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Opliti, vita e morte nella Falange di Sparta
Opliti, vita e morte nella Falange di Sparta
Opliti, vita e morte nella Falange di Sparta
E-book556 pagine7 ore

Opliti, vita e morte nella Falange di Sparta

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Info su questo ebook

«Cosa ci è accaduto, amico mio?».
«Il dio Ares ci ha resi partecipi delle sue gioie!», gli risponde il sarcasmo di Xanthos che guarda il viso rotto dell’amico.
«Dov’è la nostra giovinezza e spensieratezza? Dove finirono?», si tormenta Areion.
«La patria le ha sacrificate al suo futuro e sopravvivenza», gli risponde Xanthos.
«Ci meritavamo tutto questo?», Areion guarda l’amico negli occhi col solo aperto.
«È il destino per il quale siamo nati. Non potevamo sceglierne altri», gli risponde Xanthos.

Areion è un giovane come tanti altri nato a Sparta. Fa parte della casta degli Uguali e assolve il suo obbligo militare nei ranghi della Falange Oplitica. Purtroppo per lui e per i suoi compagni non è un periodo di pace quello che stanno vivendo. Siamo nel V secolo d.C. e Sparta deve affrontare una serie di crisi gravissime che ne mettono in discussione l’autorità nel Peloponneso e in Grecia.
In breve tempo, Areion si ritroverà nei campi di battaglia, spalla a spalla con i suoi commilitoni, pronto a tutto pur di onorare la propria patria e di salvare se stesso da un destino barbaro già scritto.

Massimo Zenobi è nato nel 1965 a Jesi. Ha svolto il servizio militare durante il quale ha imparato il valore della disponibilità per la collettività. È stato a lungo impiegato come contabile nell’industria, fino a conoscere peculiarità e vizi del nostro sistema economico. Per effetto della recente crisi economica ha dovuto diversificare la propria attività lavorativa. Ha viaggiato per alcune strade straniere incontrando i popoli che vi vivono, tra le vestigia del loro passato. Osservatore della situazione politica nazionale e internazionale, approfondisce da sempre i temi di Storia e di Storia Militare per comprendere meglio il contesto contemporaneo in cui l’uomo moderno si dibatte.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2021
ISBN9788830649354
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    Anteprima del libro

    Opliti, vita e morte nella Falange di Sparta - Massimo Zenobi

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    Massimo Zenobi

    Opliti, vita e morte nella Falange

    di Sparta

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-4126-6

    I edizione agosto 2021

    Finito di stampare nel mese di luglio 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Opliti, vita e morte nella Falange di Sparta

    (I Parte – Arcadica)

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Introduzione

    Quando il primo potente esercito persiano si presentò ai confini del mondo greco agli inizi del V secolo a.C., trovò un alto grado di civiltà in Grecia affatto remissivo: la costellazione di poleis, città-stato disseminate sull’impervio territorio greco, non era disposta a rinunciare alla propria indipendenza ma intendeva battersi per essa.

    Le poleis di quel tempo erano abbellite da capolavori, da templi, statue e teatri, che sembravano intagliati nella roccia del suolo greco severo ma affascinante; i popoli di quei territori si erano dimostrati all’altezza della loro terra madre aspra riuscendo a scalfire e coltivare il terreno pietroso ed arso, e a solcarne i mari insidiosi fino a raggiungere terre lontane oltre l’immaginazione portando la civiltà greca distante dalla patria. Le poleis greche avevano fondato colonie sulle coste del mar Mediterraneo e del mar Nero spinte da rivalità, ambizione, povertà ed esigenze di approvvigionamento; i traffici commerciali mantenevano i contatti tra le colonie e le loro città madri come un legame affettivo non disinteressato.

    La vivace società greca, frugale, orgogliosa e dinamica si era data un’economia agricola ed artigianale con aspirazioni commerciali: l’uomo greco, al centro di tutto questo, aveva dato prova di ambizione e audacia seppure mantenendo una profonda religiosità. La tradizione e l’esperienza si erano fuse con l’intraprendenza e l’ingegnosità in un uomo audace e mistico. Era l’uomo avviato sulla strada della libertà di pensiero e della partecipazione politica.

    La Grecia, guidata fino ad allora dall’aristocrazia, stava maturando altre aspirazioni. L’aristocrazia terriera disponeva da sempre delle terre migliori e lasciava languire la piccola proprietà; nel tentativo di conservare i propri privilegi economici e politici, causava indigenza e tensioni sociali.

    In Attica la nobiltà traeva vantaggio dallo stato di difficoltà in cui versava la piccola proprietà terriera: l’indebitamento dei contadini e la conseguente perdita di proprietà, di autonomia del proprio lavoro e di libertà personale e dei propri cari, causarono le fortissime tensioni sociali che fecero temere per la stabilità della società ateniese. Vi posero rimedio le riforme del grande legislatore Solone all’inizio del VI secolo a.C.

    Solo pochi decenni più tardi, ad Atene, ancora rivendicazioni di abitanti poveri, questi relegati sulle avare montagne dell’Attica, condussero al potere la tirannide illuminata di Pisistrato che non dimenticò il suo debito di riconoscenza: l’aristocratico ambizioso e saggio si era messo a capo di un moto popolare. La tirannide dei Pisistratidi completò l’azione riformatrice di Solone e, sebbene il suo periodo si concludesse presto, aprì la strada alla successiva riforma democratica di Clistene al termine del VI secolo a.C.

    La polis sfiduciava l’aristocrazia e il suo sistema politico ed economico, e intaccava i suoi privilegi: l’avidità degli aristocratici di denaro, lusso e potere li aveva resi sgraditi al popolo; forse anche la perdita della loro funzione militare col tramonto dell’epoca arcaica della cavalleria aristocratica e dei guerrieri per l’evoluzione del warfare tra le poleis, aveva corroso l’ascendente dei nobili sul popolo.

    Le poleis greche che coltivavano cultura ed arti manifestavano al contempo una natura bellicosa e praticavano una politica estera aggressiva: la frammentazione territoriale e politica della Grecia favoriva il confronto militare delle poleis che ereditavano dal passato una lunga serie di violenze e di rancori. Le città-stato greche cercavano spesso sul campo di battaglia la soluzione a controversie territoriali, a questioni di potere, di prestigio e d’indipendenza, rischiando libertà e schiavitù.

    La natura indomita delle genti elleniche aveva dato impulso ad una tecnica militare straordinaria e ad un militarismo popolare indispensabili al senso di pericolo ed al desiderio d’espansione avvertito delle singole poleis. Lo stato di necessità e la lunga esperienza avevano fatto evolvere la tecnica militare che, agli inizi del V secolo a.C., era basata da molto tempo sull’impiego in massa della fanteria pesante in formazione di falange. Il warfare delle fanterie oplitiche presupponeva disciplina, coraggio ma anche spirito di corpo: il cittadino-oplita che faceva parte della falange, non era più il mediocre ausiliario dell’antico guerriero aristocratico, ma uno specialista chiamato a sopportare il peso della panoplia e l’urto del nemico, inquadrato nella formazione coesa e ordinatissima della falange. Gli uomini liberi del popolo si schieravano al fianco dei loro simili, compagni di falange, per condividere il medesimo destino, tutti opliti ed uguali davanti al pericolo e alla morte per ergere un muro di corazze, scudi e lance a difesa della polis: l’urto delle falangi contrapposte era la fase saliente della battaglia.

    La classe media dei cittadini era al centro dell’esperienza militare oplitica, sconvolgente ed esaltante: ad Atene, all’epoca di Solone, gli zeugiti, penultima classe sociale di quattro stabilite in base al censo, militavano nella fanteria oplitica; gli zeugiti furono dunque la falange ateniese e la falange li pose al centro delle esigenze militari di Atene.

    Alla fine del VI secolo a.C. nella polis di Atene il partito degli Alcmeonidi, potente gruppo familiare, sostenne una dura lotta sotto la guida di Clistene per contrastare l’evoluzione oligarchica dello stato seguita alla tirannide ed infine riuscì a portare la città sul percorso della democrazia con riforme epocali. Con Clistene al potere la rappresentanza politica territoriale si discostò dal tradizionale controllo aristocratico del territorio e l’autorità politica dei nobili venne dispersa tra le componenti sociali dell’Attica. Clistene allargò il corpo cittadino agli abitanti meno abbienti dell’Attica proseguendo peraltro la politica già intrapresa dal tiranno Pisistrato. L’assemblea aspirava a diventare il cuore pulsante della polis ed i liberi cittadini che vi partecipavano, le sue cellule pensanti e passionali: il potere politico venne redistribuito tra i cittadini che poterono esprimerlo nell’assemblea coordinata dalla boulé.

    Il partito aristocratico era stato sconfitto ma non eliminato: sarebbe stato un grande protagonista della vita politica ateniese nel V secolo a.C.

    Il profondo cambiamento avvenuto ad Atene avrebbe condizionato tutta la Grecia dividendola tra la tradizione oligarchica e l’aspirazione democratica: le politiche perseguite dalle democrazie e dalle oligarchie sarebbero risultate conflittuali.

    Per la potenza militare di Sparta era giunto il momento di fare i conti con la potenza crescente di Atene: verso la fine del VI secolo a.C. il re spartano Cleomene I della dinastia degli Agiadi (regno 520-488 a.C.) intervenne pesantemente nelle questioni interne di Atene andando, alla testa di un potente esercito, ad abbattere la tirannia dei Pisistratidi con la speranza di un’affermazione oligarchica. Pochi anni dopo re Cleomene I divenne perciò il primo nemico delle ambizioni democratiche di Clistene, ed intervenne personalmente ad Atene per dare man forte al partito aristocratico ed al piano oligarchico; però le poche truppe che aveva con sé non furono sufficienti ad imporsi sulla reazione ateniese.

    Mentre ad Atene le istanze popolari sostenute da un istinto marittimo e mercantile, davano impulso al processo di sviluppo democratico, Sparta restava aggrappata alla propria forma tradizionale di governo, espressione di una società rurale e militarizzata.

    La polis di Sparta in Laconia, tra le montagne del Peloponneso, era vissuta lungamente in uno stato di guerra permanente contro nemici interni ed esterni. La città aveva prodotto un’originale esperienza politica estrema rimasta bloccata per centinaia d’anni. Sparta, retta da un’aristocrazia terriera e guerriera di origine dorica, si era data una riforma ispirata all’interpretazione progressista di principi arcaici ed attribuita al leggendario legislatore Licurgo, vissuto forse nel IX secolo a.C.: ne era derivata una società nuova e innovativa.

    Sparta era retta da una Diarchia costituita da due antiche dinastie, prestigiosa ma poco influente; da un’oligarchia potente ma allargata e controllata; da una democrazia efficace ma incompiuta. Sparta era tutto questo.

    La classe sociale dominante discendente dai Dori, gli antichi conquistatori del Peloponneso calati da Nord, aveva emendato il proprio stile di vita; i suoi valori erano divenuti il senso d’appartenenza allo stato e la sua militarizzazione, l’addestramento fisico continuativo, il servizio oplitico permanente, l’emancipazione della donna, le tradizioni, ma anche uno stile di vita frugale, il rifiuto della ricchezza in una società dorica egualitaria, quasi socialista. Netta era la separazione tra i cittadini di Sparta, gli Uguali di discendenza dorica titolari dei diritti politici, e tutti gli altri, perieci ed iloti. Il mantenimento dell’esercito professionale era a carico di un’economia agricola autarchica assicurata dal lavoro dei servi, gli iloti. La cultura di Sparta, rivoluzionaria nel contesto greco, ma anche dogmatica e conservatrice col suo regime oligarchico, la predispose naturalmente contro i governi democratici.

    Comunque che fossero inquadrati da un militarismo di stato o liberi protagonisti della politica cittadina o guidati da un governo oligarchico, gli uomini greci per loro natura bellicosa ed orgogliosa non avrebbero mai rinunciato pacificamente all’indipendenza. Le poleis serbavano una natura fiera e battagliera, e ardivano manifestarla anche contro gli imponenti eserciti stranieri che, scaturiti dal misterioso mondo orientale, adesso le sfidavano: le poleis degli opliti coalizzarono i loro animi indomiti.

    La Grecia combatté due guerre persiane che lasciarono una lunga scia di sangue: nel 490 a.C. l’epica battaglia di Maratona; negli anni 480-479 a.C. l’eroica battaglia delle Termopili, lo scontro preliminare di capo Artemisio, poi la grande battaglia navale di Salamina, il trionfo di Platea e la battaglia finale a Micale. In queste terribili prove i greci affermarono la loro potenza militare e un proto-nazionalismo ellenico che spezzava la tradizionale rivalità tra le bellicose poleis. I popoli greci si dimostrarono i più tenaci e bellicosi, i loro eserciti e le loro flotte i più agguerriti e meglio organizzati; la tecnica militare greca risultò la più efficace e la falange oplitica uno schieramento di fanteria pesante inarrestabile sul campo di battaglia. Il gigantesco impero persiano achemenide era stato duramente battuto e umiliato nell’ultima campagna militare antigreca perdendovi generali e perfino membri della famiglia reale.

    La Grecia trionfante a Platea nel 479 a.C., si lasciava dietro la minaccia persiana debellata e la consegnava alla narrazione vivace del grande storico Erodoto. Il paese prostrato entrava nel periodo post-bellico con l’odio per i traditori dell’orgoglio ellenico e il desiderio di vendetta contro quelle città greche che avevano collaborato col persiano ai tempi dell’invasione e della guerra; nel ricordo vivido dello scampato pericolo, restava celato il timore di una vendetta persiana per gli umilianti rovesci subiti e di una nuova invasione, la terza. I patrioti delle poleis elleniche avevano dunque premura di togliere ai persiani partigiani e basi avanzate in Grecia.

    La vittoria nella seconda guerra persiana definì l’identità delle due maggiori potenze greche che vi avevano partecipato, Atene e Sparta. Sparta uscì dalla seconda guerra persiana come la straordinaria potenza militare terrestre che aveva lasciato tutti sgomenti, non solo il barbaro nemico ma anche gli ateniesi. La vittoria sui persiani aveva dato molto prestigio a Sparta, alla sua falange oplitica e ai suoi comandanti che erano entrati nella leggenda: essi divennero i protagonisti del primo periodo postbellico. Subito dopo la guerra il re spartano Leotichida II, il generale della vittoria di Micale, intraprese la campagna militare contro i traditori di Tessaglia oltre i confini del Peloponneso in cui Sparta primeggiava ormai incontrastata. Nonostante i brillanti successi, re Leotichida e il suo esercito non perseguirono l’obiettivo principale di deporre i signori di Tessaglia, gli Alevadi, pur avendoli umiliati. La primavera successiva la spedizione fu sospesa ed il suo comandante, re Leotichida II della dinastia degli Euripontidi, venne portato in giudizio a Sparta.

    L’estate seguente Pausania, il generale spartano della vittoria di Platea nonché principe della famiglia reale degli Agiadi, assunse il comando della flotta alleata greca che si preparava a solcare l’Egeo per insidiare gli ultimi presidi persiani sulla via d’Oriente. Dopo una vittoriosa campagna militare a Cipro, si diresse a Nord e conquistò la fortezza di Bisanzio d’importanza strategica. Il generale e principe Pausania assunse allora un comportamento dispotico che gli valse la destituzione da comandante della flotta alleata: l’occasione era attraente per gli ateniesi che fecero decadere il comando spartano della flotta incuranti di un’incrinatura nei rapporti con Sparta.

    Atene che aveva affermato la sua natura di potenza navale con la vittoria di Salamina, sui mari voleva esprimere il suo dinamismo ed espansionismo. Dopo la guerra la città si era dotata di una cinta muraria, ma aveva fortificato anche la vicina penisola della Munichia al Pireo con i suoi tre porti da cui traeva rifornimenti e profitti commerciali. Il condottiero e trionfatore di Salamina, Temistocle, protagonista della politica ateniese in quanto capo dei democratici, nemico della politica spartana e promotore delle iniziative di quegli anni, dalla personalità forte e ingombrante, infine si guadagnò l’avversione del popolo e subì la misura d’ostracismo lasciando campo libero al partito rivale degli aristocratici. L’ostracismo fu imposto a Temistocle prima del 470 a.C.¹, e distese il clima politico tra Atene e Sparta che riscoprirono i valori proto-nazionali approfonditi durante le guerre contro il comune nemico persiano. Tuttavia l’esilio di Temistocle da Atene finì per destabilizzare un’altra parte di Grecia: il passaggio delle sue idee infiammò regioni sotto l’influenza di Sparta. In realtà ciò fu il sintomo di un’irrequietezza che stava già serpeggiando tra le poleis greche: l’attrazione per l’oligarchia o il fascino della democrazia; l’economia agricola o i traffici marittimi; la conservazione agraria o gli interessi mercantili; la nobiltà terriera o i mercanti e gli artigiani; la sicurezza di Sparta o il dinamismo ateniese. Le poleis greche, una miriade di città-stato, cercavano di trovare le soluzioni più adatte alle loro esigenze e peculiarità, anche con sovvertimenti repentini, ma infine dovettero fare i conti con l’espansionismo delle due superpotenze greche.

    Erodoto, lo storico greco del V secolo a.C., aveva espresso un concetto di mondo greco eterogeneo che usciva dalla leggenda per fare il suo ingresso nella storia con un comune senso d’appartenenza a una vaga idea di nazione greca: i popoli greci, superando differenze etniche, culturali e idiomatiche, diventavano gli Elleni per stirpe, lingua e orgoglio comune, tra cui primeggiavano ateniesi e lacedemoni (Storie, I, 56; ivi, I, 58; ivi, VI, 53; ivi, VI, 106). Solo pochi anni più tardi Tucidide, l’altro grande storico greco del V secolo a.C., espresse invece la lucidità e la consapevolezza dei greci, intrepidi soggetti di eroismi e crudeltà durante la Guerra del Peloponneso nella seconda metà del V secolo a.C., rendendo l’idea dell’irrequieto individualismo democratico che dimorava ad Atene e del collettivismo che ancora sopravviveva tra gli Uguali di Sparta. Individualismo democratico ad Atene disprezzato nella cauta Sparta che custodiva gelosamente la propria tradizione militare pervasa di spirito di corpo. Questa incompatibilità interna alla Grecia e le rivalità mai sopite tra le poleis mosse da ambizione e avidità, erano state la pesante ipoteca sul loro futuro funestato infine da questo conflitto apocalittico.

    Le due città-stato greche più potenti avevano intrapreso la definizione e il consolidamento di blocchi d’influenza propri. Atene e Sparta perseguirono finalità parallele di aggregazione confederativa delle poleis greche, muovendo eventualmente eserciti e flotte per piegarne le aspirazioni locali: la Lega Peloponnesiaca filo-spartana sorta durante il VI secolo a.C. con intenzioni prevalentemente terrestri; la Confederazione di Delo creata subito dopo la II guerra persiana attorno alla vocazione marittima di Atene e alla sua potenza navale. Le due poleis antagoniste avevano il chiaro intendimento di affermare le proprie egemonie nelle rispettive zone d’influenza sub-nazionali, bacino dell’Egeo compreso, per assumere i ruoli di città guida nel mondo greco evitando però una contrapposizione totale, almeno nel periodo successivo alla II guerra persiana.

    È possibile che, a partire dalla vittoria greca nella II guerra persiana, capi saggi e lungimiranti, quale lo statista Aristide ed il generale Cimone, entrambi ateniesi, il re spartano Leotichida II ed il suo successore Archidamo II, si fossero accordati per la definizione incruenta di rispettive aree d’influenza complementari, promuovendo in questo modo il superamento della frammentazione politica greca imposta dalla natura stessa delle città-stato?

    Gli indizi dell’esistenza di un simile accordo di spartizione del potere tra Atene e Sparta, ci sono: la loro spigliatezza e aggressività nella politica estera; la resistenza delle piccole comunità alla politica accentratrice ostentata dalle due potenze militari; l’assenza in quegli anni di attriti tra le due maggiori poleis, anzi l’instaurazione di un clima di dialogo e di collaborazione.

    Le resistenze autonomistiche a questi probabili piani politici centripeti sub-unitari ellenici, produssero conflitti sanguinosi nel secondo quarto del V secolo a.C.: i popoli del Peloponneso, divisi da rivalità e gelosie cittadine, da antagonismo politico e da incomprensioni croniche riconducibili anche alla fallita integrazione delle popolazioni autoctone con gli invasori di stirpe dorica calati in tempi remoti dal profondo Nord, espressero i loro odi atavici in successivi confronti bellici sostenuti per difendere le autonomie cittadine e regionali. Queste violente guerre interne al Peloponneso fecero fallire la pacifica convivenza delle aree d’influenza ateniese e spartana com’era stata auspicata: la spaccatura del Peloponneso si estese inesorabilmente a tutta la Grecia come la progressiva fessurazione di una fine pittura vascolare. Le guerre nel Peloponneso divennero in pochi decenni la Guerra del Peloponneso e la decadenza del mondo greco classico: a causa del fallimento di quell’ambizioso progetto politico panellenico…

    1 L’ostracismo di Temistocle precedente al 470 a.C.: Paolo A. Tuci, Il regime politico di Argo e le sue istituzioni tra fine VI e fine V secolo a.C.: verso un’instabile democrazia, in Argo. Una democrazia diversa, a cura di C. Bearzot e F. Landucci, Milano, Vita e Pensiero, 2006, pp. 231-2; E.M. Walker, La Confederazione di Delo, 478-463 a.C., cap. XIII, in Storia del Mondo Antico, vol. IV, Persia e Grecia. L’impero ateniese, a cura di F.E. Adcock et al., Milano, Garzanti, 1977, pp. 443-4.

    I PARTE

    ARCADICA

    Capitolo 1

    L’agogé

    Un bambino spartano

    "Nacque a Sparta negli anni successivi alla battaglia di Maratona² e crebbe in quelli della battaglia delle Termopili, Salamina e Platea³: uno dei tanti bambini che si dissero figli dell’orgoglio ellenico.

    Nacque a Sparta, cioè nei suoi dintorni, nella casa famigliare di campagna, tra belati e muggiti, tra insulti di sovrintendenti e imprecazioni di iloti, nella luce bianca del Sole greco che abbaglia ogni spirito innocente. Suo padre, folle d’amore per quel bambino appena nato, lo prese con sé: «È mio figlio, mio e non di Sparta!», ripeteva mentre lavava il neonato dal liquido amniotico nell’acqua fredda, pazzo di gelosia verso la stato e la sua selezione. «Vivrai per me prima che per lo stato», rispondeva al pianto del neonato brillante d’acqua gelida e pura della fonte dell’Oikos in Amicle che era della sua famiglia da secoli. Gli fu dato il nome di Areion figlio di Smile, dell’Oba⁴ degli Amicle.

    Il bambino fu sottoposto alla severa legge di stato di una selezione più spietata e metodica di quella naturale, ma sopravvisse al giudizio del famelico precipizio Keadas intagliato nel Taigeto, per la sana costituzione fisica che gli Dèi gli avevano concesso; così si assicurò un posto nella società guerriera spartana.

    Perciò fu accolto per diritto di nascita tra i discendenti delle grandi tribù doriche degli Illei, dei Dimani e dei Panfili, popoli bellicosi scesi sette secoli prima da remote lande di settentrione per soddisfare la propria fame atavica: lo sciame delle loro incursioni devastò la Grecia. Abbandonata la Doride, regione della Grecia continentale che li aveva ospitati, si aprirono la strada fino al Peloponneso abbattendo la potenza di Micene. I Dori attraversarono l’intero Peloponneso: occuparono l’Argolide, superarono l’Arcadia e infine l’inarrestabile migrazione dorica si scelse la regione che più ricordava la propria terra d’origine persa nel tempo ma indimenticabile nei racconti popolari.

    Il gruppo più forte, anzi due si stanziarono in Laconia: una pianura fertile incastonata tra le montagne del Taigeto e il Parnonas, corteggiata sia dal Sole che dal mare generosi. Simile alla terra d’origine, la Laconia divenne la nuova patria dei Dori e la polis di Sparta fu la capitale del regno dorico che, concepito da due calate migratorie, venne fondato sul dualismo della Diarchia Eraclide: la leggenda vuole che i discendenti del sacro eroe Eracle avessero fatto ritorno nel Peloponneso e in Laconia per riprendere il proprio; e lì fondarono il mito di Lacedemone.

    Un gruppo minore di Dori si separò ed entrò in Messenia dove scelse di stabilirsi per la ricchezza della sua fertile pianura: se i Dori di Messenia instaurarono un rapporto di dialogo e apertura con la popolazione autoctona, i Dori di Laconia non lo fecero affatto cristallizzando una società guerriera stratificata ed eterogenea, nettamente separata tra nuovi conquistatori, antichi conquistatori e iloti assoggettati. Ciò seminò la discordia tra gli antichi fratelli di sangue dorico separati non solo dal Taigeto.

    Lo spirito indomito delle genti doriche e il continuo senso di pericolo ingenerato dal permanente stato di contrapposizione con gli iloti e i bellicosi vicini, produssero i loro effetti: il mitico Licurgo elaborò una legislazione innovativa che dette al suo popolo la sicurezza di una disciplina e di un ordine, di uno Stato dalla nascita alla morte, della vita di molti attraverso il sacrificio di pochi, dell’uguaglianza degli Homoioi, gli Uguali di stirpe dorica. In questo modo fu forgiata la potenza militare di Sparta e del suo stato militarizzato tra i più brutali ed efficienti che l’uomo ricordi, fondati sulla cultura della fanteria oplitica degli Homoioi. Il popolo guerriero dei Dori conquistò Argolide, Laconia e Messenia; l’esercito oplitico di Sparta riuscì a controllare tutto il Peloponneso, poi a condizionare la vita politica del resto dell’Ellade. Areion fu un figlio di questa potenza militare e visse negli anni dello splendore ellenico affermato da Atene e Sparta: egli condivise l’eredità ed il destino del suo popolo durante gli straordinari avvenimenti drammatici di cui fu testimone…".

    La morte della virtù ellenica

    Sopra terreno brullo e sperso¹ carne dalla pelle di bronzo²

    la grande ruota gira del Sole su quiete del campo avanza

    gli rifugge sguardo spento lo schiniere nel mare d’orzo

    tra piedi di spighe ombrose delle cicale il canto avversa

    di bronzo opaco greve il torso³ rivoli di gocce segnano il viso⁴

    vento torrido la lancia fende bagnan labbra di amaro sapore

    elmo lucente sulla nuca lasco rapide stillano da mento intriso

    la luce intensa occhi offende su bronzeo petto colar di rancore

    di vita propria l’erba si move⁵ china s’impone al passo incerto⁶

    danzante su musica di vento respiri d’affanno salgono al vento

    ricordo di casa si perde altrove scorcio di morte a vista apparso

    richiude l’orma di passo lento a luce solare di beltà insulto

    incendi ed urla dalle campagne⁷ ritratta la mano da fianco offeso⁸

    elevano su’ teatri delle battaglie rossa di sangue ei trova aspersa

    già sfogate ostilità delle armate e si accascia a terra pallido reso

    i fuochi voraci divoran spoglie a biasimar di bellezza sfida persa

    L’agogé

    Mocciosi, proprio mocciosi dal naso colante. Un branco di mocciosi dalle facce sporche, arruffati e sdentati, dai piedi scalzi e luridi, che sembra aver corso infaticabilmente lungo tutta la storia di Sparta per giocare, scherzare, importunare e rubare. Un flagello che da oggi viene posto al servizio dello Stato. Tutti ne sono contenti: le loro madri che possono dedicarsi al resto della prole e alle fattorie di famiglia; i padri che si aspettano di vederli comparire in caserma; lo Stato in difetto cronico di nuove leve per l’esercito. Gli stessi bambini spartiati che bramano di addestrarsi alla guerra emulando padri e fratelli.

    Si raccolgono sul piazzale: occhi luminosi o foschi, attenti alla nuova situazione, impertinenti e vivaci che cercano di capire. Potrebbero piangere a dirotto per l’improvvisa assenza della madre, unico affetto dei loro primi sette anni di vita, su questo piazzale sabbioso tra le mura chiuse di una caserma di Sparta… Anzi no, non piangono affatto ma si agitano, irrequieti, davanti a questi nuovi avversari: istruttori, opliti e ufficiali di Sparta riuniti per riceverli in questo primo giorno di vita militare.

    Gli istruttori sbraitano sul viso di questi bambini per assumerne il pieno controllo e riuscire a muoverne il gregge: i bambini restano stretti l’uno all’altro per ricavare solidarietà dal calore del gruppo. Quella masnada di monelli non accenna a scomporsi.

    Lo scopo degli istruttori è di trasformare quegli agnelli in altrettanti lupi; lo scopo dei bambini di tornarsene a correre e giocare liberamente per le strade e ritrovare, la sera, le braccia amorevoli delle loro madri; esse però, a loro insaputa, non li aspettano più, rassegnate a doverne delegare l’educazione allo stato.

    «Raggiungete le camerate!», urla un istruttore spazientito che si avventa su di loro, tirando e strattonando dal chitone questo e dal braccio quell’altro.

    Due di quei bambini, prossimi all’istruttore non ne vogliono sapere: uno dai capelli biondi, l’altro scuro, fianco a fianco, con gli occhi intensi, pieni di odio, aggrediscono a calci e pugni il loro istruttore. Tutti i loro compagni urlano di contentezza e li incitano alla rivolta lanciando sassi contro i loro nuovi precettori. Quell’istruttore deve tenere quei due scalmanati per il chitone, di peso, evitando il loro attacco che continua furioso nell’aria che li circonda.

    «Fermatevi!», intima disperato l’istruttore subissato dalle grida di solidarietà degli altri bambini e tormentato dai loro sassi: un filo di sangue gli cola dal labbro colpito da un pugno che uno dei due monelli gli ha tirato.

    La voce del bambino biondo gli risponde: «Quando sarò grande come te, mi vendicherò», lo minaccia a muso duro.

    Un alto ufficiale di Sparta presente alla scena, non può trattenere le risa per la difficoltà in cui versa quell’istruttore:

    «Bene, questo è lo spirito battagliero degli opliti!», encomia la presenza di spirito di quei bambini ribelli.

    «Anch’io un giorno sarò oplita di Sparta», il bambino scuro avvisa l’ufficiale.

    I piccoli compagni su questo piazzale sono coetanei: essi, rōbídas⁶ pronti per l’Agogé, eccitati per la scena di ribellione che hanno veduto, ridono ed urlano tra loro. Essi si stanno già creando una nuova famiglia; stanno gettando il seme della salda solidarietà fraterna di secolare tradizione, che rinnoverà la leggendaria, impenetrabile solidità della formazione da battaglia di Sparta chiamata falange oplitica. Con questo spirito comune gli opliti sapranno superare tutte le difficoltà, le privazioni e i pericoli di morte. Insieme.

    La migliore gioventù spartiate cresce…

    Lo Stato ha tolto i giovanetti spartani alle famiglie e sostituito l’affetto delle madri con un chitone ruvido come lana caprina e con un giaciglio di canne dell’Eurota⁷; poi ha reciso loro la folta capigliatura e l’infantile vanità. I giovanetti crescono presto persuadendosi che il ruvido chitone sia pratico, il solo mantello clamide caldo, il povero giaciglio comodo, la rasatura della testa pulita, le scarse razioni abbondanti e appetitoso un brodaccio di maiale con pane d’orzo⁸.

    Trascorrono il tempo tra interminabili allenamenti fisici di corsa, salto, pugilato e lotta, addestramenti con armamento individuale di spada, lancia e scudo, manovre nei reparti di falange; tra insegnamenti di filosofia di stato come concepita da Licurgo, che trasferendo alle giovani reclute di stirpe dorica i valori morali, le elevano al rango di aspiranti opliti di Sparta. Virtù, valori ma anche scaltrezza sono inculcati nel pensiero dei giovani spartani durante il faticoso periodo dell’Agogé mediante insegnamenti nobili ed altri più rigorosi e rozzi.

    Attraversano le vie affollate e si lasciano la polis alle spalle. Corrono senza sosta oltre il tempio dei Dioscuri ed oltre quello di Poseidone, oltre il letto del fiume ed oltre la tomba di Leonida, dietro il profumo di libertà giunto attraverso le mura della caserma sin dentro le loro giovani narici. Attraverso campi e boschi, accarezzati dalle ombre lampeggianti tra i raggi di Sole. Le frasche frustano le membra veloci, ma la loro esuberanza è insensibile al dolore. Portano il chitone dell’esercito di Sparta e sono figli dei suoi opliti: armati di tradizionale Xuele⁹ spartano alla cintola, di qualche lancia e spada, sono giunti al grado di Melleiren¹⁰. Avanzano in questa nuova esplorazione addestrativa guidata da qualche Eiren¹¹, i loro superiori, ragazzi pervenuti alle fasi conclusive dell’Agogé; essi si affannano a controllare la velocità e l’agilità delle loro giovani reclute che esibiscono l’energia dei quattordici, quindici anni di età e l’abilità atletica acquisita col sacrificio dell’addestramento militare.

    Corrono senza sosta, sudati e sporchi, la testa rasata sulla fronte madida. Felici dell’amicizia coetanea che li circonda e della libertà nella natura selvatica che li accoglie per sottrarli dalla durezza degli esercizi fisici quotidiani, con le armi ed in reparto.

    Un campo, un bosco, un canneto, il fiume: i giovani si ritrovano sulla riva a parlottare: «Dobbiamo raggiungere l’altra riva?», chiedono i giovani.

    «Dobbiamo proseguire oltre il fiume e raggiungere la sommità delle colline prima di sera», insiste l’Eiren.

    «L’ultimo ad attraversare, stasera mangerà il fondo della zuppa», la masnada si sfida.

    Tutti corrono sollevando schizzi d’acqua brillanti di Sole. Altri si gettano per esibire qualche robusta bracciata di nuoto affatto giustificata dalla scarsità d’acqua.

    Riemergono tutti sulla riva opposta per prendere giocosamente possesso di quella nuova terra: rinfrescati dall’acqua, le gocce scivolano via sulla pelle lucida sotto il peso della calura. Tra spinte, ceffoni e calci, come sanno picchiarsi affettuosamente gli amici tra loro, la corsa riprende con urla scherzose e le imprecazioni degli Eirenes che devono mantenere l’andatura delle giovani reclute troppo esuberanti. Essi, gli Eirenes, sarebbero più propensi a soffermarsi ad apprezzare le bellezze della natura: disseminate per la campagna le ragazze ilote intente nei lavori agricoli, tengono esposte al Sole imperioso le belle gambe, facendo innamorare subito quegli spiriti giovani…

    L’inverno successivo in quella stessa campagna di Sparta non ci sono più ragazze né lavori da svolgere, ma solo un manto bianco che i medesimi giovani, Melleirenes, attraversano spavaldamente: un manto bianco spolverato dal cielo plumbeo in trappola tra le gelide montagne di Sparta. Su questa coltre candida, i Melleirenes attraversano le lande desolate che si sono lasciate il tempio di Artemide Ortia dietro il fiume Eurota: chiusi nei leggeri mantelli di lana e leggeri sui calzari di cuoio, avanzano con giovanile ardore nella terra di nessuno fatta propria dallo slancio impetuoso e dall’irrefrenabile ricerca di avventure. Uno di loro s’inerpica con passo lesto e vapore di fiato sul pendio folto di alberi ma candido di neve, scricchiolante di freddo.

    «Perché i tuoi passi solitari attraversano il bosco?», lo sorprende una voce profonda scaturita da figura scura come i tronchi che lo circondano.

    Il giovane trasalisce credendo di non dover rendere conto della sua andatura sfrontata ad uno dei tronchi spogli padroni di quella terra disabitata:

    «Chi sei tu che sorvegli il passo di un allievo di Sparta?», chiede il giovane scorgendo la figura umana che gli ha rivolto parola: un uomo fatto, alto e robusto, dalla barba folta, gli occhi sottili e luminosi. Il capo avvolto in una calda pezza e, accanto, una gigantesca scure appesa alla sua spalla per riposare dai colpi tremendi appena vibrati.

    «Sono figlio della selva per servitù dei bisogni umani. Tu chi sei?», gli chiede l’altro.

    «Areion degli Amicle, Melleiren dell’esercito di Sparta», gli risponde il ragazzo.

    «Un oplita dunque: tu che hai scelto l’esercizio delle armi e l’arte della guerra, sappi di aver scelto anche il dovere di dispensare vita e morte», lo informa il boscaiolo.

    «Anche quella scure potrebbe combattere e dispensarne», pensa, Areion, ad alta voce diffidando di quello sconosciuto e posando istintivamente la mano sullo Xuele.

    «Questa scure scende in combattimento ogni giorno ma senza mietere vittime: contro le forze soverchianti e irriducibili della natura, tra le minacce di fiere e predoni, oltre le ombre e tenebre insidiose della mente, attraverso il logoramento della fatica e della stanchezza. Per una magra ricompensa e la soddisfazione di riscaldare gli uomini», risponde il boscaiolo muovendo la barba che gli sporge dal mento, folta di peli neri e bianchi.

    Con quelle parole lancia in aria la pesante scure con movimento disinvolto, lasciandola ricadere di lama, davanti ai piedi di Areion come per tagliargli la via. Con la precisione di chi l’ha soppesata per giorni interi, un anno dopo l’altro.

    Areion raccoglie la scure per sfida: stringendola tra le mani osserva quel temibile utensile dalla lama oscura intaccata dall’usura; vi scopre il calore della precedente impugnatura e la memoria dell’interminabile lavoro che l’ha sollevata.

    Come non essere riconoscente a tanta forza benigna e spirito di sacrificio per il benessere delle nostre genti esposte ai rigori del rigido inverno?. Tra queste meditazioni Areion scopre di aver perduto il contatto col sapiente amico appena incontrato ma rientrato nell’oblio del bosco. Il giovane lascia la scure sul posto, conficcata su un ceppo per segnare il luogo di questo strano, fortuito incontro.

    Che fosse Zeus?. Pur sorpreso dalle nuove riflessioni, Areion riprende la marcia nel folto degli alberi appesantiti dalla neve, con occhi di cacciatore.

    Il solito entusiasmo è smorzato solo dalla dolorosa sensazione di gelo che risalendo dai piedi umidi, gli fa desiderare il tepore dei bracieri della caserma al quale si potrà abbandonare non prima di aver terminato la missione d’esplorazione.

    Questo lo spirito tenace e disciplinato delle giovani reclute.

    Il plataneto

    Laggiù a meridione della polis, l’isola di Sparta assediata dai fiumi Eurota e Cnacion, si ritaglia un perimetro tra i boschi di platani.

    Due gruppi in formazione convergono sull’isola da direzioni diverse e per due ponti opposti vi fanno ingresso: hanno il passo sicuro ed incedono senza esitazioni.

    Vestono chitoni di tela e sono giovani: disarmate le loro mani, avanzano scalzi incontro all’altro gruppo con le peggiori intenzioni¹².

    Il fiore della gioventù dorica di Sparta ha raggiunto l’isola e si ferma, attende trepidante.

    Il corno suona vibrando l’aria fino a Sparta.

    Le urla dei giovani scoppiano dietro a quel suono primordiale e lungo.

    Le formazioni si lanciano di corsa incontro agli avversari: la battaglia è iniziata.

    Corrono, si cercano, si avventano contro gli avversari con ferocia, ma sempre compatti in reparti e formazioni. Sono Eirenes di sedici anni ed oltre: conoscono le manovre di reparto e a quelle si attengono.

    L’urto è forte, le urla esaltate: i ragazzi sono disarmati ma hanno le mani e quelle bastano. I gruppi opposti si sospingono con tutta la forza e la resistenza della loro giovane età: lo scontro fisico è violento. Pancrazio: pugilato, lotta, pugni, calci e prese che serrano i corpi dei contendenti; si combatte con le tecniche insegnate ai giovani e da essi imparate in fretta per la propria sopravvivenza. Sono risparmiati solo gli occhi dei nemici. Sui visi giovanili tracce di sangue si mischiano a schizzi di fango.

    I cinque Bidiei, magistrati della cultura fisica giovanile¹³, controllano lo svolgimento della gara del Plataneto¹⁴. I primi Ireni¹⁵, cioè gli opliti effettivi più giovani, quali ufficiali delle squadre giovanili, incitano i loro uomini: «Non cedete terreno e resistete! Il nemico non deve sfondare la vostra linea!», e tra quelle parole bastonano crudelmente coloro che esitano per incertezza o viltà.

    Visi tumefatti e corpi doloranti dei giovani sottoposti ormai da molto alla continua pressione fisica, non osano voltarsi a quelle parole per mantenere i piedi immersi nella motta e i muscoli contratti.

    Le sezioni centrali degli schieramenti

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