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Fabbricanti d'oro: Storie di alchimisti
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E-book307 pagine4 ore

Fabbricanti d'oro: Storie di alchimisti

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Molti oggi in Italia conoscono i testi di narrativa e saggistica di Gustav Meyrink, soprattutto i primi, stampati innumerevoli volte specie negli ultimi anni, tuttavia in questo accavallarsi di riedizioni era finora sfuggito un singolare volume, Goldmachergeschichten,pubblicato nel 1925. Si tratta di tre storie di tre alchimisti, Laskaris, Sendivogius e Sehfeld, in cui, per la prima e unica volta, Meyrink usa un registro a metà fra la narrazione e la ricostruzione storica, fra cronaca e racconto. Insomma, una storia romanzata che oggi forse si definirebbe docufiction: la vita, le avventure, le fortune e le disgrazie di alcuni alchimisti tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Settecento, cioè un periodo che i lettori non particolarmente edotti della storia dell’ermetismo occidentale potrebbero considerare insolito, abituati forse a immaginarsi gli alchimisti collocati in ambienti e atmosfere medievali.
LinguaItaliano
Data di uscita14 gen 2019
ISBN9788876926334
Fabbricanti d'oro: Storie di alchimisti
Autore

Gustav Meyrink

Gustav Meyrink (Vienna 1868 - Starnberg, Baviera 1932) compie in gioventù ottimi studi ma la sua irrequietezza lo porta a Praga che diventa per lui una seconda patria. Collabora al "Simplicissimus" dove pubblica le sue prime novelle: Orchideen 1904 e Das Wachsfigurenkabinett, 1907. Per una profonda crisi si converte al buddhismo e incomincia a praticare l'occultismo e l'esoterismo. La convinzione che il mondo è assurdo e irreale, le pratiche magiche, le leggende, un'amara satira contro la borghesia, compaiono negli altri suoi romanzi: Der Golem (1915), Das gruene Gesicht (1916), Walpurgisnacht (1917) - pubblicato in questa collana con il titolo La notte di Valpurga - Der weisse Dominikaner (1921), An der Schwelle des Jenseits (1923), Der Engel vom westlichen Fenster (1926).

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    Anteprima del libro

    Fabbricanti d'oro - Gustav Meyrink

    Introduzione

    Alchimisti veri e falsi tra storia e fantasia

    Che Gustav Meyrink si sia seriamente interessato di esoterismo, occultismo, ermetismo, dottrine orientali è noto a tutti, eccetto a quelli che lo negano per principio. Che questa cultura altra abbia giocato un ruolo determinante nella sua narrativa sin quasi dagli inizi è noto a tutti eccetto a quelli che considerano simile caratteristica un elemento negativo in quanto scrittore. Che questa specifica cultura non sia stata solo libresca e teorica, ma sia scesa sul piano pratico, attivo, realizzativo è noto a tutti, eccetto a quelli che lo continuano a considerare, contro ogni evidenza documentaria, un ciarlatano e un imbroglione. Invece, nell’ambito della narrativa dell’Immaginario, Gustav Meyrink occupa un posto particolare soprattutto per questa sua caratteristica di fondo alla quale pochissimi altri si possono appaiare o si avvicinano. E di tali esperienze occulte, da cui trasse spunti per le sue storie, lo scrittore ha parlato in moltissimi articoli pubblicati sulla stampa specializzata ma anche generalista dell’epoca, raccontando anche di episodi privati, di fatti che lo videro protagonista in prima persona.

    Molti oggi in Italia conoscono i suoi testi, di narrativa e saggistica, soprattutto i primi, stampati innumerevoli volte specie negli ultimi anni quando è stato riscoperto il suo nome e l’argomento occultismo, ma in questo accavallarsi spesso convulso di riedizioni (accuratissime e superficiali, molto belle e abborracciate) spinte solo dalla sua riacquistata notorietà era sfuggito sinora alle maglie editoriali un singolare volume, Goldmachergeschichten pubblicato nel 1925, dunque un paio di anni prima del più famoso L’Angelo della finestra d’Occidente, entrambi scritti insieme ad Alfred Schmid Noerr, suo amico e a sua volta romanziere, anche se il nome di quest’ultimo non compare mai in modo esplicito e al quale accenna Vittorio Fincati curatore di questo volume. Sono tre storie in cui, credo per la prima e unica volta, Gustav Meyrink usa un registro a metà fra la narrazione e la ricostruzione storica, fra cronaca e racconto, riempiendo cioè i vuoti di quel che della realtà non si conosce con la sua fantasia e la sua invenzione. Insomma, una storia romanzata che oggi forse si definirebbe docufiction: la vita, le avventure, le fortune e le disgrazie di alcuni alchimisti veri e fasulli tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Settecento, cioè un periodo che i lettori non particolarmente edotti della storia dell’ermetismo occidentale potrebbero considerare insolito, abituati forse a immaginarsi gli alchimisti collocati in ambienti e atmosfere medievali. Eppure, non è affatto così. Anzi…

    Lo scrittore in base alla documentazione, alla quale fa alcune volte riferimento generico tanto per far capire che non inventa proprio tutto (e che Vittorio Fincati precisa ulteriormente nella sua Prefazione), narra le vicende di Laskaris, Sendivogius e Sehfeld, cui sono intitolati i racconti, e molti altri comprimari, e grazie a essi compie una ricostruzione affascinante e molto efficace dei modi e delle maniere, delle abitudini del tempo (in sostanza il XVII-XVIII secolo), non solo delle corti mitteleuropee, ma anche della gente comune, dei commercianti, degli albergatori, dei bottegai, dei farmacisti, della servitù, insomma della mentalità dell’aristocrazia, della borghesia e del popolino, ma soprattutto del modus operandi et cogitandi degli adepti, dei figli di Ermete, veri o falsi che fossero. Ma con quale scopo?

    Gustav Meyrink non ha mai scritto tanto per scrivere, solo per un fine ludico: certe cose le conosceva benissimo e, come si può leggere nel racconto che il curatore di questo libro ha premesso ai tre originali, si cimentò anche nell’alchimia pratica. Sicché la risposta si può trovare in alcune affermazioni che egli inserisce soprattutto in Laskaris, un vero romanzo breve, in cui tra l’altro dice: L’enigmatico greco credeva che mediante l’arbitrario lascito dei doni della sua arte misteriosa poteva tener viva la fede degli uomini in un superiore sapere, e a questo fine sapeva di abusare degli involontari apostoli della sua conoscenza; ma non aveva il merito di trar fuori dai guai coloro che cadevano nella rete di principi avidi di quegli stessi doni, e di farli ritornare alle loro origini, senz’altro più felici. E poi, a commento della trasmutazione dei metalli grazie alla polvere grigia di fronte ad alcune altissime autorità politiche e militari, il 19 luglio 1716, protocollata e firmata, così Meyrink scrive: Anche questa volta l’unica intenzione del misterioso Laskaris fu fornire la semplice prova della possibilità della trasmutabilità degli elementi. Dice infine dopo un colloquio del principe greco con la principessa Maria Sophie von Erbach prima di lasciare la Germania: Anche questa volta l’unica intenzione del misterioso Laskaris fu fornire la semplice prova della possibilità della trasmutabilità degli elementi.

    Dunque, i veri adepti che possiedono la singolare predisposizione di far dono alle persone più comuni della loro tintura (la polvere grigia o rosso brillante) hanno il solo scopo di tener viva la fede degli uomini in un superiore sapere, o più concretamente di fornire la semplice prova della possibilità della trasmutabilità degli elementi agli scettici e agli increduli.

    Alla fin fine, però, a noi sembra che l’intento specifico dello scrittore, al di là del gusto della vicenda misteriosa e della ricostruzione d’ambiente, sia stato quello di far capire al lettore che una cosa è la vera alchimia, quella dei filosofi, un’altra la pseudo o falsa alchimia, quella degli imbonitori, degli imbroglioni, dei soffiatori. La ricerca della tintura, della polvere di proiezione, dell’elixir, della pietra filosofale o dei Saggi era per i secondi, come si potrà leggere nelle tre storie, l’effettivo e concreto tentativo di trasformare i metalli vili o meno (piombo, mercurio, rame, argento) in oro purissimo per arricchirsi o arricchire i loro signori e di conseguenza ricavare onori e prebende, farsi strada nella società aristocratica quando tutto andava bene, ma a rischio di prigione, torture e forca una volta che, esaurita la polvere loro donata o da loro rubata, ovviamente non riuscivano più a riprodurla, non essendo veri adepti. Per questi ultimi, invece, la loro era un’arte disinteressata, qualcosa di totalmente diverso: pur ottenendo la trasmutazione, essa era il derivato accessorio e residuale, e quindi poco importante, di un’operazione di accrescimento spirituale, interiore, che, come effetto secondario, poteva anche condurre alla realizzazione dell’oro filosofale, ma solo allo scopo di beneficare gli altri e non se stessi, non vivendo nel lusso e negli agi o frequentando nobili da cui ricevere benefici. Era la prova che esisteva una realtà superiore. Ma nessuno lo capiva, popolo, borghesi o potenti, e tutti pensavano solo ad arricchirsi o a riempire le casse vuote dello Stato nel modo più facile e immediato. Senza alcuna eccezione. Ecco il motivo per cui donavano a persone di solito ignare e spesso sprovvedute, poi preda della cupidigia, un po’ della loro tintura, quasi a volerle mettere alla prova nel momento in cui quella poca polvere grigia o rossa inevitabilmente si esauriva… Come avrebbero reagito? Che strada avrebbero preso? Avrebbero capito l’insegnamento simbolico di quel dono apparentemente senza motivo?

    Nelle minuziose ricostruzioni d’ambiente e di caratteri emerge sempre la figura del principe, dell’imperatore, del conte, del duca che cercano disperatamente un fabbricante d’oro al solo scopo di rimpinguare le proprie finanze esauste nella maniera più efficace: Tuttavia il defunto monarca non era l’unico principe che tentava di risollevarsi dagli affanni dell’esistenza con l’aiuto del crogiolo, nota ironicamente Meyrink riferendosi all’imperatore Leopoldo in Laskaris. Essendo peraltro questa la narrazione più lunga e complessa delle tre, consente all’autore di dispiegare la propria inventiva e di raccontare una serie di vicende parallele o intrecciate fra loro, il cui filo conduttore è l’adepto greco, alternando anche storie singole d’amore e d’arrivismo, di sacrificio e tradimento, di vendette e riscatto, con minuziose descrizioni di vita di corte (si pensi al gran ballo in maschera a Dresda, non privo di riferimenti simbolici), intrighi e ragion di Stato.

    Ed ecco perché – a molti sembrerà singolare – durante il Sei-Settecento tutti costoro nei loro castelli, nelle loro regge, avevano a servizio un alchimista o almeno un chimico di corte con attrezzatissimo laboratorio che s’ingegnava notte e giorno a trovare l’agognata tintura e procacciare così l’oro a buon mercato. E se non proprio la trasmutazione dei metalli vili in preziosi, almeno invenzioni e scoperte che portassero introiti alle casse dello Stato (vedi la porcellana di Meissen). È alla fine l’avidità che li perde inesorabilmente, aristocratici e pseudo adepti.

    Michael Sendivogius (1566-1636), il misterioso greco Laskaris e Johann Friedrich Böttger, che Meyrink chiama Bötticher (1682-1719) e Sehfeld (metà del Settecento), protagonisti delle tre storie, così come i loro comprimari, ad esempio Alexander Setonius detto il Cosmopolita (morto nel 1603) o l’italiano don Caetano, sono tutti personaggi veri che servono all’autore per descrivere sempre la stessa parabola in diverse forme: quella di chi riesce a fabbricare l’oro per suo personale impegno o per una casualità, credendo nell’Arte Regia o carpendone il segreto ad altri, e chi poi cade nelle grinfie dei potenti di turno per essere usato al proprio servigio e utilità. Se ne sottraggono con fughe rocambolesche, se non con la morte, e solo alla fine comprendono, ma non sempre, quale sia la vera via dell’ermetismo.

    I veri adepti, come narrano la storia e la leggenda, si presentano sempre giovani, compaiono all’improvviso dal nulla per poi scomparire altrettanto misteriosamente lasciando dietro di sé come unica traccia i prodigi che riescono veramente a compiere e doni disinteressati per mettere alla prova i beneficati. I falsi maestri, gli imbroglioni vanitosi, i chimici prestidigitatori, i volgari soffiatori, finiscono assai malamente, e solo qualche volta comprendono i loro sbagli e si pentono cambiando strada.

    Il lettore potrebbe rimanere sconcertato dalle intemerate contro l’alchimia che Meyrink mette in bocca al farmacista maestro Zorn, allo sfortunato dottor Pasch e che emergono dalla pergamena di Thomas Garzon, che in sostanza la condannano senza attenuanti e sempre per gli identici motivi. Ma – attenzione – qui ci si riferisce sempre alla falsa alchimia, perché la storia più complessa e variegata qui presente, appunto quella di Laskaris, si conclude con una operazione alchemica che soltanto per la distrazione e imprudenza di un discepolo ancorché non giovane non va a buon fine. Meyrink descrive in modo mirabile l’Opus: in ciò che avviene nel matraccio sotto gli occhi di Laskaris, Ignazio e Antonio, la vera e propria nascita di un piccolo mondo nell’uovo alchemico, sembra di veder scorrere le immagini dello Splendor Solis, quasi che lo scrittore stesso abbia assistito a una operazione del genere.

    Gustav Meyrink non è mai stato tanto chiaro in merito come in questo suo libro. E in ciò che avvenne nel laboratorio di un vero adepto.

    Gianfranco de Turris

    Prefazione

    Nei tre racconti qui tradotti per la prima volta in italiano, Gustav Meyrink ha trattato diversi personaggi realmente esistiti, deformandone per esigenze narrative, in parte, le caratteristiche e le stesse vicende storiche.

    Nel racconto sull’enigmatico Sendivogius, Meyrink si riferisce come Alexander Setonius all’alchimista scozzese Alexander Seton detto il Cosmopolita¹, morto nel 1603 e il cui nome d’arte sarebbe stato usurpato dal polacco Michael Sendivogius (1566-1636), che lo avrebbe conosciuto a Dresda e aiutato a evadere di prigione. Alla morte di Seton il Sendivogius si sarebbe appropriato degli scritti dell’alchimista inglese, dandoli alle stampe con lo stesso pseudonimo e apponendovi il titolo di Nuovo Lume Chimico. Questa almeno è l’opinione dello storico di filosofia ermetica Lenglet du Fresnoy. Secondo altri scrittori di storia dell’alchimia il Sendivogius pare avesse raccolto o usurpato le conoscenze non di Seton ma di un altro alchimista britannico, quell’Edward Kelley (1555-1597) che sarà reso celebre dallo stesso Meyrink nel romanzo L’angelo della finestra d’occidente. Non si può escludere che entrambe le ipotesi siano vere, dato che il polacco conobbe Dee e Kelly a Cracovia e poi acquistò delle terre dalla vedova di Kelly. Sendivogius (latinizzazione del suo nome polacco, Michal Sedziwoj) viaggiò in tutta Europa e allacciò contatti con gli alchimisti più noti del suo tempo. Svolse anche attività diplomatica a favore di diversi regnanti e gli viene attribuita una importante intuizione in materia di chimica volgare: l’esistenza dell’ossigeno. Gli vengono attribuiti una dozzina di libri di alchimia ma, come per molti alchimisti, la sua vita è tutt’altro che chiara. La pubblicazione della sua copiosa corrispondenza potrebbe forse aiutare a dipanare il mistero che lo riguarda. Sta di fatto che godette di così tanto credito come autentico alchimista, che l’imperatore Rodolfo II gli dedicò una targa con la scritta in latino Provi qualcun altro a fare ciò che ha fatto il polacco Sendivogius (Faciat hoc quisquam alius, quod fecit Sendivogius Polonus).

    La storia riferita da Meyrink verte principalmente sulla disavventura che l’alchimista ebbe a subire nel 1605, nel Württemberg, sotto il governo del conte Federico I.

    Il protagonista principale della seconda storia, Laskaris, è il diciannovenne Johann Friedrich Bötticher che in realtà si chiamava Johann Friedrich Böttger (1682-1719), nativo di Schleiz, aiutante del farmacista berlinese Zorn. Questo giovane si vantò ben presto di poter ottenere la Goldmachertinktur, la sostanza capace di trasformare i metalli in oro e di operare altre meraviglie. Nella farmacia di Zorn infatti vi sostarono alcuni alchimisti, tra cui il Laskaris, misteriosa figura di itinerante, proveniente da un’isola greca dell’Egeo, dove svolgeva l’incarico di Archimandrita (vale a dire rettore di monastero). Questo Laskaris era ritenuto da molti un vero adepto in grado di produrre la polvere di proiezione e distribuirla (in piccole parti) a molti personaggi.

    Böttger destò così l’interesse del re di Prussia Federico I Hohenzollern (1657-1713) che lo fece ricercare. Riuscito a fuggire a Wittenberg in Sassonia, venne però arrestato dal sovrano di quel paese, Federico-Augusto I, che fu anche re di Polonia col nome di Augusto II (1670-1733), e fu detenuto a Dresda.

    In prigione gli fu messo a disposizione un laboratorio nella speranza che riuscisse a produrre l’oro. Col tempo la sua prigionia si trasformò in una reclusione dorata, da cui riuscì per breve tempo anche a fuggire. Catturato, fu sorvegliato strettamente. Intanto non era riuscito a produrre alcunché, per cui il re decise di fargli provare a realizzare della porcellana, che all’epoca aveva un valore venale non troppo distante da quello del prezioso metallo e che veniva importata dalla Cina e dal Giappone a prezzi altissimi. In ciò si avvalse della supervisione dello scienziato Ehrenfried Walther von Tschirnhaus (1651-1708) e di una vera e propria squadra di ricercatori appositamente formata. In realtà il vero inventore della porcellana fu proprio lo Tschirnhaus, che già avrebbe mostrato nel 1704 una sua porcellana rossa al segretario di Leibniz, ma a cui il re non aveva dato in un primo tempo fiducia. Nel 1707 Böttger accettò di lavorare con lo Tschirnhaus, al quale infine il sovrano aveva concesso di avviare una fabbrica per la produzione della porcellana bianca con l’uso del caolino. La sua morte improvvisa permise però a Böttger di spacciare se stesso per il vero inventore, accollandosi così le prebende che il re aveva concesso. Poco dopo la morte dello scienziato si era infatti introdotto nella sua abitazione rubando le carte e le ricette di Tschirnhaus, con la complicità di altre persone. Nacquero così le famose porcellane di Sassonia o di Meissen, dalla città dove venivano prodotte.

    Böttger non poté godersi la fama e la ricchezza poiché morì anch’egli a soli trentasette anni, sopraffatto dallo stress di una vita passata nella continua minaccia di venire giustiziato. Da notare che fu anche l’inventore di un nuovo metodo per la produzione di vetro rosso rubino (detto vetro cranberry), lo stesso di cui parla Meyrink nel Prologo che abbiamo preposto a queste storie. Lo scrittore viennese si discosta alquanto dagli eventi storici, anche per quanto riguarda il Laskaris, del quale, peraltro, ben poco si conosce.

    Un protagonista secondario del racconto è l’italiano don Caetano, al secolo Domenico Manuel Caetano (1670-1709), sedicente conte di Ruggiero. Si trattò di un ciarlatano e impostore che si vantava di possedere la Pietra Filosofale. Pare che l’adepto Laskaris gli avesse dato – secondo quanto riporta lo Schmieder nella sua Storia dell’Alchimia – una piccola porzione di polvere di proiezione, che però dilapidò in effimere dimostrazioni alchemiche, per cui dovette in seguito improvvisare trucchi. Era abile nel far finta di produrre oro, che in realtà nascondeva e faceva apparire poi come oro di coppella. Scoperto nella sua fraudolenta attività dovette fuggire da Napoli nel 1695 per rifugiarsi a Venezia. Scappava da ogni città europea dove riusciva a far quattrini ingannando nobili e potenti. Ebbe a che fare con monarchi, papi e cardinali, con ognuno dei quali era un continuo di inganni, dissimulazioni, fughe, arresti e incarcerazioni. Resta incredibile come facesse a turlupinare così tante persone, che non erano comuni cittadini, bensì alte autorità civili e religiose, inclusi gli stessi alchimisti di corte che avevano il compito di garantire della riuscita delle sue operazioni chimiche. Indubbiamente era un chimico abile ed esperto, poiché riusciva facilmente a dissimulare il rame come se fosse stato oro. Pare che fosse anche un discreto pittore e usò questa sua capacità artistica per blandire le sue vittime quando queste si spazientivano per la mancata produzione di oro in quantità. La tecnica del Caetano consisteva nel farsi provvedere di lauti anticipi di denaro – asseritamente per procurarsi tutto quanto occorreva alla produzione su vasta scala dell’oro –, dopodiché fuggiva. L’ultima avventura la ebbe con il re di Prussia Federico I che, dopo avergli dato ampia fiducia ed esserne stato ricambiato da più di una fuga, lo fece finalmente impiccare, vestito in abiti dorati e appeso a un cappio indorato. L’illustrazione che noi riportiamo più avanti riproduce una antica incisione germanica, che mostra come i viaggiatori che si recavano nella città di Küstrin potessero ammirare da lontano non solo la località ma anche la forca a cui era appeso il corpo dell’italiano.

    Il Sehfeld dell’ultimo racconto è anch’esso un personaggio storico, un alchimista che verso il 1745 si stabilì nella località termale di Rodaun, presso Vienna, nella locanda della famiglia Friedrich. Arrestato da Maria Teresa d’Austria riuscì a far perdere le sue tracce come narrato correttamente nel racconto, che si basa su quanto scrisse lo Schmieder nel 1832 nella sua Storia dell’Alchimia, e su altri resoconti. Pare che molti anni dopo la famiglia Friedrich conservasse ancora parte della misteriosa polvere (un pigmento) col quale il Sehfeld pretendeva di trasmutare i metalli vili in oro. Si trattava di un carbonato di rame, l’azzurrite, un minerale noto nell’antichità come pietra armena, reperibile un po’ dappertutto nel mondo, anche in Germania e Austria. Di Sehfeld si ebbe qualche notizia dal nord Europa, ma nulla di certo. Suo nemico personale fu Gerard von Swieten (1700-1772), famoso scrittore di un’opera che confutava l’esistenza dei vampiri e acerrimo avversario di ogni ciarlatano. In una strada del distretto viennese di Liesing (Ketzergasse, 372) c’è una moderna scultura a parete che raffigura l’alchimista Sehfeld, riprodotta in questo libro.

    §§§

    L’autore di Fabbricanti d’oro – nel titolo originale Storie di Facitori d’Oro (Goldmachergeschichten) nacque nel 1868 a Vienna, dalla relazione adulterina del ministro della Baviera Karl von Varnbüler con una nota attrice, Marie Meyer (1840-1908). Poiché il padre non lo volle riconoscere, prese all’anagrafe il cognome della madre (il certificato di nascita parla però di Gustav Berg, dal cognome del marito acquisito dell’attrice), salvo poi assumere il nom de plume Meyrink allorché si accinse a scrivere. I rapporti con un padre sconosciuto e una madre che lo considerava un semplice inciampo influirono profondamente sul carattere dello scrittore, fatto che si nota marcatamente in un personaggio del suo primo romanzo, Il Golem, ma anche nel protagonista de Il Domenicano Bianco e più in generale nella figura di tutti i suoi protagonisti, apparentemente privi di una famiglia. Inizialmente la sua vita prese una direzione borghese, forse grazie all’appoggio finanziario nascosto del vero padre ma, in seguito a una drammatica disavventura che gli danneggiò suo malgrado la reputazione, cominciò a scrivere prima dei brevi racconti antiborghesi e in seguito dei romanzi fantastici, esoterici, macabro-grotteschi, con i quali si mantenne. Il primo romanzo specialmente gli valse un grandissimo successo. L’impulso a scrivere gli venne dall’incoraggiamento di un conoscente che lo spronò a mettere per iscritto le sue esperienze, sia umane che esoteriche. Partecipò attivamente a molti gruppi esoterici e fece pratiche personali. Nel primo ambito ricavò esperienze del tutto negative – tranne, secondo lui, la conoscenza del famoso Bô Yin Râ – mentre nel secondo caso continuò per tutta la vita i suoi esercizi di yoga. Ciò che però fu il suo vero motivo conduttore fu la sua notevole capacità visionaria e onirica, che seppe trasfondere in tutto quanto scriveva. Problemi di salute (nonché qualche pratica occulta azzardata) presero ben preso a tormentarlo, tanto che dovette ricorrere all’aiuto di un altro scrittore, suo amico e vicino di casa, Friedrich Alfred Schmid Noerr (1877-1969). Quest’ultimo è stato un apprezzato romanziere che ha narrato spesso e volentieri della mitologia e del folklore delle regioni meridionali della Germania, il Baden-Württemberg, la Svevia e la Baviera, cui era affezionato. Si interessò anche di esoterismo, conobbe Steiner ma, alla fine, i suoi interessi si orientarono verso una forma di misticismo cristiano visto come sublimazione ed elevazione dello spirito germanico.

    Il risultato di questa collaborazione, per la quale Meyrink saldò privatamente le spettanze d’autore, furono, oltre al presente testo², il romanzo L’angelo della finestra d’Occidente, un racconto sulla vita dell’alchimista inglese John Dee³, e la stesura di alcune trame di film rimaste inedite. Meyrink stesso aveva fama di alchimista, stando a quanto scrisse colui che illustrò il suo romanzo più famoso, Il Golem: Vi si credeva un facitore d’oro, un alchimista, iniziato a dottrine segrete...⁴.

    Meyrink fu un uomo che soffrì molto la mancanza di affetto dei genitori; questo affetto lo trasfuse tutto nel figlio Harro e, quando quest’ultimo si suicidò, ne rimase talmente ferito che perse ogni voglia di vivere, lasciandosi morire di malattia quello stesso anno, il 1932. Lasciò incompiuto un ultimo racconto, La casa dell’alchimista. In Italia, dopo la traduzione di Il Golem e La faccia verde, fu fatto conoscere con maggiore ampiezza al grande pubblico da Julius Evola, che tradusse Il Domenicano Bianco, La Notte di Valpurga e L’angelo della finestra d’Occidente. I suoi dati biografici e bibliografici, nei particolari, sono notissimi e pertanto non ci dilungheremo in questa sede nell’esaminarli.

    Il Prologo di Meyrink, da noi premesso a questi tre racconti, fu pubblicato originariamente sul numero 42 della rivista Die Norag del 21-27 ottobre 1928 con il titolo Wie Ich in Prag Gold Machen Wollte. I tre racconti di alchimisti – rispettivamente Laskaris (der Mönk Laskaris), Sendivogius (Die Abenteuer des Polen Sendivogius) e Sehfeld (Der Seltsame Gast) – furono pubblicati in prima edizione a cura dell’editore berlinese August Scherl, nel 1925. Rispetto all’edizione originaria abbiamo disposto i racconti seguendo la rispettiva sequenza cronologica.

    Un ringraziamento a Silvano Lorenzoni per la collaborazione nella traduzione dal tedesco di Die Abenteuer des Polen Sendivogius, e uno particolare a Gianfranco de Turris per la fattiva assistenza prestata.

    Vittorio Fincati


    ¹ Un testo a lui attribuito, intitolato Operazione filosofica. L’alchimia segreta dei Filosofi Incogniti rivelata dai manoscritti, curato da Alessandro Boella e Antonella Galli, è stato pubblicato dalle Edizioni Mediterranee nel 2016.

    ² Frans Smit, Gustav Meyrink, Auf der Suche nach dem Übersinnlichen, München, 1988, p. 243-245.

    ³ Ampie notizie su Schmid Noerr, i suoi rapporti con Meyrink e la genesi del romanzo su John Dee il lettore le può trovare nel libro della germanista Margherita Cottone, Esoterismo e Ragione, Palermo, 1983. Una foto di Schmid Noerr è al termine di questa Prefazione.

    ⁴ Hugo Steiner-Prag (lettera a Meyrink, settembre 1931).

    Friedrich Alfred Schmid Noerr

    Fabbricanti d’oro

    "Quando ero ancora un giovanotto e con ardente zelo

    riesumavo tutto quello che si poteva leggere sui segreti della magia e dello yoga, entrai a far parte di dozzine

    di confraternite, prestando giuramenti da far venir

    la pelle d’oca; giuramenti sul silenzio di cose che già allora mi pareva dovessero essere di pubblico dominio. Infine mi rifiutai di farmi iniziare a tali terribili segreti, con la sgradevole sensazione che alla fin fine avrei dovuto tener segreto che due più due fa quattro!"¹


    ¹ Frans Smit, Gustav Meyrink, Auf der Suche nach dem Übersinnlichen, München, 1988.

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