Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Santería. Lettere a Arianna
Santería. Lettere a Arianna
Santería. Lettere a Arianna
E-book220 pagine3 ore

Santería. Lettere a Arianna

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Santería. Lettere a Arianna narra della babele creativa di Jacopo, archeologo mancato riciclatosi in uno studioso freelance che passa da una ricerca all’altra senza un progetto. Gli interessano storie umane taciute, classici fraintesi, casi sfuggenti, affrontati con un azzardo che batte sul tempo la ricerca accademica e a volte la condiziona.
Santería fa il verso, con eleganza e un pizzico di autoironia, al romanzo epistolare Ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo.
Jacopo scrive a Arianna, archetipo dell’amore infelice, custode della Scienza e del Labirinto inteso come allegoria della Vita. È convinto d’averla amata da giovane nel corpo d’una divina fanciulla. Lei lo guida ma non gli risponde mai e alla fine si muta in Atropo, la Moira implacabile. Nel mito apocrifo, Arianna-Atropo maneggia lo stesso filo, che una volta tagliato impedisce a Jacopo di orientarsi fuori dal Labirinto. Il suo silenzio simboleggia il mancato dialogo tra il sapere mitico, semidivino, a volte infido, e la malascienza di strada, fallibile e a bassa frequenza.
A indurre Arianna a non rispondere a Jacopo è stata la dea Kore, figlia di Demetra, che concede al suo protetto il privilegio dell’Agàpe, l’amore senza limiti. Kore smentisce l’assioma leopardiano Muor giovane colui ch’al cielo è caro, ripreso dal caro agli dèi di Menandro. Ci sono dei e dee, in cielo e sottoterra. Le dee del sottosuolo, infatti, allungano la vita di chi amano. Conviene? Jacopo lascia a metà un romanzo iniziato trentasette anni prima e raggiunge Kore nel suo regno.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2022
ISBN9791254570531
Santería. Lettere a Arianna

Correlato a Santería. Lettere a Arianna

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Santería. Lettere a Arianna

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Santería. Lettere a Arianna - Alessandro Dell’Aira

    Vestibolo

    Devo questo libro ai miei vent’anni da pubblicista, preceduti da almeno trentacinque da pubblicante. Tra saggi, interventi ai convegni e testi sparsi, qualcosa è rimasto: gli scritti miliari, i segnavita. Li mescolo, catalogo, riscrivo, rimescolo, classifico, verifico. Dopo qualche esitazione ricomincio. È la mia Santería.

    Le Santerías sono bande meticce di spiriti buoni e cattivi, di santi cattolici e orishá del candomblé, di duendes lorchiani, di exús de umbanda, di muñecos del voodoo cubano. Agglomerati di superpoteri evocati in musica e in danza, da iniziati o da scettici, per amore o per odio, sul serio o per diletto. E come il fado e il tango, in origine feccia del canto e del ballo, Santería è la malareligione dei miseri vista da chi vive bene e muore meglio, in pace col cielo e la coscienza perché le ha bevute tutte.

    Santería è il riciclaggio di studi sporadici e asistematici, spesso farneticanti. È malascienza a costo sociale zero, a volte con un valore aggiunto, imprevisto: la soluzione del rebus. Come quando, con la consueta enfasi e senza nominarmi, uno spasimante di Palermo bambina, dolce e leggera dichiarò alla stampa che era saltato il tappo d’un bottiglione di vino vecchio. Come se il prodotto della ricerca fosse una fermentazione spontanea della Storia.

    La cosa m’ha sempre inorgoglito. Possiedo l’intera collana dei Classici del ridere Formiggini, l’editore bolognese che sfidò duce e re gettandosi dalla Ghirlandina poco dopo l’approvazione delle leggi razziali. Per rendere il gesto più eclatante s’era riempito le tasche di soldi. Jacopo invece vive nel Labirinto con le tasche vuote e si vanta di non apparire, di restare invisibile per ragioni eversive, relazionali, ambientali. A Lisbona negli anni Novanta era amico di molti militari che avevano fatto la rivoluzione: sinceri, generosi, sempre pronti a dare una mano a compagni e superiori. I loro figli oggi si battono per la pace in scenari di guerra, a differenza di chi continua a battersi per la guerra in scenari di pace. E ha due buone ragioni per latitare. La prima: viene sempre da altrove, dall’Isola tricuspide al Trentino, dal Trentino a Lisbona, da Lisbona a Madrid, da Madrid al Trentino, dal Trentino a San Paolo del Brasile, dal mondo alla Tricuspide. La seconda: non sopporta i pavoni, adora i gufi che si strappano dalle terga le penne migliori per offrirle alla gente fidata che gliele chiede.

    Jacopo non punta a allori mediatici o al denaro. Non rivendica primati, vanta tonfi e svarioni solenni. Ha anteposto il background e i percorsi accidentati all’ossessione del curriculum. Coltiva il gusto del Labirinto e del perché ci siamo, non del dove siamo arrivati e come procedere.

    Santería. Lettere a Arianna. Buon viaggio.

    Il Labirinto

    Entriamo senza bussare, staccandoci dal cordone della Madre, diretti a un intreccio di budelli che andiamo riempiendo di noi, di noi e di tutto, finché chi conosce le regole non ci soccorre.

    La prima regola è l’assenza apparente di regole; la seconda è l’urgenza di sopravvivere nel Labirinto, ciascuno con l’arte sua, visto che prima o poi ne usciremo.

    Da come le due regole ci verranno trasmesse sarà la supposta assenza di regole a sostenerci, o la coscienza di ciò che sappiamo e non sappiamo di noi.

    Siamo acrobati che vanno da un capo all’altro del filo protetti da una rete a maglie larghe che ci tutela dai rischi. L’Autagonia è la prima nostra battaglia solitaria, agevolata o no da un forcipe; l’ultima è l’Agonia, repentina o sfiancante, che combattiamo al fianco del demone nostro.

    Sembra esservi un nesso tra il filo di Arianna la generosa, offerto a chi brancola, e quello di Atropo l’impietosa, che lo taglia a chi rantola affinché non si orienti all’uscita.

    Visto da fuori, il Labirinto non ha né scale né muri né finestre né porte, come il deserto del re degli Arabi mostrato al re di Babilonia e descritto da Borges, il visionario cieco.

    Visto da dentro è il cosmo che andiamo sperimentando, in cui lo scibile non va da A a Z: è sempre e solo El Aleph, il primo e ultimo segno che tutto contiene e circoscrive.

    Arianna e Atropo presidiano l’uscita dal Labirinto, gloria di Teseo e nostra prigione. O forse no: il Filo è uno, e Una chi lo maneggia. 

    Il bernoccolo

    Arianna cara, è la prima lettera che ti scrivo.

    È bello sapere che ci sei! So che amministri il Labirinto e ci istruisci su come uscirne. Di me non sai nulla, dunque leggimi con pazienza e non dire che non ci conosciamo: Jacopo è quasi certo d’averti amata in un giovane corpo mortale, uno di quelli che le dee assumono per non turbarci. Tu, semidea, confermi o smentisci? Carissima, sappi che ho scarse nozioni di mitologia. Non sapevo che qui mi sarei imbattuto in gente già frequentata, in bestie e piante a me care, in luoghi a me noti. Arianna, è questa la magia del Labirinto? Rispondimi, se non vuoi che mi perda. Da una vita stringo in mano il tuo filo ma ora i ricordi svaniscono presto dalla mente. Che questa sia la prima e ultima volta. Spero sempre che non succeda più e invece capita sempre più spesso. Assisti Jacopo, principessa, ti prego. Ah, ecco il filo, l’ho ritrovato! Ascolta, ti racconto di me.

    Palermo, Isola tricuspide, gennaio del ’62. Primo anno di frequenza di Lettere classiche, ti dirò più avanti. Prima lezione di storia greca del professor Eugenio Manni, direttore dell’Istituto di Storia antica. Il Maestro m’avrebbe messo alla porta otto anni dopo, a pochi giorni dal concorso per assistente ordinario. Dal suo punto di vista me l’ero cercata, non so dargli torto neppure adesso. Ero un ribelle, in anni in cui era facile esserlo da studenti ma non da assistenti incaricati. Non so se Manni avesse qualche altra ragione per sbarazzarsi di me, per esempio l’urgenza di garantirsi una successione rapida. So solo che m’insegnò il metodo storico positivista. E tra i buoni consigli che mi diede, il più prezioso è questo: Se lavori in un posto, qualsiasi posto sia, qualunque lavoro sia, dedicati a quel posto. Meglio ancora se trovi legami tra quel posto e la tua terra.

    All’inizio della seconda lezione il Maestro ci chiese chi era disposto a sviluppare un tema tra quelli che ci avrebbe assegnato, tutti sulle fonti primarie della storia greca antica. Ci offrimmo in sei. A me toccò la cronologia dei diadochi, i generali di Alessandro Magno, e degli epigoni loro successori. Mi sembrò un tema arido, ne avrei scelto volentieri un altro ma quello m’era toccato. Manni era torinese, in pochi anni di permanenza a Palermo aveva imparato a conoscere come nessuno la Tricuspide, la sua storia pagana e la sua gente. Nell’accettare pensai a un nostro antico proverbio: Chista è a zita, cu a voli sa marita.

    Arianna mia, sono valori propri delle civiltà primitive. Allora la Tricuspide funzionava come le società fondate sulla pastorizia. Oggi le zite ce le scegliamo, a costo di solenni tranvate. Per zita del cuore scelsi Lettere classiche, dopo aver piantato la zita fradicia impostami dal padre: Giurisprudenza.

    Scusa Arianna, ho il vizio di divagare, il filo s’imbroglia e questo rallenta la marcia verso l’uscita ma forse è bene così, dimmi se sbaglio. Ricapitoliamo. Morto Alessandro Magno, il controllo dell’Impero passò prima ai quattro diadochi e poi agli epigoni. Per fare ordine tra gli storici post alessandrini è importante disporre d’una cronologia fondata sulle Olimpiadi o altro. Per esempio, Diodoro Siculo si servì di liste comparate di arconti greci e consoli romani.

    Manni mi fornì alcune liste frammentarie di nomi, compilate da autori diversi. Mi diede un mese per elaborare la tesina. Non ricordo nulla del lavoro che feci, se non che di liste ne scelsi due. M’accorsi che entrambe avevano delle falle in periodi non coincidenti. Le integrai e ne compilai una senza lacune, chiarendo perché a mio giudizio si poteva fare.

    Manni diede un’occhiata alla mia lista, si sfilò dal naso gli occhiali spessi senza i quali non avrebbe distinto un’ape da una rondine, si strofinò una mano aperta sul viso come per lavarselo e fece una smorfia da maschera tragica punica. Inforcò nuovamente gli occhiali e partì la filippica: Ragazzo, non puoi cavartela in modo così spiccio.

    Tornò a concentrarsi e nell’Istituto di Storia antica calò il silenzio. Il Maestro rifletteva, mentre l’autore della tesina spiccia, seduto di fronte a lui, teneva le unghie degli indici piantate sui dorsi dei pollici, respirando nel modo più lento e leggero possibile.

    Cinque minuti dopo Manni si sfilò si nuovo gli occhiali e guardando nel vuoto disse che la tesina poteva andare. E che avevo il bernoccolo dello storico. Disse proprio così: bernoccolo. Mi sembrò una condanna: con la zita del cuore sognavo una fuitina archeologica senza bernoccoli. Ma chista è a zita, cu a voli sa marita. Una settimana dopo mi fece esporre la tesina in aula. Fui il primo dei sei volontari. Ciascuno di noi, in giorni diversi, disponeva di un’ora e doveva cavarsela, replicando poi in modo sensato alle obiezioni dei presenti.

    Uscito indenne da quell’ordalia, mia dolce principessa, fui ammesso nell’Istituto come apprendista. Per così poco, continuavo a ripetermi. Trascorso l’anno, il Maestro apprese non so da chi che m’ero messo in testa d’andare in Grecia in bicicletta. Una scelta obbligata, come ti dirò. Manni divenne mio complice: m’affidò una missione che m’inorgoglì, e quando al terzo anno, con qualche esame arretrato, gli chiesi la tesi, me ne diede una di epigrafia greca, a metà fra archeologia e storia. Avevo fretta, volevo laurearmi in corso per non dare un’altra mazzata ai miei vecchi. Sarebbe stato come convivere con la zita prima delle nozze.

    Quell’ingenua impazienza, Arianna mia, fu l’imprevisto che mi fece scivolare dal cuore del Maestro. Gli misi fretta e lui, per accontentarmi, rinviò un viaggio in Grecia già programmato. Mi laureai a giugno del ’66, in ritardo di quattro mesi sull’ultima sessione del corso quadriennale.

    Bonabbonè Arianna, traduco: a denti stretti il genitore placato mi disse: Non fidarti dei baroni, tenta un’abilitazione all’insegnamento.

    Non l’ascoltai: volevo togliermi dai piedi la naja, essere libero di costruirmi il futuro o di sfasciarlo. Superai la selezione per un corso allievi ufficiali di complemento dell’Arma Aeronautica, che stava per iniziare presso l’Accademia di Pozzuoli. Noi allievi, com’era tradizione, gli demmo un nome: lo chiamammo Vampiro I. Entrai nella redazione di quell’Annuario autogestito, che ancora conservo. Invece un collega di poca memoria – o un suo erede sconsiderato – l’ha messo in vendita su eBay. Dopo tre mesi di addestramento nel Centro di Difesa Aerea di Borgo Piave in provincia di Latina, così chiamato, Arianna, dai Venetici addetti alla bonifica fascista delle Paludi Pontine, mi assegnarono a Marsala, al Centro NATO di Riporto e Controllo del traffico aereo.

    La naja allora durava quindici mesi. E sei mesi prima dell’alba, o nobile figlia di Zeus, persi il lume della ragione per una fanciulla apparsami all’improvviso a Sciacca, detta un tempo Ash-Sciaqqah, svanita nel nulla a parte un breve e affannato incontro d’amore, dopo qualche giorno, sulla sabbia d’una spiaggia vicina. Eri tu, Arianna?

    Fu la prima avvisaglia d’un disastro apocalittico. Ero in congedo da quindici giorni quando la valle del Belice fu sconvolta dal sisma. Quella notte, nella nostra casa di Palermo, coi piedi sul letto, sprofondato nella poltrona che ho con me in questo mezzo casale e su cui come allora poggio i glutei, stavo preparando la mia prima lezione di assistente incaricato di epigrafia greca. La poltrona navigò sul pavimento, vidi le luci delle case vicine accendersi tutte insieme, m’affacciai sulla porta della stanza, ne sentii vibrare il telaio sotto la mano, corsi in corridoio verso l’ingresso dove il grande specchio in cornice dondolava, tornai indietro e sentii quel telaio vibrare ancora.

    Aiuto Arianna, il Labirinto sta ruotando. A mezzo secolo da quello sfacelo mi sento come chi sta per tuffarsi in mare da una barca con le chiappe contratte, e non sa cosa l’aspetta. 

    Le pile del Belli

    Arianna dispettosa, che ora mi porgi il filo ora lo neghi, perché taci? Facciamo un passo indietro. I miei dicevano: Quando sarai dottore potrai fare ciò che vorrai. Studìa. A me risultava che potevo farlo anche prima, a ventun anni. Così, due mesi dopo averli compiuti, scappai di casa.

    Scappato di casa, principessa, oggi sta per voltagabbana. Per esempio, si dice dei calciatori che passano da una squadra all’altra per interesse personale, o dei parlamentari che cambiano casacca per prolungare il mandato. Allora no, scappato di casa stava per scappato di casa. Ragionavo con la testa che avevo.

    Ho la labirintite, Arianna, o sto sognando?

    Scappai perché, tornato a casa illeso dopo mille e più chilometri di Grecia girata su una bici senza cambio, passai l’agosto del ’64 nella casetta di campagna presso Cefalù, dove si villeggiava. Acquistata negli anni Cinquanta, era poco più che un rudere: non c’era luce elettrica né acqua corrente, solo una bombola di gas per cucinare. Dormii fuori su una branda per tutto il mese, con gli antenati di Jacques, il mio caro bastardo di labrador, che ogni mattina mi svegliavano leccandomi la faccia.

    In Grecia avevo con me solo un sacco a pelo e uno zaino con pochi indumenti. Dormivo dove capitava, sul tavolone di una bettola a Corinto, a Olimpia in un bosco vicino a una fontanella, o sotto la tenda di altri scappati di casa. Di uno di loro, Haim Hassan, ebreo argentino, conservo un ricordo fraterno. Prima di trasferirsi in Israele Haim stava girando l’Europa su una vecchia Vespa 150. Non seppi più nulla di lui dopo la Guerra dei sei giorni. Più o meno uno di quelli, Arianna, del tuo manifestarti – ma eri tu? – nella piazza-piscina di Ash-Sciaqqah, di cui ancora non t’ho detto.

    Quella Vespa aveva un’ernia di camera d’aria che sporgeva da un taglio della gomma posteriore. Haim mi soccorse a Nápflion, prima d’una salita tragica: mi prese a bordo fino a Epidauro. Tenni la bici a tracolla sullo zaino per trentacinque chilometri. A ogni curva lui sterzava al contrario per bilanciare il peso. Ricordo che al ritorno cenammo in una taverna di Nápflion coi tavoli schierati in un vicoletto e scherzando sul braccino corto degli ebrei ci sfidammo a chi spendeva meno per un pasto completo. Haim mi fece vincere dando per buona la fetta d’anguria che comprai dal fruttivendolo dieci metri più in là.

    A ottobre lasciai la famiglia. Non riuscivo a concentrarmi sugli esami arretrati, soprattutto storia romana: ero ancora saturo di Grecia. Avrei dovuto andarci in Vespa con Giacomo, un amico che aveva una 150 nuovissima. Mio padre si mise in mezzo, Arianna, e ti pareva: parlò col padre di Giacomo e il viaggio sfumò. O meglio, sfumò la Vespa di Giacomo. Il giorno dopo, a pranzo, annunciai che in Grecia ci sarei andato in bicicletta. La mia.

    Anche per questo, a ottobre, scappai di casa. Nascosi lo zaino nel cofano della Cinquecento e lo riempii dell’indispensabile, un po’ per volta, per non dare nell’occhio. Pensai che se avevo girato la Grecia con una bici senza cambio (smontato, da fuori di testa, per spostare a mano la catena da un rocchetto all’altro e non rischiare guasti), potevo anche partire in treno per Roma senza preavviso. La mattina dopo corsi a casa di un prozio che abitava a piazza Fiume, dietro Porta Pia: un buon auspicio per uno che voleva sfondare nella capitale. Mi piaceva sentirgli raccontare le sue spacconate di bambino. Come quando, marinata la scuola per un giorno, assoldò un vetturino per farsi giustificare. E quando la maestra convocò il padre vero se ne uscì da istrione: Unn’è mi patri! Dirigente generale del Ministero Industria e Commercio, ogni mese andava avanti e indietro da Roma a Bruxelles. Quando scendeva a Palermo dalla sorella, la mia nonna paterna, in casa entrava la CECA, Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, e un aroma di Tabacco d’Harar.

    Mi aprì la porta e quasi gli venne un colpo nel vedermi con lo zaino. Ci restai male. Non sei il mio prozio, chi sei? Anche tu scappasti di casa una volta! pensai.

    Mi ospitò per qualche settimana, resistendo ai guaiti della moglie etrusca. Mi procurò una ricerca sul primo Ottocento romano, da consegnare entro un mese all’Associazione Nazionale per il Controllo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1