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Forse non tutti sanno che in Emilia Romagna...
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E-book395 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti di una regione tutta da scoprire

L'Emilia Romagna è una delle mete turistiche più apprezzate d'Europa. La storia di questa regione, dalla preistoria a oggi, pare essere scandita da eventi e personaggi ben noti e già molto studiati; ma ci sono momenti, e non sempre secondari, che sono invece poco conosciuti. Ogni capitolo di questo viaggio tratta di vicende meno note, di personaggi tranamente dimenticati o ingiustamente ignorati, di edifici famosi di cui sono emerse particolarità insospettate. Come la misteriosa presenza di una città sotterranea; la storia di uno scienziato dilettante che scoprì come prevedere i terremoti; o ancora il significato delle creature mostruose che popolano il duomo di Modena e del “drago” che venne ucciso a Bologna. Questi e molti altri episodi hanno saputo lasciare un segno sul territorio e a ffascinano ancora chi è in grado di coglierne l’eco. Perché portare alla luce ciò che si nasconde nelle pieghe della storia permette di conoscere fino in fondo l’anima della regione.

Alla scoperta della regione tra spiagge rinomate e colline lussureggianti, castelli incantati e monumenti millenari, città d’arte e prodigi della gastronomia

Forse non tutti sanno che in Emilia Romagna...
…uno scienziato dilettante scoprì come prevedere i terremoti
…ci fu uno dei primi incontri ravvicinati di terzo tipo in Italia
…si trova la prima biblioteca civica aperta in Italia
…leopardi cercò moglie (ma non per sé)
…fu ucciso un drago
…si trova una chiesa decorata con figure enigmatiche e mostruose,
…avvenne un raro caso di autocombustione umana
Paolo Cortesi
è scrittore e saggista. Il suo romanzo Il patto ha riscosso un notevole successo di critica e pubblico. Tra i numerosi libri pubblicati con la Newton Compton ricordiamo: Quando Mussolini non era fascista; Manoscritti segreti; Il libro nero del Medioevo; Storia e segreti dell’alchimia; Misteri e segreti dell’Emilia Romagna, Forse non tutti sanno che in Emilia Romagna... e Cagliostro (Premio Castiglioncello 2005).
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2018
ISBN9788822725189
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    Anteprima del libro

    Forse non tutti sanno che in Emilia Romagna... - Paolo Cortesi

    1. …ci fu uno dei primi incontri ravvicinati del terzo tipo in Italia

    «H o quaranta anni e alla mia età non si combinano scherzi!».

    E sembrava davvero uno scherzo ciò che diceva e ripeteva Nello Ferrari, anzi ciò che giurava «davanti a Dio». Sembrava uno scherzo, o peggio: un delirio.

    Eppure se si cercava un uomo con la testa sulle spalle, si pensava a Nello Ferrari: un contadino che, assieme ai quattro fratelli, lavorava un podere di una trentina di biolche¹ tra Castelfranco Emilia e Manzolino, due paesi in provincia di Modena, distanti fra loro circa tre chilometri.

    La straordinaria avventura di Nello Ferrari, quell’evento che giurava era stato reale e non una sua fantasia, accadde la mattina di domenica 16 novembre 1952. Così lo raccontò all’inviato del «Giornale dell’Emilia»², alla presenza del brigadiere Vivoli della stazione dei carabinieri di Castelfranco Emilia: «Domenica mattina, saranno state le 9,30, dopo aver provveduto al secondo governo dei bovini, mi sono diretto lungo una cavedagna³ del mio podere spingendomi attraverso i campi per circa duecento metri».

    Improvvisamente, Nello si vide al centro di un cerchio di una fortissima luce color rame che stimò del diametro di quaranta metri.

    «Mi venne fatto di pensare al sole e fu allora che istintivamente alzai il capo. Mi sentii rabbrividire mentre il cuore mi batteva paurosamente. Sul mio capo, a circa dieci metri era fermo un enorme piatto del colore tra l’oro e il rame. Non respiravo quasi più, quando dall’interno del piatto scorsi tre persone che mi guardavano».

    L’oggetto che stava librato sulla testa del contadino terrorizzato era il classico disco volante:

    «Immaginate», diceva Ferrari con foga e muovendo le mani quasi per plasmare le parole, «due piatti da minestra del diametro di venti metri, uno capovolto sull’altro, recante l’uno e l’altro all’estremità una specie di cilindro uscente dal centro per una lunghezza dai quattro ai cinque metri e del diametro di oltre un metro. Dentro a quei cilindri stava la forza della macchina. Ho visto quello di sotto; non era vuoto, mi sembrava che dentro ci fosse un groviglio di eliche».

    Qui Ferrari, che pure si dimostra un testimone attento e preciso, non è molto chiaro, o forse è stato il cronista che ha riassunto malamente la narrazione. Comunque, pare di capire che i due cilindri fossero posti in asse verticalmente e che uscissero uno sopra e l’altro sotto al centro dell’oggetto rotondo. Ancora meno chiaro è ciò che Ferrari intende con «la forza della macchina»: forse vedeva congegni in movimento? O vibrazioni? O qualche manifestazione di energia, come calore, luce, scintille? Non lo sappiamo, ed il giornalista non chiese di più.

    La calotta superiore era più larga di quella sottostante, «ne ho osservato lo spessore», continua Ferrari, «circa una ventina di centimetri. I due piatti al momento dell’apparizione erano distaccati l’uno dall’altro in modo tale da permettermi di vedere nell’interno tre figure umane che mi guardavano. Si sporgevano all’esterno come dal ponte di una nave».

    I tre avevano forme umane («soltanto le caratteristiche del volto sono parse fortemente più marcate») ed indossavano «una specie di scafandro dall’apparenza gommosa. I piloti avevano il capo ricoperto sino all’altezza delle ciglia da una copertura di identica sostanza e al posto degli occhiali avevano una specie di visiera trasparente da motociclisti ricoprente loro tutto il volto».

    Nello Ferrari dichiarò che il loro sguardo lo spaventava. «Non so se parlassero tra di loro o rivolti a me, ho distintamente inteso queste parole: Verren iirg unk e null’altro. Poi ho inteso un forte scatto metallico e ho visto che la parte superiore del disco si era adagiata ermeticamente su quella sottostante. Un attimo dopo il forte ronzio che proveniva dal cilindro si era fatto più intenso. La macchina velocissima si metteva in movimento in direzione verticale».

    Dieci anni dopo questo incredibile incontro, la cognata ricordava ancora lo stato sconvolto, quasi confusionale, con cui Nello era tornato a casa.

    Purtroppo, questa straordinaria esperienza ebbe delle brutte conseguenze su Ferrari. Forse umiliato dall’ironia pesante, forse irritato dagli sfottò, forse perseguitato dalla sfacciata curiosità, si chiuse in se stesso, non volle più parlare della sua storia, diventò ombroso e cominciò a bere. Il 18 settembre 1963, mentre lavorava nel campo dove ci sarebbe stato l’incontro con il disco volante, un infarto se lo portò via.

    Quello di Ferrari fu uno dei primi incontri ravvicinati di terzo tipo⁴ in Italia. E qui è il caso di raccontare, anche se in breve, un altro sconcertante episodio che vide un bolognese ospite di un disco volante venusiano in un viaggetto siderale. Il 7 luglio 1957 (o 1959, il testimone non lo ricordava con precisione e questo è molto strano; almeno io se venissi portato in giro per il sistema solare, mi ricorderei bene quando è successo…) dunque, il 7 luglio 1957 o 1959, Luciano Galli, meccanico bolognese di 42 anni, sposato con tre figli, con un piccolo laboratorio in vicolo delle Dame, esce di casa alle 14,30 circa per andare al lavoro. All’angolo fra il vicolo e via Castiglione, gli si accosta una fiat 1100 nera da cui scende «un signore alto, moro, dal viso regolare, dagli occhi nerissimi, un volto che invitava alla bontà». L’uomo dal viso soave veste un doppiopetto grigio, camicia e cravatta; parla benissimo l’italiano. Al volante dell’automobile sta un altro uomo, vestito di grigio chiaro, scuro di capelli, «dai lineamenti molto delicati ma senza baffetti e quello non parlava mai».

    Galli ricorda che quello con la faccia bonaria lo aveva pedinato alcune volte nei giorni scorsi. L’uomo misterioso gli chiede: «Vuol venire con noi?»; e all’ovvia domanda «dove?», risponde soltanto: «Abbia fiducia, non c’è nessun pericolo». Tanto basta al Galli che, forse convinto dall’aspetto amabile del nuovo venuto, accetta senza nemmeno preoccuparsi di cambiare la sua tuta blu da meccanico.

    L’auto nera fila verso la periferia di San Ruffillo, esce da Bologna, raggiunge una località chiamata la Croara, a sei chilometri dalla città emiliana, in cui si apre una specie di conca naturale erbosa, circondata da rocce coperte di muschio; chi abita in questa zona lo chiama il Buco del Prete Santo. Al centro dello spiazzo naturale, Galli vede galleggiare a due metri dal suolo un disco di colore grigio lucente del diametro di quindici metri. Così Galli descrive l’interno:

    La sala di comando era vasta, circolare, con strumenti di bordo, quadri con pulsanti, apparecchi che mi sembrarono amperometri, manometri o qualcosa di simile. C’erano inoltre delle specie di video e alcuni sedili fissi al pavimento. Nel centro del pavimento si apriva un grande oblò del diametro di un metro circa. Fu di là che potei vedere la Terra allontanarsi. Prima la vidi come se fossi su uno dei nostri apparecchi, poi, quando eravamo già nella zona buia, grande quanto la Luna e infine un punto luminoso. Come fosse Venere o Marte.

    Galli visita poi anche una astronave gigantesca, lunga seicento metri, da cui escono i dischi volanti, e sulla quale vede un sacco di gente, lui dice 400 o 500 persone, uomini e donne (tutte belle), vestiti con tute che sembrano di plastica o seta, e quando gli passano accanto gli sorridono. Galli chiede al suo accompagnatore da dove venisse l’astronave e quello risponde: «Dal pianeta che voi chiamate Venere».

    Il meccanico viene riportato in vicolo delle Dame alle 17,20 in punto di quel giorno, 7 luglio 1957 o 1959; esattamente due ore e cinquanta minuti dopo essere salito nella 1100 nera.

    Al giornalista della «Domenica del Corriere»⁵ a cui racconta la sua strabiliante avventura, Luciano Galli lascia una dichiarazione firmata: «Non voglio che si dica che quanto ho esposto al signor Renato Albanese sia da me stato riferito a scopo di pubblicità e di lucro. È la pura verità».

    Ma per credere a questo fiacco romanzetto di fantascienza vecchio stile ci vuole ben altro che un pezzo di carta.

    1 La biolca è una unità di misura di superficie agraria in uso in Emilia; nel modenese è pari a 2836,47 metri quadri.

    2 L’articolo uscì sul numero del 22 novembre 1952.

    3 La cavedagna è una strada di servizio sterrata che attraversa i campi coltivati.

    4 Sono così classificati i pretesi avvistamenti di ufo con presenza di esseri umanoidi.

    5 L’intervista apparve sul numero 24 del 17 giugno 1962.

    2 …uno scienziato dilettante scoprì come prevedere i terremoti

    Alle due di notte del 13 gennaio 1909, un ragazzo di 15 anni fu buttato giù dal letto da una scossa di terremoto.

    Il sisma percorse tutta la Romagna come un’immensa frustata, e a Faenza – la piccola città in provincia di Ravenna dove abitava il ragazzo – pochi quella notte tornarono nelle case da cui erano scappati quando i pavimenti e le pareti avevano ondeggiato sotto colpi di un gigantesco maglio invisibile.

    I faentini ringraziarono la provvidenza che non era morto nessuno, e che i danni agli edifici non erano stati gravi. E tornarono lentamente alla vita normale di tutti i giorni, sapendo (ma senza dirlo, per scaramanzia) che il terremoto sarebbe prima o poi tornato, e la sola cosa che si poteva fare era dimenticare il terrore di quella nottata. Ma quel ragazzetto non dimenticò, e da quella gelida notte di gennaio iniziò la sua personalissima lotta contro il terremoto. Il quindicenne si chiamava Raffaele Bendandi, era nato a Faenza il 17 ottobre 1893 da una famiglia povera. Il suo destino pareva segnato: avrebbe fatto un po’ di scuola, quella obbligatoria; poi sarebbe stato messo a bottega, dal primo artigiano che lo avesse accettato, così che il futuro sarebbe stato deciso dal caso: barbiere? calzolaio? falegname? muratore?

    Raffaele dimostrò precocissimo una bella abilità manuale e nel disegno, così che venne iscritto alla scuola comunale di grafica industriale e meccanica. Quando terminò gli studi, iniziò a lavorare come intagliatore di legno ed ebanista per terzi: la sua straordinaria capacità di costruire, la sua scrupolosa precisione nei lavori più minuti furono decisivi quando realizzò strumenti scientifici che vennero utilizzati da diversi osservatorii anche all’estero.

    Da quella spaventosa notte del gennaio 1909, Raffaele Bendandi si chiese perché il terremoto colpiva all’improvviso, senza nessuna possibilità di previsione. Nei libri di geologia che aveva consultato presso la Biblioteca Comunale, Bendandi aveva letto che non è possibile sapere in anticipo quando e dove avverrà un movimento tellurico. Il giovane autodidatta, tuttavia, sentiva che il terremoto non poteva sfuggire all’armonia universale, in cui ogni fenomeno è collegato ad altri ed inserito nella catena causale: «È questa la grande verità che mi colpì e mi avvinse», scrisse Bendandi, «il caso non esiste in natura e tutto ciò che può apparirci casuale non è che la risultante di forze che ignoriamo. Una stretta solidarietà incatena tutto il creato mantenendovi un ordine ammirevole».

    Su questa certezza, forse più romantica che scientifica, il giovane intagliatore iniziò i suoi studi solitari. L’intuizione di base del Bendandi sostiene che il terremoto è un fenomeno cosmico: esso è causato dall’attrazione gravitazionale dei pianeti, in particolare Giove e Venere, sulla crosta terrestre; il sisma si scatena nelle zone geologicamente predisposte e fragili, quando alle sollecitazioni mareali planetarie si aggiunge l’attrazione della luna che è, per così dire, il detonatore che fa esplodere l’evento sismico. Bendandi scriveva nel 1955, nel suo tipico curioso stile aulico:

    Che i terremoti abbiano una effettiva origine cosmica, non può essere posto in dubbio, troppi sono gli elementi che l’avvalorano. Al 29 marzo dello scorso anno, un grave terremoto colpiva le coste meridionali della Spagna; e se noi consulteremo l’annuario astronomico, troveremo tosto che nel preciso istante che il suolo sussultava terribilmente convulso, seminando la rovina e il terrore sopra una vasta regione, la luna trovavasi a 297 gradi di longitudine. Passati sei mesi, al nove settembre alle ore 2, il terribile disastro si ripeteva: la zona colpita era infatti la costa settentrionale africana. La città di Orleansville in Algeria veniva letteralmente rasa al suolo dalle possenti forze endogene; ebbene se noi andiamo a consultare il già citato annuario, troveremo che anche per questo disastro la longitudine della luna era esattamente la stessa cioè 297 gradi!

    Questo è il nocciolo della teoria che Bendandi elaborò nel corso di circa quattordici anni di studi. Ma c’è anche un aspetto tutt’oggi sconosciuto di questa teoria, perché Bendandi calcolava le posizioni e i relativi influssi gravitazionali non solo dei pianeti del nostro sistema solare, ma anche di quattro giganteschi pianeti ultraplutoniani di cui ipotizzò l’azione sulla Terra e che nessuno ha mai visto. Su questi pianeti teorici, il ricercatore faentino fu piuttosto reticente, per cui oggi non è sempre possibile ricostruire e verificare le previsioni fatte; senza dimenticare poi che Bendandi impiegava nei suoi schemi di previsioni sismologiche formule, codici e sigle il cui significato era noto a lui solo. Va anche detto, per completezza di esposizione, che gli astronomi negano per via teorica di meccanica celeste che possano esistere le colossali masse planetarie ipotizzate da Bendandi agli estremi confini del sistema solare.

    Il 13 dicembre 1923, Bendandi tenne una conferenza nel teatro della sua città in cui annunciò la scoperta della legge naturale dei terremoti e il sistema per prevederli. Un corrispondente del «Corriere della Sera» era presente fra il pubblico che affollava il teatro Sarti; si chiamava Otello Cavara (1877-1928), conosceva Bendandi perché aveva fatto la grande guerra con lui: il faentino era militare di guardia agli idrovolanti di cui Cavara era un pilota.

    Appena terminata la conferenza, Cavara telefonò al direttore, Luigi Albertini (1871-1941), e gli disse che un oscuro ebanista aveva fatto la scoperta del secolo. Albertini raccomandò al giornalista di fare le cose con la dovuta cautela: il «Corriere» era sommerso da lettere e trattati di mattoidi che sostenevano di avere inventato la macchina del moto perpetuo o di aver scoperto la quadratura del cerchio, e non poteva screditarsi con certa gente. Se l’ebanista è sicuro del fatto suo, concluse Albertini, che faccia una bella previsione davanti al notaio. Bendandi era sicurissimo della sua scoperta, e accettò con piacere la sfida.

    L’anno millenovecentoventitre questo giorno di giovedì 20 dicembre in Faenza nel mio Studio Notarile posto in Corso Garibaldi 8, avanti di me dott. Domenico Savini Regio Notaio residente in Faenza, inscritto al Collegio Notarile di Ravenna e alla presenza dei Signori Olimpia Caroli di Luigi impiegata e Querzola Edoardo fu Angelo impiegato, ambedue nati e domiciliati a Faenza, assunti come testimoni noti ed idonei ai sensi di legge si è personalmente costituito il signor Raffaele Bendandi di Angelo, intagliatore in legno, nato e domiciliato in Faenza, maggiorenne, di suo pieno diritto, a me notaio cognito il quale mi ha pregato di ricevere nei miei atti la seguente dichiarazione: Le manifestazioni telluriche in vista da oggi al 10 gennaio 1924 sono due: La prima il 21 dicembre, cioè domani stesso, di origine americana (centro America).

    La seconda invece più importante come intensità, il 2 gennaio con probabile epicentro nella penisola balcanica o tutt’al più nell’Egeo.

    Le due previsioni furono confermate e da quel giorno Raffaele Bendandi fu famoso in Italia e fuori. La scienza ufficiale detestava Bendandi. Vedeva in lui un ignorante presuntuoso, ma anche – e forse per questo lo odiava di più – un temibile concorrente, una voce alternativa che non si riusciva a zittire; perché Bendandi, come tutte le persone miti, reagiva rabbiosamente quando veniva denigrato. Perché in fondo questo facevano i baroni accademici: non esaminavano i risultati della teoria bendandiana poiché avevano deciso a priori che era una teoria assurda. E che quell’intagliatore di legno (che pure era stato nominato Cavaliere della Corona d’Italia, nel febbraio 1924, per segnalati servizi alla scienza) non era degno di essere un loro interlocutore.

    Tuttavia non mancavano le previsioni esatte su cui i sismologi laureati avrebbero potuto fare qualche riflessione: vediamo un paio di casi eclatanti.

    Sulla rivista faentina «Il Piccolo» del 17 giugno 1925 leggiamo: «Roma, 16 – Le segnalazioni di Bendandi hanno tanto impressionato in quanto questi ultimi due mesi esse sono state di una esattezza mirabolante. Bendandi segnala pel giorno diciassette, domani, un altro violentissimo terremoto nell’Estremo Oriente, di cui l’epicentro dovrebbe aversi al nord dell’isola di Formosa».

    Sul quotidiano francese «Petit Parisienne» del 18 giugno 1925 apparve questo articolo: «Violento terremoto nell’isola di Formosa. Tokio, 17 – Un violento terremoto è stato avvertito a Kazenko e in tutta l’isola di Formosa; i danni materiali sono considerevoli».

    Un’altra sorprendente conferma fu segnalata da «Il Messaggero», il 16 gennaio 1924.

    Bendandi aveva dichiarato il giorno 10: «Si può dire con certezza assoluta che vi saranno alcune manifestazioni, specie alla metà del mese, di origine americana (nel centro), la notte fra il 15 ed il 16 notevole».

    E veramente, il mattino del 16 gennaio 1924, un violento terremoto colpì la Colombia, lungo la frontiera con l’Ecuador, causando gravi danni nelle città di Gachalá, Ipiales, Cumbal, Guachaca, Carlosama, Andana e Tuluá.

    Lo stesso «Il Messaggero» dette la notizia con questo commento: «La precisione con cui i fatti hanno confermato la previsione del Bendandi è davvero impressionante. Lasciamo agli uomini di scienza l’ultima parola; non senza osservare che una predizione in tema di terremoti, così esplicita e così veritiera, nessun uomo di scienza finora ce l’aveva mai data».

    Lo stesso padre Guido Alfani (1876-1940), decano dei sismologi italiani e direttore dal 1906 fino alla morte dell’Osservatorio Ximeniano di Firenze, in una intervista pubblicata su «Il Messaggero» del 12 gennaio 1924, si espresse a proposito del ricercatore faentino molto favorevolmente: «Le prove che di continuo questi dà a conferma delle proprie previsioni sono fatti, i quali, pur se meravigliano in sommo grado, non è permesso distruggere né col dubbio né tanto meno con smentite cervellotiche».

    E padre Raffaello Stiattesi (1867-1963), direttore dell’Osservatorio Astrofisico di Quarto Fiorentino e Accademico dei Lincei, dichiarò con straordinaria onestà intellettuale: «Checché ne dicano i miei colleghi sismologi, un autodidatta quale è il falegname di Faenza ha più possibilità di imbroccare la via vera che noi studiosi, legati alla secolare tradizione della scienza positiva e cautissimi nel rinnegare, seppure in minima parte, l’eredità di sapere che ci è stata trasmessa».

    Tuttavia, la campagna contro il sismologo outsider non si fermò, anzi arrivò al suo culmine il 31 maggio 1926, quando venne formalmente diffidato in questura dal divulgare altre previsioni di terremoti perché, questa la motivazione della censura, creavano panico tra la popolazione e potevano allontanare dall’Italia il flusso turistico (!).

    Raffaele Bendandi visse sempre non proprio in povertà, ma in una costante rigorosa frugalità. Non si sposò mai perché, diceva, aveva sposato la scienza; ma la verità era molto più brutale: non poteva permettersi di avere una famiglia perché non guadagnava abbastanza.

    Solo molto tardi poté acquistare una calcolatrice meccanica di seconda mano; prima faceva a mente tutti i lunghissimi calcoli, scrivendoli su ogni pezzo di carta potesse utilizzare: dai quaderni scolastici alle buste per lettera e ai volantini pubblicitari.

    Visse di collaborazioni a riviste e giornali, anche esteri, e del suo lavoro di ebanista intagliatore (cabinetmaker, lo definì il «Time» del 21 settembre 1931, dando notizia della sua esatta previsione di un terremoto in Asia). Ho personalmente incontrato Bendandi una sola volta nell’autunno del 1978; egli fu trovato morto in casa il 3 novembre 1979, il medico stabilì che il decesso risaliva a due giorni prima. Ricordo che mi dette l’impressione di un uomo sfinito, ma acceso da una forza interiore che ho visto in pochi altri. Credo non ignorasse il peso dei sacrifici e delle fatiche sopportate per difendere il suo diritto alla vita, e non solo culturale; ma sono sicuro che, potendo, avrebbe rivissuto ogni suo giorno⁶.

    Il geologo Antonio Veggiani, scienziato della scienza ufficiale, scrisse: «Bendandi non deve essere considerato solo un dilettante di astronomia e di sismologia, ma un vero e proprio ricercatore con intuizioni che, alla luce delle più moderne conoscenze, sono da considerarsi pionieristiche. Si potrebbe azzardare a dire che Bendandi era troppo avanti per i suoi tempi, e non c’erano allora le condizioni per una tranquilla discussione su problemi che solo oggi, con più adeguati mezzi a disposizione, i ricercatori possono affrontare serenamente».

    E il geofisico Marco Mattina, che fu docente all’università di Bologna: «Al di là del successo e di brillanti carriere che il sapere elargisce, oggi come sempre, la scienza ha bisogno di uomini che credano, vivano, si sacrifichino per essa: uomini come Raffaele Bendandi».

    6 L’Istituzione Culturale Bendandiana, che ha sede a Faenza in via Manara 17, diretta dalla dottoressa Paola Pescerelli Lagorio, custodisce la biblioteca e l’abitazione di Bendandi, ora divenuta casa-museo, e continua a studiare la sua opera. Per informazioni si può contattare la dottoressa Lagorio al 338 8188688.

    3. …fu proclamata la repubblica, dal 10 al 13 giugno 1914

    Questa storia comincia con una fucilata.

    È sparata da un militare di leva al suo colonnello, la mattina del 30 ottobre 1911, nel piazzale della caserma Cialdini di Bologna. Il tenente colonnello Giuseppe Stroppa, quella mattina, sta tenendo un accorato discorso patriottico a duecento militari che sono destinati a partire per la Libia, in una guerra di conquista coloniale che il Regno d’Italia pensa di vincere senza troppe difficoltà, a spese dell’impero ottomano che si sta sbriciolando.

    Augusto Masetti, il soldato che ha fatto fuoco, ha 23 anni (è nato a Sala Bolognese il 12 aprile 1888) ed è anarchico antimilitarista. Ha puntato il suo fucile ed ha sparato a quello che considera il suo vero nemico: l’ufficiale a cui il sistema delle leggi di classe dà il potere di strapparlo dalla sua vita normale, dalla famiglia e dal suo lavoro di muratore e di farlo andare in una terra straniera, ad ammazzare gente che non conosce e che non gli ha fatto nulla. «Viva l’anarchia! Abbasso il governo! Fratelli ribellatevi!», grida Masetti, prima che decine di uomini gli si buttino addosso e lo immobilizzino, sommergendolo di calci e pugni. Il colonnello Stroppa ha la spalla sinistra trapassata dal proiettile e si fa venti giorni d’ospedale. Per evitare un processo che sarebbe stato politico, le alte gerarchie militari decidono che Masetti è matto, non anarchico (ma in fondo, per i gallonati, pazzia e anarchia sono la stessa cosa); così il giovane viene prontamente rinchiuso nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino. Anarchici, socialisti e repubblicani formano il Comitato nazionale pro Masetti, di cui è segretario l’anarchico romagnolo Armando Borghi (1882-1968) e ha sede a Bologna.

    Il Comitato si propone di non fare cadere il silenzio sul caso Masetti, di denunciare il militarismo e le condizioni di vita disumane in cui si trovano i soldati di leva che sono puniti per motivi politici e per i quali sono state create le famigerate compagnie di disciplina.

    Ed ora facciamo un salto nel tempo, arriviamo al 7 giugno 1914. Quel giorno è la prima domenica di giugno, data in cui si festeggia lo Statuto Albertino, che dal 1861 era diventato la Costituzione del Regno d’Italia. In quell’occasione, il Comitato nazionale pro Masetti ha programmato di tenere discorsi e manifestazioni in diverse città. Come scrisse Armando Borghi nelle sue memorie, si tratta soprattutto di «trasformare la prima domenica di giugno, festa dello Statuto, in una giornata nazionale pro Masetti e pro Moroni⁷; se in quel giorno il governo si fosse macchiato di sangue, rispondere con lo sciopero generale ad oltranza».

    Come era facilmente prevedibile, le autorità vietano ogni manifestazione pubblica; così il Comitato decide di indire assemblee e riunioni in sedi di sindacati e partiti. Ad Ancona, viene convocato per il pomeriggio un comizio dentro Villa Rossa, sede di una sezione repubblicana, a cui partecipano circa seicento persone. Il questore teme che gli antimilitaristi, al termine dei discorsi (tenuti fra gli altri da Pietro Nenni ed Errico Malatesta), si dirigano in massa verso la piazza, dove si svolge la parata militare e tutto il repertorio celebrativo della monarchia. Così Villa Rossa e dintorni sono circondati da carabinieri in divisa e poliziotti in borghese. La tensione naturalmente è altissima e in queste situazioni basta un nulla a scatenare l’inferno e infatti nessuno saprà mai ricostruire con esattezza gli eventi che portano, improvvisamente, a scariche di armi da fuoco che lasciano a terra tre cadaveri: Antonio Casaccia e Nello Budini, repubblicani, e Attilio Giambrignoni, anarchico: sono poco più che ragazzi, hanno rispettivamente 17, 24 e 22 anni.

    Ovviamente, la versione ufficiale della strage parlerà della solita legittima difesa di carabinieri e poliziotti che hanno sparato per salvarsi dalla violenza dei dimostranti; ma sarà lo stesso questore di Ancona a dichiarare, al processo, che

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