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Codice Botticelli
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E-book329 pagine3 ore

Codice Botticelli

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Bestseller in Francia

Un grande thriller storico

Quale segreto si cela nel Voynich, il libro più misterioso del mondo?

Firenze, 7 febbraio 1497.
Il grande predicatore Girolamo Savonarola sguinzaglia per le strade della città bande di bambini per confiscare al popolo quegli oggetti che richiamano il lusso e il piacere. Nell’esaltazione religiosa del pentimento, tutto ciò che non è santo deve essere distrutto perché considerato peccaminoso. È ciò che passerà alla storia come il più famoso “falò delle vanità”. Sandro Botticelli contempla le ceneri del rogo quando Leonardo Da Vinci, suo grande amico, di ritorno da un lungo viaggio, lo informa della morte della madre Caterina. La donna gli ha lasciato in eredità una lettera segreta, indirizzata a entrambi. I due artisti, curiosi di decifrare il messaggio contenuto nello scritto e desiderosi di fuggire dal caos che regna in città, lasciano Firenze. È l’inizio di un’avventura che li porterà sulla strada del famoso Voynich, il libro più misterioso del mondo…

Un thriller intrigante ambientato nel Rinascimento 

Botticelli e Leonardo sono i protagonisti di un’avventura straordinaria
Riusciranno a svelare il mistero del libro più famoso della storia?

«Una città magica, Firenze, fa da sfondo a un romanzo pieno di suspense.» 

«Un viaggio tra i tanti personaggi del Rinascimento. Emozionante fino alla fine.»

«Lo consiglio a tutti gli amanti di thriller storici.»
Agnès Michaux
È una scrittrice e traduttrice francese molto nota nel suo Paese. Per dieci anni è stata giornalista di Canal+, lavorando tra le tante trasmissioni a uno show settimanale sul cinema d’autore. In seguito ha realizzato due documentari su Stanley Kubrick e Terrence Malick. Codice Botticelli ha riscosso un notevole successo in Francia.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2017
ISBN9788822706867
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    Anteprima del libro

    Codice Botticelli - Agnès Michaux

    1623

    Titolo originale: Codex Botticelli

    Pubblicato per la prima volta in francese da Belfond, un département de Place des Editeurs

    Copyright © Belfond, un département de Place des Editeurs, 2015

    Traduzione dal francese di Federica Romanò

    Prima edizione ebook: giugno 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0686-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Agnès Michaux

    Codice Botticelli

    Indice

    1. Gli Invisibili

    2. L’esercito degli angeli

    3. Nella bottega della via Nuova

    4. Al falò delle vanità

    5. Gli occhi di Leonardo

    6. Et nox facta est

    7. Il professore dei segreti

    8. Il sogno di Sandro

    9. Il saggio di Careggi

    10. De Profundis

    11. Il Frate

    12. La notte di Bologna

    13. Asinus merdaceus

    14. L’apparizione

    15. L’abbandonata

    16. Roma obscura

    17. Malleus Maleficarum

    18. La catena d’oro

    19. Ex Oriente Lux

    20. Della natura

    21. Il cavaliere livido

    22. Il piano

    23. La lettera di Michelangelo

    24. La strada che portava a Roma

    25. Venere vincitrice

    26. Il segreto della Primavera

    27. Un principe

    28. Il traditore

    32. Il servo inutile

    29. Ciò che è in basso

    30. Il compleanno di Platone

    31. Il codice

    33. Illeggibile

    34. Il re e il monaco

    35. Lacrime e sangue

    36. Tutto ciò che è nascosto apparirà

    37. Aurora consurgens

    38. La morte del Frate

    39. La morte di una rosa

    40. Coda

    Epilogo

    La pagina in cui l’autore ringrazia…

    p class=spazio>

    L’estratto dal libro di Lucrezio De rerum natura è tratto dall’edizione La natura delle cose. De rerum natura, traduzione di Francesco Vizioli, Newton Compton editori, Roma 2000.

    Quello dal libro di Petrarca De vita solitaria è tratto dal Volgarizzamento inedito del xv secolo tratto da un codice dell’Ambrosiana dal dott. Antonio Ceruti, Gaetano Romagnoli, Bologna 1879

    …e quindi uscimmo a riveder le stelle.

    Dante, Inferno, xxxiv, 139

    1

    Gli Invisibili

    Nella vasta sala sotterranea, il Maestro sospese una rosa al di sopra del tavolo e invitò i suoi amici a sedersi accanto a lui. Uno dopo l’altro, ripeterono: «Sub rosa» e chinarono il capo in silenzio. Quindi il Maestro proferì tre volte le parole che Marta aveva detto a Maria prima della resurrezione di Lazzaro: «Magister adest et vocat te». Il Maestro è qui e ti chiama. Tre volte la sua voce riecheggiò contro le volte, disperdendo l’ombra dei secoli per ritrovare la luce.

    Erano nove. Nove uomini che si erano giurati fedeltà assoluta e proteggevano con zelo i loro segreti.

    Nove uomini onorevoli che chiamavano se stessi gli Invisibili e formavano una confraternita occulta, la cui origine risaliva ai tempi più remoti.

    Chi credeva di sapere, sosteneva che possedevano la pietra filosofale, l’elisir della vita, l’arte dell’ubiquità, il potere di comunicare direttamente con l’altro mondo. Loro si accontentavano di vivere con impeccabile prudenza. Non vi è niente di nascosto che un giorno non sarà scoperto: ecco l’idea che li univa. E così si adoperavano per l’avvento di quel tempo in cui l’essere umano, divenuto prodigio d’amore, avrebbe potuto accogliere in sé tutta la conoscenza. La fine dell’umanità disordinata, la sconfitta del Male. Fra duemila anni, nel momento promesso per il compimento. Quando l’umanità avesse afferrato la mano tesagli dal Male.

    Vegliavano, non facevano altro. Con costanza e pacatezza. Proteggevano libri, in una tradizione risalente al re d’Egitto Ozymandias e alla sua favolosa biblioteca, sul cui frontone era incisa la commovente iscrizione: tesoro dei rimedi dell’anima.

    Ciononostante, lo scopo degli Invisibili non era mai stato quello di edificare una mostruosa Babele.

    Nella biblioteca segreta, gli scaffali non salivano fino al cielo. Il libro non schiacciava l’uomo ma, collocato alla sua altezza, lo invitava a tendere la mano.

    La biblioteca degli Invisibili si trovava a Firenze, ma un domani si sarebbe recata ovunque la Storia umana avesse deciso di fare un passo avanti. Da quel cuore fiorentino, un manipolo di uomini di buona volontà cercava in tutto il mondo manoscritti da proteggere. Erano viaggiatori insospettabili, al contrario di Poggio Bracciolini e altri avventurieri del libro raro.

    Poiché l’epoca aveva ceduto alla follia del libro. Possedere una bella biblioteca era una maniera di distinguersi, di sfoggiare la propria ricchezza o il proprio potere, più che l’espressione di un amore per l’erudizione o la lettura. I libri, oggetti di lusso, finivano per morire su qualche scaffale o prezioso leggio, in attesa, nel migliore dei casi, di essere vagamente sfogliati. Si apprezzava la calligrafia, l’ornamento, la raffinatezza della copertina, ma il contenuto era irrilevante. Quanti volumi si vedevano, decorati con miniature eccessive, con rilegature sfarzose, ma copiati frettolosamente, pieni di errori, controsensi e dimenticanze!

    Il Maestro cercava di indicare con chiarezza la direzione da seguire, ponendo l’equilibrio al di sopra di ogni virtù: non negare il Male, ma cercare di riconoscerlo per non diventare suoi schiavi inconsapevoli. Non mancava mai di ricordare, nonostante fosse un’evidenza, che la mania dei libri era una passione pericolosa, estranea alla sete di conoscenza e, anzi, a essa nociva.

    Questa mania, di cui erano preda tutti i potenti d’Oriente e d’Occidente, aveva generato un esercito di mercenari che andava a caccia di manoscritti come altri di lepri o di oro, con l’ossessione della nuova preda o del nuovo filone. Essi saccheggiavano i monasteri più inaccessibili, non per il bene di tutti ma per il capriccio di pochi. Così Poggio Bracciolini dissotterrò alcuni tesori presso i placidi monaci di San Gallo e tornò vantandosi di aver scovato, in una sorta di segreta «dove non si sarebbero rinchiusi neanche dei condannati a morte», un esemplare completo di Quintiliano, indignandosi al contempo della barbarie di quei monaci. «Sappiate che qui i libri non sono affatto custoditi con la premura che si addice al loro valore. Giacciono in una segreta immonda e tenebrosa, tutto in fondo a una torre; è un luogo dove non si oserebbe rinchiudere nemmeno un criminale; sono certo che basterebbe visitare questi ergastoli in cui i Barbari di qui gettano i loro prigionieri per ritrovarvi ancora in vita più d’un uomo illustre di cui i nostri eruditi hanno da tempo pronunciato l’orazione funebre». Un’indignazione lodevole, certo, sebbene sempre proporzionata alle risorse che gli procuravano i suoi ricchi committenti, prìncipi o cardinali. Poi esplorò l’abbazia di Fulda, quella di Monte Cassino, di Cluny e tante altre ancora. Acquistò una casa grazie a un Tito Livio tradotto di suo pugno. Negli ultimi anni della sua esistenza, sommerso dalle scartoffie, si dedicò a redigere un trattato sull’Infelicità umana, e una Storia di Firenze. Ma ciò che aveva ricercato per tutta la vita, e che aveva a portata di mano nella città dove si spense nel 1459, non lo scoprì mai.

    Un libro errante, orfano fragile e in costante pericolo. Gli Invisibili sapevano che il libro era a Firenze, ma nessuno era riuscito a scovarlo. L’ultimo uomo che lo aveva tenuto fra le mani lo aveva protetto così bene che non se ne trovava traccia. Un libro agognato anche da anime spietate. Un libro senza titolo, chiamato da alcuni semina virtutum, o anche semina humanitatis o, dagli amanti dei misteri privi di gioia, Liber secretorum secretissimus. Un libro invisibile che il Maestro chiamava semplicemente il Libro.

    Da dove proveniva? Chi l’aveva scritto? E soprattutto, che cosa conteneva? Secondo l’oscura diceria, vi si trovavano raccolti tutti i segreti del mondo e dell’universo, e chi lo avesse posseduto e decifrato avrebbe regnato su un tempo senza passato né futuro. Il Maestro, da uomo indifferente al segreto, non spingeva la sua immaginazione così lontano. Per lui, era solo una questione di legame. Ed era forse la questione più importante: la catena ininterrotta della conoscenza umana. Quel libro poteva essere uno dei primi anelli, l’anello più vicino al cielo. Ma in un certo senso non lo sperava, come se, volendo sollevare troppo il velo, si rischiasse di perdere la vista. Il Maestro non aveva orgoglio e accettava il mistero serenamente.

    Era sempre stata una lotta ardua, proteggere la conoscenza da coloro che la bruciavano, la mutilavano o la falsificavano nel nome del bene superiore dell’uomo e della verità. Gli Invisibili osservavano così giorni di lutto, come il triste anniversario dell’incendio della biblioteca dell’Accademia delle scienze di Costantinopoli, istigato dalla superstizione del basileus Leone iii, in cui erano andati in fumo più di trentamila volumi, molti dei quali erano esemplari unici. Cosa non si era visto compiere da quegli uomini di Dio ottusi che, per disprezzo o indifferenza, avevano distrutto per secoli manoscritti profani, usandone le pagine per coprire barattoli di confettura, e avevano lasciato marcire magnifiche biblioteche! Quanti preziosi manoscritti erano stati mutilati da frati che, per qualche soldo, scribacchiavano su pergamene dal valore inestimabile scialbi salteri destinati ai bambini o vi ritagliavano amuleti da vendere alle donne! Allora, loro c’erano. Invisibili, consapevoli, retti e luminosi. Presenti, dalla notte dei tempi, per salvaguardare e trasmettere. Con una fedeltà rigorosa, lavorando senza sosta.

    C’erano.

    Contro l’ignoranza.

    Contro la menzogna.

    Contro il dogma.

    Contro i mutilatori del pensiero.

    Contro i divoratori dello spirito e del suo più bel nettare.

    2

    L’esercito degli angeli

    Bernardino ignorava sua madre, che lo fissava con insistenza. Il bambino si sentiva i suoi occhi piantati addosso e immaginava le parole di rimprovero che lei non riusciva a dirgli. È che sua madre pensava fosse piccolo, ma lui non era d’accordo. Non avrebbe forse compiuto sette anni, quell’autunno?

    Infilò il camice, si sistemò sul capo una corona d’ulivo, poi si voltò verso la donna, che abbozzò un sorriso con una lacrima all’angolo dell’occhio. Lui la squadrò senza dolcezza.

    «Datemi la treccia».

    «Bernardino, piccolo mio, che cosa dici?»

    «Datemi la vostra treccia. E i gioielli, datemi anche quelli».

    Sua madre non reagì. Nell’occhio, la lacrima s’ingrossava.

    «Sto aspettando».

    La donna sfilò una dopo l’altra le forcine perlate che fissavano alla sua chioma la pesante treccia posticcia con cui amava incorniciarsi il viso. Poi la porse al figlioletto.

    «I gioielli».

    Com’era dura quella voce! Possibile che appartenesse al bambino il cui canto riecheggiava, serafico e pieno di grazia, nel coro di santa Annunziata? Il canto di suo figlio, che la riempiva d’orgoglio e innalzava il suo cuore fino al cielo. Fece un passo avanti per baciarlo.

    «No, madre. I vostri gioielli».

    Lei s’inginocchiò e il bambino si avvicinò per sganciarle la collana che le pendeva al collo. Poi strappò le piccole perle ricamate sul colletto del suo abito. Dopo aver finito, le disse in tono amorevole:

    «Che siate benedetta, dolce donna».

    Ficcandosi il bottino sotto il camice, Bernardino s’impadronì della piccola croce rossa che aveva poggiato sul cassone nuziale, con una smorfia di disgusto in viso. La vanità degli adulti era deplorevole. Sua madre, che appena il giorno prima gli aveva promesso una modestia irreprensibile, l’indomani aveva già abbandonato la retta via. Donna incorreggibile! Si allontanò senza voltarsi.

    Quando la giovane donna richiuse la porta, la lacrima le rigò il viso. Una perla che il figlio le aveva strappato dal cuore.

    Quel giorno, il 7 febbraio del 1497, era martedì grasso. Da tre anni Firenze faceva penitenza e seguiva Savonarola in mezzo alle lacrime. Bernardino non si ricordava d’altro poiché, quando i Medici erano stati costretti all’esilio, lui sprofondava ancora il naso nel seno caldo e zuccherino della madre. L’altro volto della sua città natale, quello in cui si erano mescolati il diletto intellettuale e una smodata voluttà materiale, lo ignorava completamente. La Firenze d’allora, miscuglio fertile e pericoloso di vizio, crimine, bellezza, raffinatezza, intrigo, oscenità e intelligenza, era stata un inedito Olimpo in cui si era creduto di poter far accomodare il Cristo sulle ginocchia di Zeus e il cui artefice, quel Lorenzo detto Magnifico, passava senza scomporsi dalle sentenze di morte alla delicatezza di una poesia tutta platonica.

    Savonarola, al contrario del suo piccolo soldato, aveva conosciuto quel tempo alla perfezione. Non lo aveva mai tollerato. Vi aveva visto solo il male. Il frate domenicano aveva dunque atteso il suo momento, preparando le anime a spazzare via quella putrida Babilonia per erigere una nuova Gerusalemme. L’invasione francese giunse come la conferma di ciò che le sue prediche avevano furiosamente annunciato. I Medici furono cacciati, Carlo viii lo scelse come interlocutore, e a Firenze tutto cambiò.

    Bernardino non aveva l’età per le finezze teologiche. Ma, seppure non cogliesse sempre il significato delle parole pronunciate dal frate dall’alto del suo pulpito, capiva che alcune cose erano cattive, che il lusso e la civetteria erano peccati gravi, e che le donne non potevano farsi vedere nude, né in vita né sui quadri, perché era un’offesa alla più bella fra tutte, la più dolce, la migliore delle madri, la madre di tutti, la bella Madonna con il casto abito rosso, dallo sguardo umile e dolce.

    Fuori, piovevano fiori. Mani devote li lanciavano allegramente in aria dalle finestre fra cui erano tesi gli arazzi. La gente si affrettava a uscire di casa per raggiungere il corteo di bambini lungo le strade trasformate in letti di petali. A Bernardino parve che Firenze assomigliasse al paradiso.

    «Bedino! Bedino!».

    Bernardino si voltò. Il suo vicino trotterellava impacciato verso di lui. Un marmocchio di neanche quattro anni, vestito come lui e che agitava in aria la stessa croce rossa.

    «Guarda Bernardino, sono pronto!».

    Il piccolo non fece in tempo a finire la frase che sbucò fuori la madre e l’afferrò prontamente in braccio per ricondurlo a casa. Ma lui non era d’accordo e si agitava come un indemoniato, invocando il nome dell’amico.

    «Signora Brandini, mettetelo giù».

    «Sei tu, il figlio di Pisano, a parlarmi con questo tono?»

    «Sì, signora, Bernardo Pisano, l’amico di vostro figlio».

    «Il monello che gli ha messo in testa tutte quelle idee!».

    «Il Frate avrebbe preferito che lo aveste fatto voi».

    I due si scrutarono con una tale intensità che il piccolo Bartolomeo smise di lagnarsi, certo che un fulmine si sarebbe abbattuto sulla strada seduta stante.

    Bernardino voleva fare in fretta, aveva già perso abbastanza tempo con quell’impenitente di sua madre. Allora sfoggiò per questa mamma il sorriso che non aveva riservato alla sua e le disse nel tono più dolce possibile:

    «Farò attenzione a lui, signora, non preoccupatevi».

    La signora Brandini mise giù il figlio, che la baciò con entusiasmo lanciandole al collo le braccine paffute.

    «Mamma, Bedino è buono, gioca con me e oggi mi porta alla festa delle vanità!»

    «Ma sì, Caterina, lasciali andare. Non vorrai fargli perdere questa bella celebrazione! E tu non te la perderai, vero?».

    Era la fornaia che chiudeva la bottega per unirsi alla processione, col figlio più piccolo incollato al seno e il resto della nidiata aggrappato alla gonna. La madre sospirò, accarezzando la testa del suo bambino.

    «Non fare sciocchezze, Baccio caro, e non allontanarti dal tuo amico. Ti voglio bene».

    Poi, facendo un passo verso Bernardino, gli disse severa:

    «Fa’ attenzione a lui come a un tesoro, e riportamelo prima dei vespri o ti appendo per le mutande!».

    Bernardino si strinse nelle spalle e prese Baccio per mano. Era tempo di prendere parte al trionfo del Frate.

    Caterina Brandini osservò i due camici bianchi allontanarsi, pensando al tempo in cui il laboratorio del marito orafo era sommerso dalle committenze dei Medici. Poi pregò per il suo bambino, maledisse Savonarola e rientrò in casa sbattendo la porta.

    All’angolo della strada, Baccio e Bernardino ritrovarono la loro banda in coda al corteo che si dirigeva vero il Duomo per ricevere la comunione dalle mani del Frate.

    «Ohilà, voi due! Dov’eravate finiti?»

    «Arriviamo, Francesco! Arriviamo! Guarda che cosa mi ha dato mia madre stamattina!».

    «Bene, Bernardino».

    «Dopo la comunione passerò alla bottega del pittore Botticelli. Ha promesso di darmi dei dipinti».

    «Verremo con te, è più sicuro. Un tipo strano, quel Botticelli. E tu dici che ha promesso dei dipinti? Vuoi dire che sostiene il Frate?»

    «Certo che lo sostiene: brucerà tutte le sue opere indecorose!».

    «Mah, vedremo».

    Francesco Guicciardini, capo del più valoroso drappello di bambini convertiti alla crociata del Frate, formò i ranghi e li incitò a mettersi in marcia.

    E così, lo avrebbe rivisto. Botticelli. Strinse i pugni. Quel maledetto ricordo… Era alla villa Careggi, un giorno in cui era andato a far visita al suo padrino, Marsilio Ficino. Botticelli era famoso per il suo amore per le burle, cosa che lui aveva scoperto a sue spese. Il bello scherzo era finito in un pianto che Ficino aveva cercato di placare con tre cartocci di semi di coriandolo ricoperti di zucchero. Se le leccornie avevano sedato le lacrime del bambino, non avevano addolcito l’amarezza che egli nutrì, da quel giorno, nei confronti del grande pittore dallo spirito faceto. Francesco ricordava ancora, con una fitta allo stomaco, di averlo sentito dire al suo padrino: «Che ne faremo di questi bambini brontoloni e disincantati? Non mi dispiace d’averlo fatto piangere, almeno ha dimostrato di provare qualche emozione». Il suo padrino aveva risposto con un sorriso d’intesa. Il suo padrino, che il Frate condannava. Il suo padrino e le sue antichità scandalose. Marsilio Ficino, cantore di un nuovo paganesimo, filosofo, traduttore, umanista, che dirigeva l’Accademia neoplatonica fondata trentotto anni prima da Cosimo il Vecchio… Francesco lasciò crescere in sé l’antico rancore. Da quattordicenne esaltato qual era, aveva bisogno di quel pungolo per essere un buon soldato del Frate. Un buon soldato del Cristo.

    «Guarda, Francesco! Là! Giocano a carte!».

    Seduti intorno a un tavolino di fronte alla bottega di un conciatore, quattro uomini continuavano la loro partita a minchiate¹ senza preoccuparsi dei piccoli inquisitori. Francesco Guicciardini si precipitò verso di loro e ribaltò il tavolo, mentre Bernardino recuperava al volo l’arma del delitto, quelle carte empie che sarebbero finite nel fuoco. I giocatori non osarono reagire. Ma, dal lato opposto della strada, un passante che aveva assistito alla scena li apostrofò con durezza.

    «Siete solo un branco di rabbiosi! Vergogna all’uomo di Dio che trasforma i bambini in aguzzini!».

    «Cerchi la rissa, nonno?».

    Francesco e la sua banda circondarono il sovversivo.

    «Coraggio, marmocchi, sfogatevi se ne avete voglia, ma l’ostia vi brucerà le budella, diavoli che non siete altro!».

    Il piccolo Baccio si mise a piagnucolare. Aveva paura del diavolo e non ci stava capendo niente.

    «Bedino, è vero? Il diavolo ci mangerà le budella?»

    «Ma no, Baccio, il diavolo non mangia gli angeli. E tu sei un angelo. Lo siamo tutti».

    Mentre Bernardino asciugava le lacrime del suo piccolo compagno, Francesco continuava a minacciare con la sua arrogante giovinezza l’uomo che la banda aveva intrappolato contro un muro.

    Il pugno partì all’improvviso. Il colpo era stato forte e preciso. Francesco si accasciò, con lo zigomo sanguinante. I bambini indietreggiarono, mentre l’adulto attendeva il seguito con una calma che turbò la gioventù.

    Quando si rialzò, avendo assaggiato la forza del suo avversario, il fiero Guicciardini preferì non insistere.

    «Ti lascio al giudizio della Morte che presto verrà a prenderti, vegliardo. La collera del cielo è su di te! Che tu sia maledetto! Venite, compagni, non perdiamo tempo, il Frate ci aspetta».

    I bambini seguirono il loro capo in ranghi ordinati, trasportati dalla gioia di quella giornata speciale, che niente poteva smorzare. Ma Francesco ribolliva dentro. L’umiliazione di aver capitolato di fronte ai più piccoli lo rodeva come una lebbra.

    Quando imboccarono una stradina deserta per raggiungere più in fretta la processione, trovò l’occasione di vendicarsi. Una giovane donna, risplendente in un maestoso abito di velluto rosso con il collo bordato d’ermellino, sbucò da un portico buio. Francesco mandò avanti Bernardino.

    «Nel nome di Cristo, nostro re, e della santissima Vergine, la nostra regina, vi ordino di consegnarci i vostri gioielli e di rientrare in casa a cambiarvi».

    L’elegante sconosciuta prese in considerazione per un istante la minaccia, vi rispose con un sorriso sdegnoso e proseguì per la sua strada.

    Francesco gridò: «Strappatele tutto!».

    La banda, furente, infernale, si scagliò sulla donna in un turbinio di camici bianchi, di esili polpacci pallidi e nervosi, braccia sottili come lance bellicose, chiome agitate dal vento della follia. I pochi testimoni di quella furia preferirono chiudere

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