavano contro come tanti spettri e si prendevano gioco di me. Ce n’erano alcuni che, pur avendoli rifiutati in un primo momento, avrei potuto ancora accettare; va detto però che non mi erano stati per nulla rinnovati, e ci sono momenti in cui la differenza tra il farsi avanti e l’arrendersi come un trofeo a una delle numerose padrone di casa divise da un’accanita rivalità appare troppo schiacciante per essere solo presa in considerazione. I miei genitori erano a Aix per la gotta di mio padre; raggiungerli sarebbe stato un ripiego di una banalità ripugnante. D’altronde sarebbero presto tornati a casa, nello Yorkshire, e io non ero quello che suol dirsi un «profeta in patria». Insomma, per farla breve, ero sull’orlo di una brutta depressione.

    A un tratto, uno scalpiccio molto familiare proveniente dalle scale mi segnalò la presenza di Withers, il portiere, che poco dopo bussò alla porta e si fece avanti. Una di quelle cose che aveva cessato di divertirmi già da un po’ di tempo era la rilassatezza di costumi, dovuta sicuramente alla stagione in corso, che caratterizzava la servitù del grande edificio in cui dimoravo. Con estrema discrezione, Withers mi consegnò una lettera che recava un francobollo tedesco e la scritta «urgente». Io avevo appena terminato di vestirmi e stavo raccogliendo il denaro e un paio di guanti, accingendomi a uscire. Mi misi allora a sedere e, quando feci per aprirla, fui pervaso da un fremito di curiosità che riuscì a rimediare, seppur temporaneamente, al mio stato depressivo. Sul dorso della busta, in un angolino, erano state vergate in tutta fretta queste parole: «Scusami tanto. Ho bisogno di un’altra cortesia. Da Carey & Neilson dovresti procurarti un paio di arridatoi a vite, galvanizzati, misura trentacinque centimetri».

    Ed ecco il testo della lettera:

    Yacht Dulcibella

    Flensburg, Schleswig-Holstein

    21 settembre

    Caro Carruthers,

    sono sicuro che questa lettera ti sorprenderà anche perché sono secoli che non ci vediamo. È molto probabile inoltre che quel che sto per proporti non ti interesserà affatto. Non so nulla dei tuoi programmi futuri. Del resto se dovessi trovarti in città, sarai sicuramente rientrato al lavoro da poco e di lì non potrai muoverti. Pertanto, se ti scrivo è solo per sapere se esiste la remotissima possibilità che tu voglia unirti a me per una breve crociera, sperando si possa anche cacciare qualche anatra. So per certo che ami molto la caccia, e mi sembra di ricordare che sei andato in barca qualche volta. Questa parte del Baltico, i fiordi dello Schleswig, è l’ideale per la vela – il paesaggio è stupendo! – e, tra non molto, quando farà più freddo, dovrebbe essere strapiena di anatre.

    Sono arrivato qui passando per l’Olanda e per le isole Frisone verso i primi di agosto. I miei amici sono dovuti partire e io ho assolutamente bisogno di un’altra persona a bordo dal momento che, per ora, non ho alcuna intenzione di disarmare la barca. È inutile che ti ripeta che sarei felicissimo se potessi venire. Se decidi di farlo, mandami un telegramma qui all’ufficio postale. Quanto al viaggio, credo che ti converrebbe passare per Flushing e Amburgo. In questo momento la barca è in riparazione ma sarà sicuramente pronta per il giorno del tuo arrivo. Portati il fucile e molte cartucce n. 4. Ti dispiacerebbe fare un salto da Lancaster a ritirare anche il mio? Portati anche una cerata, giaccone e pantaloni da poco prezzo; in ogni caso, non da vela. Se sai pitturare porta l’occorrente. So che parli il tedesco come uno del posto: meglio così, ci sarà di grosso aiuto. Perdonami per questa interminabile lista di richieste, ma ho come la netta sensazione che verrai. In ogni caso, spero vivamente che tu e il ministero ve la passiate bene.

    Tuo,

    Arthur H. Davies

    P.s. Ti dispiacerebbe portarmi anche una bussola prismatica e un quarto di miscela da pipa Raven?

    Quella lettera segnò una svolta epocale nella mia vita, ma in quel momento non potevo neanche lontanamente sospettarlo. Me la infilai in tasca e con noncuranza affrontai, come ogni sera, la «via dolorosa» che conduceva al club. In giro per Pall Mall oramai non c’era neanche l’ombra di quei raffinati conoscenti con cui ero solito scambiare saluti solenni. In quel periodo le uniche persone che si potevano incontrare per strada erano quelle che si trattenevano al parco fino a tardi e poi rientravano a casa trascinandosi dietro una carrozzina e una masnada di mocciosi accaldati e sudici; o turisti di provincia che giravano fino agli ultimi scampoli di luce del crepuscolo pur di scoprire, grazie alle inseparabili guide, di fronte a quali venerandi edifici si trovassero. A volte ci s’imbatteva solo in qualche poliziotto o in un semplice carretto da traino. Dal momento che i due club dove andavo di solito erano chiusi per pulizie – coincidenza ordita intenzionalmente dalla sorte al puro scopo di arrecarmi degli inconvenienti mi recai in un terzo che si rivelò naturalmente un posto strano. Dico naturalmente, in quanto i club in cui è consentito l’ingresso in simili occasioni sono sempre causa di irritazione per gli avventori, costretti come sono a sperimentarne le stramberie e la mancanza di comfort. Questi locali, di solito, sono frequentati da gente bizzarra, vestita in maniera altrettanto bizzarra, tant’è che spesso si è portati a chiedersi come abbiano fatto a entrare. Immancabilmente il settimanale desiderato non è disponibile, il cibo è pessimo e la ventilazione una farsa. Fatto sta che quella sera ero infastidito dalla concomitanza di tutti questi inconvenienti. C’era qualcosa però che mi lasciava perplesso: la sensazione di un timido alleggerimento interiore. Un alleggerimento, per quanto mi sforzassi di decifrarlo, del tutto immotivato. Era escluso che potesse dipendere dalla lettera di Davies; dopotutto navigare nel Baltico a fine settembre non era che un’idea assurda! Il solo pensiero mi dava i brividi. Una gita a Cowes, con la comitiva giusta e gli alberghi a portata di mano, quella sì che poteva andare! Come poteva andare anche una crociera in pieno agosto su un battello a vapore in acque francesi o nelle Highlands! E poi che razza di yacht era questo Dulcibella? Certo non doveva essere tanto piccolo se era arrivato fin laggiù, ma conoscevo troppo bene Davies per farmi delle illusioni. Lussi non se ne poteva permettere. Queste ultime considerazioni mi spinsero a pensare al suo lato caratteriale. Lo avevo conosciuto a Oxford e, anche se non faceva parte del mio stretto giro – eravamo gente socievole allora! –, lo vedevo spesso. Mi piaceva per il suo vigore fisico unito a una natura semplice e modesta; c’è da dire comunque che non avesse granché di cui vantarsi. In altre parole mi piaceva nella misura in cui, in periodi similmente ricettivi dell’esistenza, si è portati a provare simpatia per gente con cui prima o poi si perderanno i contatti. Avevamo lasciato l’università nello stesso anno... per l’esattezza tre anni prima. Io mi ero trasferito in Germania e in Francia per studiare le lingue del posto, mentre lui, bocciato all’esame di amministratore in India, era entrato nello studio di un avvocato. Da allora ci eravamo visti solo di rado e, devo ammetterlo, tra noi due lui era quello che rispettava con maggior devozione il legame d’amicizia che ci univa. La verità è che avevamo preso strade differenti. Io ero un brillante funzionario del ministero degli Esteri e, quelle poche volte in cui ci eravamo rivisti dopo il mio trionfale debutto in società, mi ero reso conto che non avevamo più nulla in comune. Davies, infatti, non conosceva nessuno dei miei amici, si vestiva in modo diverso, e mi dava l’impressione di una persona noiosa. Benché lo avessi sempre associato al mare e al mondo delle barche, non immaginavo potesse aver qualcosa a che fare con la vela, perlomeno nel senso in cui la intendevo io. Ai tempi dell’università, era quasi riuscito a convincermi a trascorrere in sua compagnia quella che si prospettava una squallida settimana a bordo di una specie di scialuppa procurata chissà dove; la sua intenzione era quella di navigare in tetre distese fangose di qualche zona sperduta lungo la costa orientale...

    Il club non offriva nulla di speciale e pertanto ripiegai sulla cena, che si trascinò avanti in un’atmosfera funerea. Malgrado la nuova occupazione, mi ricordai che su Davies, di recente, giravano strane voci. Ma non ricordavo esattamente di cosa si trattasse. Quando poi mi portarono il primo piatto, giunsi alla conclusione che, per quanto mi sforzassi di dar peso all’intera vicenda, era tutto ridicolo, come il primo piatto stesso. Ora che i miei piani per le vacanze erano andati a monte e non potevo nemmeno abbandonarmi ai piaceri del martirio, che consolazione poteva mai essere quella di trascorrere il mese di ottobre al gelo del Baltico in compagnia di una persona eccentrica e insignificante come Davies? Quando però mi trovai solo a fumare il sigaro nel tetro salone del club, la questione mi si ripresentò alla mente. C’era qualcosa di strano in tutto ciò. Ma dopotutto, alternative non ne avevo. E la prospettiva di finire sepolto nelle acque del Baltico in un periodo dell’anno così assurdo racchiudeva in sé un sapore di tragica perfezione.

    Tirai fuori la lettera e ne rilessi velocemente il fraseggio staccato¹ e impulsivo, fingendo di ignorare la ventata di freschezza, allegria e socievolezza che quel pezzetto di carta sprigionava fra quelle mura asfittiche. A un’attenta rilettura però mi accorsi che pullulava di oscuri presagi: «Il paesaggio è stupendo!» Sì, d’accordo, ma dove le mettiamo le tempeste equinoziali e le nebbie autunnali? In quel periodo della stagione, chiunque possedesse uno yacht, e fosse sano di mente, avrebbe già cominciato a liquidare il proprio equipaggio. Per non parlare di quella frase: «Dovrebbe essere pieno di anatre»... davvero troppo vaga. E ancora: «Quando farà più freddo...» Tra freddo e vela non poteva che esserci un legame aberrante e privo di fondamento! E poi, si può sapere perché i suoi amici erano dovuti partire? «Non il tipo da vela...» E perché no? E le dimensioni dello yacht? Il comfort? L’equipaggio? Tutto amabilmente taciuto. E a che diavolo gli serviva una bussola prismatica? Dopo aver sfogliato distrattamente qualche rivista e giocato a carte con un vecchietto molto socievole, ma comunque troppo importuno per rifiutargli una partita, me ne andai a dormire ignaro del fatto che una sorte alquanto benefica mi fosse venuta in soccorso. Anzi, più che ignaro, direi piuttosto risentito nei confronti di un tentativo di soccorso così goffo.

    1 In italiano nel testo originale.

    II. Il Dulcibella

    A chi mi avesse visto due giorni dopo passeggiare sul ponte di un vaporetto diretto a Flushing, con un biglietto per Amburgo in tasca, una decisione simile sarebbe sembrata del tutto incoerente. Molto meno, tuttavia, a chi avesse potuto intuire il mio stato d’animo. A ogni modo una cosa era certa: ero fermamente convinto che stessi compiendo un oscuro atto di penitenza. E che se si fosse sparsa la voce su una cosa simile, la mia sorte avrebbe richiamato su di sé l’attenzione di tutti e forse generato rimorso nell’animo delle persone giuste. Quanto a me, invece, sarei stato libero di divertirmi con discrezione, nella pur remota probabilità che se ne fosse presentata l’occasione.

    Fatto sta che il giorno dopo l’arrivo della famosa lettera, a colazione, riprovai quell’inspiegabile sensazione di alleggerimento interiore di cui ho parlato prima; stavolta però con un vigore tale da spingermi ad analizzare i pro e i contro dell’invito. Un importante pro, su cui non avevo ancora fatto mente locale, era che in fondo unendomi a Davies avrei dato prova di generoso altruismo; dopotutto era stato proprio lui ad affermare che gli serviva un compagno e ad apparire sinceramente bisognoso di me. Mi aggrappai quasi del tutto a questa considerazione. Che si rivelò una scusa perfetta perché mi dedicassi, appena giunto in ufficio quel giorno, a una rassegnata consultazione della guida di Bradshaw. Ordinai a Carter di srotolare una gigantesca e scricchiolante carta geografica da parete che raffigurava la Germania, e di localizzarvi la città di Flensburg. Forse quest’ultima fatica avrei potuto pure risparmiargliela, ma ero convinto che a Carter, avere qualcosa da fare, potesse solo giovare. Del resto la sua ignoranza così diligente era un vero e proprio spasso. In linea di massima, quella carta e le indicazioni in essa contenute mi erano piuttosto familiari; a quanto pare, a prescindere da ciò che avessi fatto o non fatto da allora, l’anno che avevo trascorso in Germania non si era rivelato del tutto inutile. Gli abitanti, la storia, il progresso e il futuro di quella nazione mi avevano sempre interessato enormemente, e poi avevo ancora amici a Dresda e a Berlino. La città di Flensburg mi richiamava alla mente la guerra con la Danimarca del ’64 e mi assorbì così tanto che, quando Carter portò a termine la sua ricerca, non ricordavo più l’incarico che gli avevo affidato. Mi chiedevo se fosse il caso di anteporre la prospettiva di visitare parte di quell’amena regione dello Schleswig-Holstein, che tra l’altro conoscevo solo per sentito dire, alla scomodità di una tale visita, ma anche alla tarda stagione e alla compagnia così poco allettante. Per non parlare di tutta una serie di ulteriori inconvenienti che continuavo a passare in rassegna e a tenere in gran conto, e che si sarebbero rivelati emblematici della mia situazione disperata, se mai avessi finito per andarci. Tuttavia bastava poco per convincermi a partire e un ruolo decisivo in tal senso lo ebbe, senza dubbio, un K. oltraggiato dal sole che, rientrando dalla Svizzera, mi fece: «Ehi, Carruthers, che ci fai qua? Ero convinto che fossi partito da un pezzo. E comunque, beato te che parti ora! È il periodo ideale per gli stanamenti e i primi fagiani. In quella maledetta Svizzera faceva un caldo terribile! Ehi, Carter, portami una copia del Bradshaw!» (Un libro davvero singolare, il Bradshaw: lo si maneggia giusto per abitudine, anche quando non ha alcuna utilità; un po’ come accade con i fucili da caccia e le canne da pesca durante le stagioni di chiusura).

    Per l’ora di pranzo ogni mio dubbio fu dissolto definitivamente e incaricai Carter di inviare un telegramma a Davies, presso l’ufficio postale di Flensburg. Il testo recitava così: «Grazie. STOP. Arrivo ore 21.34, giorno 26. STOP». Tre ore dopo mi giunse questa risposta: «Lietissimo. STOP. Per favore porta cucinetta Rippingille n. 3. STOP». Una richiesta così sbalorditiva e oscura che, malgrado l’apparenza innocua, in un certo senso mi fece gelare il sangue.

    Da quel momento, la mia determinazione non fece che vacillare. Vacillò quella sera stessa allorché, testando il mio fucile, mi misi a pensare ai fagiani che avrei ucciso; e vacillò anche quando cominciai a meditare sulla variegata lista di commissioni di cui la lettera di Davies era disseminata: portarle a termine mi faceva sembrare più un burattino remissivo che un esule carico di amarezza o, perlomeno, un alleato condiscendente. Nonostante tutto, però, dopo aver lasciato l’ufficio, mi sobbarcai l’onere di tutte quelle commissioni con audacia virile.

    Da Lancaster, dove mi recai per ritirare il fucile di Davies, mi ricevettero con molta freddezza e, affinché me lo consegnassero, fui costretto a pagare un conto salatissimo che a quanto pare si era andato accumulando nel tempo. Dopo aver ordinato che l’arma e le cartucce mi venissero recapitate direttamente a casa, comprai la miscela da pipa Raven provando quella singolare sensazione di illecito puntualmente indotta dall’idea di effettuare del contrabbando per conto di altri. Mi domandavo dove potesse mai trovarsi il negozio Carey&Neilson; da come Davies ne parlava, pareva possedere la stessa notorietà della Banca d’Inghilterra o dei Grandi Magazzini! Dopotutto non si trattava che di una ditta specializzata in «arridatoi a vite», qualunque cosa essi fossero. E tuttavia quegli aggeggi avevano un non so che di importante, per cui andare a procurarseli sarebbe stato un gesto di buona educazione. Non so perché, ma li associavo alle riparazioni di cui aveva parlato Davies nella sua lettera e questo non fece che destare in me nuovi cattivi presagi. Giunto ai Grandi Magazzini, domandai della Rippingille n. 3 e mi ritrovai davanti uno spaventoso, anzi terrificante ammasso di ferraglia che bruciava petrolio da due serbatoi piuttosto capienti; in altre parole, uno strumento orribilmente presago del tanfo di olio bruciato. Lo pagai in preda a un senso di avvilimento, non tanto perché dubitassi della sua pur tetra utilità, quanto piuttosto perché preoccupato dalle circostanze che potevano aver indotto Davies, all’ultimo momento, a domandarmene l’acquisto a mezzo telegramma. Al reparto nautica chiesi degli arridatoi a vite, ma mi dissero che non ne avevano. In compenso però appresi che li avrei senz’altro trovati da Carey&Neilson, un negozio che si trovava nelle Minories, nell’estrema periferia orientale della città; in altre parole, avrei dovuto affrontare un viaggio lungo quasi quanto quello fino a Flensburg, e doppiamente noioso, per giunta. Ma con molta probabilità, seppur mi fossi mosso in quel momento, lo avrei trovato chiuso e così, dopo quell’estenuante tour de force, me ne tornai a casa in carrozza. Evitai di prepararmi per la cena (un fatto di per sé epocale), e dopo aver ordinato una costoletta dalla cucina nel seminterrato trascorsi il resto della serata a fare le valigie e a scrivere con la stessa metodica malinconia di un uomo intento a sistemare i propri affari per l’ultima volta.

    Finalmente trascorse anche l’ultima di quelle notti asfissianti. Un incredulo Withers mi vide fare colazione alle otto in punto e alle nove e mezza ero già lì che esaminavo, pur distrattamente, una serie di arridatoi a vite con le ultime energie mentali che mi erano rimaste dopo quel viaggio infernale in metropolitana fino a Algate. Avevo insistito sui trentacinque centimetri di lunghezza e sulla galvanizzazione, riponendo in essi ogni mia fiducia, dal momento che ne ignoravo la funzione. Quanto alla cerata, il commesso mi aveva indirizzato in una spaventosa baracca in un vicoletto sperduto che però era tenuta in gran considerazione. Qui mi misi a mercanteggiare (partendo da 18 scellini) con un ebreo sudicio e ingioiellato sul prezzo di un paio di stracci arancioni e maleodoranti che ricordavano, molto alla lontana, la forma di un corpo umano. Fu per via del cattivo odore che emanavano che finii per arrendermi prematuramente a 14 scellini. Quindi mi precipitai in ufficio (dove ero atteso per le undici) con un paio di equivoci fagotti di carta marroncina, uno dei quali risultò talmente vistoso nell’atmosfera solenne del ministero che Carter mi domandò con estrema sollecitudine se preferivo che mi venisse recapitato a casa. Dal canto suo, K. cominciò a esaminare il fagotto e i miei movimenti con una curiosità tale da rasentare l’indiscrezione. Malgrado ciò evitai di dargli alcuna spiegazione: conoscendolo, i suoi commenti avrebbero rivelato una certa invidia provocatoria o comunque finito per ferirmi nell’orgoglio.

    Solo molto più tardi mi venne in mente la bussola prismatica. Telegrafai allora a Carey&Neilson per farmene mandare una immediatamente, sollevato dal fatto che, non dovendo presentarmi di persona, non mi avrebbero sottoposto ai classici interrogatori riguardo a dimensioni e tipologia. La loro risposta fu: «Non disponibile. STOP. Provi da un costruttore di strumenti topografici. STOP». Replica, questa, che mi parve al contempo enigmatica e rassicurante. In un primo momento, infatti, la richiesta di una bussola da parte di Davies mi aveva messo a disagio più di ogni altra cosa; ora, pur rendendomi conto che ciò di cui aveva bisogno non era altro che uno strumento di rilievo, una tale scoperta mi appariva altrettanto sconcertante. Quello stesso giorno redassi il mio ultimo rapporto ufficiale e dopo aver consegnato gli allegati – veri e propri letti di Procuste su cui i fatti, riluttanti, venivano stirati e torturati – salutai il mio capo provvisorio, il geniale e clemente M., il quale in tutta sincerità mi augurò delle liete vacanze.

    Alle sette ero lì che osservavo una carrozza stracarica dei miei bagagli personali e di un ammasso di pacchetti bizzarri e ingombranti di cui ero andato riempiendomi durante le ultime commissioni. Per poco non persi il treno a causa di un paio di deviazioni fatte alla ricerca di quella maledetta bussola prismatica; dopo tutta una serie di peripezie riuscii a procurarmene una, in mancanza di meglio, di seconda mano in uno di quei negozi che, dietro l’aspetto di lussuose gioiellerie, nascondono dei veri e propri banchi dei pegni. Alle otto e mezza però mi ero già scrollato di dosso

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