Paride Royl e la Lanterna Dei Sogni Perduti
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Fantasy - romanzo breve (95 pagine) - Due famiglie legate da un’antica amicizia. Due ragazzi sospettosi l’uno dell’altra. Un luogo colmo di misteri e pericoli che i due giovani conosceranno e affronteranno, rendendosi conto che i pericoli maggiori e i misteri più grandi sono nascosti nel profondo delle loro stesse anime.
Ciò che resta della famiglia Royl, dopo un grave incidente d’auto, sono Menos e il figlio Paride. Durante una vacanza nella loro casa di Castellana, piccolo paese del Lazio, ospiteranno Ecuba e sua figlia Lea, due amiche di famiglia. I due ragazzi, inizialmente un po’ diffidenti, si avvicineranno l’uno all’altra e scopriranno che Castellana nasconde misteri inimmaginabili. Grazie a una magica lanterna avranno accesso a conoscenze inaspettate e da quel momento nulla sarà più come prima. La magia entrerà nella loro vita e con essa misteri, leggende e segreti che li costringeranno a prendere atto che la realtà non è ciò che sembra e il mondo invisibile è tanto concreto quanto quello visibile.
Vincenzo Valenza classe 1968, nasce a Nettuno in provincia di Roma e vive ad Anzio. Lavora da oltre 30 anni come operaio specializzato nel mondo dell’industria privata e nel tempo libero ama leggere e scrivere poesie e racconti. Tra le sue letture preferite ci sono: La Sacra Bibbia, vecchio e nuovo testamento, testi di filosofia orientale e libri della tradizione esoterica. Ha amato moltissimo i libri di Carlos Castaneda, la serie del Signore degli anelli e alcuni libri di Stephen King. Il suo poeta preferito è Kalhil Gibran. Ha autopubblicato due raccolte di poesie. Paride Royl e la lanterna dei sogni perduti è il suo primo romanzo.
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Anteprima del libro
Paride Royl e la Lanterna Dei Sogni Perduti - Vincenzo Valenza
Castellana - 1/07/2018
L’automobile percorreva a tutta velocità l’ultimo tratto del rettilineo prima di affrontare i tornanti che conducevano a Castellana. Per Paride essere o non essere lì, in quel momento, non faceva una gran differenza. Era un ragazzino allampanato e solitario e il fatto di non avere molti amici gli permetteva di concedersi il lusso di passare le vacanze estive in un anonimo paesino del centro Italia. Se lo immaginava pieno di vecchi che trasportavano legname sul dorso di altrettanto vecchi somari e vecchie signore vestite di nero che giravano per le strade scoscese con in testa quelle brocche dalla forma allungata che aveva visto in antiche foto. Sempre che si possano definire antiche delle foto che comunque appartengono a una tecnologia relativamente recente. Già, pensò, chissà quando una cosa la si può considerare antica? Immaginò che dovesse essere piuttosto relativo.
Era assorto nei suoi pensieri, ma il rombo brillante del motore tendeva a distrarlo.
– Puoi rallentare un po’? – chiese, rivolgendosi all’uomo brizzolato che era alla guida del mezzo.
– Non sto correndo. Ho solo una guida un po’… allegrotta.
– Beh, puoi avere una guida – Paride fece il gesto delle virgolette con le mani – un po’ meno allegrotta?
– Va bene, scusa, dimentico sempre che per te non è facile viaggiare in macchina.
– E io non riesco a capire come fai tu a gironzolare in auto con tanta disinvoltura. Eri alla guida. – Alzò la voce, scandendo le parole. – Tu eri alla guida.
L’uomo gli rivolse uno sguardo gelido, ma non replicò, e Paride gli lesse negli occhi che stava tornando a fare i conti con i propri demoni.
Se ne dispiacque, ma non fu in grado di aggiungere altro. L’automobile rallentò, come se la bassa velocità andasse ora di pari passo con il rimuginare interiore dei suoi occupanti. A ogni tornante, un paragrafo della propria vita si svolgeva davanti agli occhi di Paride. Con un lieve disagio, associò le curve scandite dal fruscio della macchina che scostava l’aria davanti ai guardrail al moto ondoso sulla battigia.
Il viaggio proseguì in un’atmosfera piuttosto melanconica. Era davvero il caso di tornare a Castellana? Riaprire di nuovo quella vecchia casa? Dopo tutto quel tempo? Paride non se la ricordava neppure. Non aveva una vera e propria fobia per i viaggi in auto, in fondo quando era successo lui era molto piccolo, ma la sua mente aveva immaginato ogni cosa. In quegli anni, le domande erano state tante e, come in un puzzle, i frammenti di una memoria non sua erano andati a collocarsi nella mente. Forse non poteva ricordare, ma poteva immaginare ciò che era stato. Una volta aveva letto un articolo su di una rivista scientifica in cui si diceva che la mente non distingue tra ciò che fa e ciò che immagina. Vivere o immaginare un evento, per la mente, sarebbe la stessa identica cosa. Per questo le immagini autoprodotte basandosi sui racconti degli altri per lui erano diventate i suoi ricordi. C’era una cosa strana, però: a questi ricordi non poteva associare emozioni, perché non erano i suoi ricordi, lui non c’era in quei momenti, o meglio, non gli era rimasta alcuna consapevolezza di quanto accaduto. Per questo non aveva davvero paura dei viaggi in macchina, ma provava piuttosto un dolore, anch’esso artificiale come i suoi ricordi, dono innaturale della mente invece che del cuore. D’altro canto, non riusciva a concepire come facesse suo padre a non essere rimasto scioccato: lui c’era, ed era alla guida. Non che fosse colpa sua, naturalmente. Era stato un tragico incidente, ma a parte la perdita non sembrava averne risentito, tanto che a volte viaggiava anche troppo veloce, come se niente fosse.
Ecuba e Lea
– Quando arriveranno, papà?
– Saranno qui per l’ora di cena. Abbiamo tutto il tempo per organizzarci. Sei nervoso?
– Un po’ teso, ma più che altro mi sembra un po’ strano, cioè, so che tu e la mamma eravate molto amici di… come si chiamava?
– Ascanio, si chiamava Ascanio, ed era il mio migliore amico. Per noi erano come fratelli, lui ed Ecuba. – Un sorriso malinconico gli incurvò l’angolo della bocca. – Dicevamo di essere fratelli di sangue, come gli indiani d’America.
– Io non me li ricordo – replicò Paride. – Ma tu da quanto non la vedi?
– Praticamente da quel giorno. In questi tredici anni non abbiamo mai smesso di telefonarci o di scambiarci gli auguri in occasione di feste e compleanni. – Esitò. – Non abbiamo mai smesso di volerci bene.
– Scusa, papà, ma lei non ce l’ha mai avuta con te?
– Vedi, Paride, lei c’era. Era lì, con me, con noi tutti. Ha assistito alla scena, sa come sono andate le cose, entrambe le famiglie hanno pagato un prezzo altissimo…
– Okay, papà, scusa se ogni volta ti rifaccio le stesse domande, è che… non capisco.
– So che è difficile comprendere. Ma è andata così, e non possiamo cambiare le cose.
Era venuto il momento di rimboccarsi le maniche. Paride aiutò suo padre a tirare giù i bagagli dalla macchina, consumarono un pasto frugale, e aprirono e pulirono tutta la casa. Le due ospiti non avrebbero avuto nulla da ridire sull’organizzazione e il senso del dovere di due maschiacci soli. Fu dura, C’era così tanto da fare: ripulire bene tutte le stanze, preparare i letti, fare la spesa, pulire il bagno, la cucina e rimettere un po’ a posto il giardino che era pieno di foglie. Con la casa disabitata per tanto tempo, gli insetti si erano dati da fare, le formiche la facevano da padrone, per cui riempirono gli angoli di esche.
Quando tutto fu a posto (o quasi), si concessero una bella doccia e abiti puliti e profumati.
La suoneria del telefono di Menos era un sirtaki. Quando il cellulare squillò, muovendosi un po’ a cerchio e mimando il ballo, Menos rispose.
– Ciao amica mia, a che punto siete?
– Un paio d’ore e saremo lì.
– Ti ricordi la strada?
– Come se ci fossi stata ieri.
– Va bene. Lea come sta?
– Solo un po’ emozionata.
– Okay, allora a fra poco.
– Sì, a fra poco.
La piccola auto blu sfrecciava sulla statale. Attraverso il parabrezza raggi estivi, scaldavano l’abitacolo. La ragazza inforcò un paio di occhiali da sole; la donna al volante si voltò e per un istante si scambiarono un’occhiata affettuosa. Entrambe bionde, Ecuba, era un po’ più scura sia di capelli che di carnagione. Poche piccole rughe intorno agli occhi le davano, com’era solita dire guardandosi allo specchio, il fascino degli anta
. Lea invece era biondissima. Le piccole lentiggini sul naso che usava arricciare ogni tanto per fare la smorfiosa le davano un’aria allegra e sbarazzina.
– Come mai? – Aveva riflettuto bene, prima di fare la domanda. – Dopo tanto tempo…?
– Li incontriamo di nuovo? – completò la frase Ecuba.
– Sì, mi piacerebbe proprio saperlo.
– Siamo state invitate. Sai che in tutti questi anni siamo sempre rimasti in contatto.
– Certo che lo so. È che mi sembra tutto così strano… in fondo per me sono degli sconosciuti, voglio dire, io non li ho mai visti in vita mia, non posso provare affetto nei loro confronti.
– Ti capisco ma io e Menos ci conosciamo bene, le nostre famiglie sono sempre state molto unite.
– Fino a quel giorno…
– No! Anche dopo, solo avevamo bisogno di metabolizzare l’accaduto.
– È stata una tragedia enorme, mamma, ma ci avete comunque messo tantissimo per metabolizzare, non credi?
– La verità è che non sapevamo più cosa fare, come comportarci, soprattutto con voi e nei vostri confronti. Tuoi e di Paride, voglio dire.
– Possibile che tu non l’abbia mai ritenuto responsabile?
– Ero con lui, Lea, e ho visto tutto. La macchina è scivolata su una macchia d’olio ed è finita fuori strada. Avrebbe potuto esserci chiunque alla guida, e sarebbe accaduto lo stesso. Chiunque.
– Va bene, va bene, ho capito… – tagliò corto Lea. Ogni volta che toccava quel tasto, la reazione di sua madre era sempre la stessa.
– Fammi il favore – Ecuba entrò in una piazzola di sosta – passami il telefono, sta nel cassettino.
– Accipicchia, che automobilista modello, ti sei fermata per telefonare.
– Come, parlavi di responsabilità e poi ti meravigli? Non sai quanti incidenti avvengono a causa del cellulare?
Lea si morse la lingua. – Hai ragione, scusa.
Ecuba cercò il numero nella rubrica e pigiò il pulsante.
– Ciao Menos. – Era in viva voce e Lea vide il volto di sua madre rasserenarsi al saluto familiare dell’uomo.
– Ciao amica mia, a che punto siete?
A fra poco…
Al termine della telefonata continuò a ripetere mentalmente quelle tre parole. Per alcuni minuti, la sua mente, assaggiò il vuoto, il nulla. La testa le andava a mille, in un turbinio di pensieri. Erano talmente tanti che non riusciva a metterne a fuoco neanche uno, in quegli attimi, per lei, tutto e niente erano la stessa cosa.
– Paride.
– Sì, papà?
– Vai tu a prendere un po’ di cose?
– Hai