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Boxe at Gleason's Gym: Dal tempio mondiale della boxe il manuale fondamentale per il pugile
Boxe at Gleason's Gym: Dal tempio mondiale della boxe il manuale fondamentale per il pugile
Boxe at Gleason's Gym: Dal tempio mondiale della boxe il manuale fondamentale per il pugile
E-book213 pagine2 ore

Boxe at Gleason's Gym: Dal tempio mondiale della boxe il manuale fondamentale per il pugile

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Info su questo ebook

Un manuale che illumina il principiante e l’appassionato di boxe sulle basi tecniche del pugilato, rivelando anche molti piccoli segreti che altrimenti si acquisirebbero soltanto con anni e anni di ring. È scritto come un romanzo, con uno stile agile, avvincente, e racconta la storia dell’autore, Maurizio Arena, e della sua iniziazione al pugilato nella prestigiosa Gleason’s Gym di Brooklyn, la palestra dove è passata la storia della boxe: Sugar Ray Robinson, Rocky Marciano, Floyd Patterson, Muhammad Ali, Joe Frazier, George Foreman, Mike Tyson, Marvin Hagler, e molti altri. La lettura di questo libro susciterà sicuramente in noi il desiderio di cimentarsi con il pugilato, e farà comprendere perché questo sport in cui un uomo, con quasi niente addosso, sfida un suo simile e le proprie debolezze e paure, giocandosi tutto in pochi, lunghissimi minuti, è, più di ogni altra disciplina sportiva, la grande metafora della vita.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2014
ISBN9788827224779
Boxe at Gleason's Gym: Dal tempio mondiale della boxe il manuale fondamentale per il pugile
Autore

Wilson Basetta

Pseudonimo di Maurizio Arena, romano, frequenta da 11 anni la Gleason’s Gym di New York, Brooklyn, dove segue numerosi stage sulla pratica e l’insegnamento delle tecniche pugilistiche americane. È allievo di Hector Roca e di Harry Keitt e ha partecipato a otto incontri dimostrativi a Londra e New York sotto la supervisione di Leone Tayler. Insegna boxe in diverse palestre di Roma. Ha pubblicato un romanzo, "Per sempre è tanto", per la casa editrice Fermento.

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    Anteprima del libro

    Boxe at Gleason's Gym - Wilson Basetta

    LA MIA STORIA

    Il pugilato ha cominciato ad affascinarmi sin da quando ero piccolo.

    Avevo forse quattro anni e con tre dei miei quattro fratelli dormivo in una stanza modesta a un quarto piano di una palazzina all’epoca moderna, quando, sentendo mio padre esultare, incitare e maledire ciò che stava vedendo in televisione, mi svegliai.

    Mi alzai e lo raggiunsi nel salotto. Era seduto su una vecchia poltrona, proteso completamente in avanti verso lo schermo della tv, sembrava volesse aggredirla. Sbirciai sopra le sue spalle e vidi due uomini a torso nudo con grossi guantoni scuri che se le davano di santa ragione.

    Mio padre in poltrona aveva il loro stesso atteggiamento, l’unica differenza stava nel fatto che lui indossava canottiera e mutande e non indossava guantoni.

    Cosa guardi papà?, chiesi.

    Box, disse senza voltarsi (papà non parla l’inglese).

    … e cos’è il box?.

    "La box è il pugilato", rispose senza togliere lo sguardo dal televisore Radiomarelli.

    Quando Nino Benvenuti vinse, mio padre fece un salto dalla poltrona incredibile slanciando le braccia in alto rovesciando il vassoio e il te freddo che aveva davanti e, continuando a saltare per tutto il salotto:

    Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!.

    Rimasi allibito, lo guardavo, non l’avevo mai visto così felice in tutta la sua vita.

    Un padre straordinario, sempre allegro, scherzoso anche se in famiglia non sembrava perché era sempre celato nel ruolo del capofamiglia, ma non l’avevo mai visto saltare di gioia.

    Non avrei mai pensato che vedere due uomini picchiarsi a sangue potesse far gioire qualcuno, quantomeno non mio padre, l’uomo più ciò che ogni uomo spera di essere, il coraggio che ogni uomo vorrebbe avere, la forza che ogni uomo desidera e il mito cui ognuno aspira: un vero campione.

    Il Gleason’s Gym di Brooklyn (New York) è la mecca del pugilato mondiale.

    Tanto per fare qualche nome, tra i personaggi che lo hanno frequentato, risulta il signor Jack La Motta e un certo Cassius Clay, conosciuto anche come Muhammad Ali.

    La prima volta che decisi di farci visita, circa 10 anni fa, mi trovavo a Manhattan, il cuore di New York, era già buio e faceva molto freddo, erano circa le otto di sera.

    Andai alla Grand Central Station sulla quarantaduesima strada e presi la metropolitana numero 6, direzione downtown, sud.

    Mi ero informato e sapevo che la palestra si trovava in Front Street così, dopo aver studiato la cartina, pur avendo capito che la fermata giusta fosse Fulton Street, decisi di scendere a City Hall per fare due passi.

    Uscii dal tunnel del metrò e mi trovai davanti due grattacieli giganteschi: le torri gemelle.

    Scattai una foto.

    Mi voltai a sinistra e trovai l’immenso ponte di Brooklyn. Travi di ferro, bulloni e cavi d’acciaio. Quasi due chilometri di migliaia di tonnellate che, per effetto del riverbero delle luci nelle acque del fiume, sembravano sospese nel vuoto.

    Scattai la seconda foto nella mia memoria e mi incamminai; passati forse dieci minuti arrivai su Front Street e la percorsi tutta due volte, ma la palestra non c’era.

    Pensai di chiedere a qualcuno, mi guardai intorno e mi accorsi in quel momento di essere completamente solo.

    La strada era deserta; non era colpa del buio o del freddo che in quella zona umida sembrava ancora più intenso, il problema consisteva nel fatto che quella era la parte sud di Manhattan, l’area del mercato del pesce, che di notte veniva abbandonata al suo fetore e a gente di malaffare, ma io ancora non lo sapevo, così, quando vidi un gruppetto di giovani di colore giocare con un pallone da basket, mi avvicinai.

    Uomo bianco coraggioso… o stupido?, disse uno di loro.

    Era basso e tarchiato, molto pesante, a occhio sfiorava i 100 chili.

    Non parli?, chiese mentre gli altri aprendosi a ventaglio mi stavano circondando come usano fare le iene con le loro prede.

    La sensazione di pericolo fu forte, ma cercai di rimanere calmo e fermo.

    Il tizio si avvicinò, mi scrutò dalla testa ai piedi con un atteggiamento di superiorità, poi trasformò il suo leggero sorriso in sguardo d’odio, si caricò in gola e mi sputò sui piedi.

    "Blanco…", mi disprezzò e finse uno scatto in avanti sbattendo il piede in terra come si fa per spaventare un cane, la distanza però era ancora lunga e io riuscii a non muovermi.

    Non hai paura? Bene! Abbiamo un bianco coraggioso!, rise rivolgendosi al suo branco.

    Le cose stavano per mettersi male, il mio cuore stava battendo forte, respirai a fondo cercando di dargli ossigeno per farlo rallentare, ma l’adrenalina continuava a pompare e il cuore a battere sempre più forte.

    Dalla parte destra, un altro del gruppo avanzò verso di me e fu lì che cominciai ad avere i primi sintomi della paura.

    Erano in troppi e io giocavo fuori casa, non avrei potuto fare nulla, mi giocai l’unica carta.

    Gleason’s. Sto cercando il Gleason’s Gym, ho detto calmo.

    Il tipo che mi aveva sputato sui piedi ha fatto ancora un passo:

    Come conosci il Gleason’s tu, bianco? Io non ti ho mai visto lì.

    Non lo conosco, non ci sono mai stato, vengo dall’Italia, gli ho risposto parlando anche io in inglese.

    Italia? Baggio?… pizza?… spaghetti? Mafia?.

    Sì, esatto. Italia, Baggio, spaghetti.

    Oh oh! Sei un pugile!, ha detto con aria di scherno.

    Sì, sono un pugile italiano, ho detto e gli altri hanno riso.

    Io sono Bob, mi ha risposto quello che doveva essere il capo di quella teppaglia. Il Gleason’s non è qui a Manhattan, è a Brooklyn. Attraversa il ponte, poi scendi, torni verso il fiume e sei arrivato, mi ha allungato il suo pugno chiuso ed è rimasto in attesa.

    Non sapevo cosa fare, ho sorriso appena cercando di mantenere un tono, lui mi ha preso il braccio, mi ha chiuso il pugno e l’ha fatto sbattere contro il suo.

    "Good luck. See yo".

    Buona fortuna, ci vediamo, mi ha detto con un sorriso, si è voltato e ha chiesto palla, un piccoletto con la faccia da vietnamita gliel’ha lanciata ed hanno ricominciato a giocare nel buio.

    Mai avrei pensato di attraversare il ponte di Brooklyn a piedi, di notte, al freddo, ma nella vita non si può mai sapere.

    Camminando sul ponte passai sopra le acque dell’East River, arrivato sull’altra sponda scesi a livello strada, tornai indietro in direzione del fiume e dopo poco mi ritrovai su Front Street.

    Non c’erano palestre, non se ne vedeva nemmeno l’ombra, Brooklyn sembrava disabitata, usciva lo stesso fumo dai tombini che si vede nei film e non passava un’auto.

    Percorsi la seconda Front Street per la seconda volta, ma non fui fortunato neanche lì e non trovai la palestra.

    Dovevo essermi sbagliato, dovevo aver letto male l’indirizzo o forse la palestra non era sopravvissuta e aveva dovuto chiudere; in un posto triste e abbandonato come quello era stata fin troppo fortunata a farsi un nome.

    Passò una macchina, vetri scuri, stereo a volume assordante e frequenza dei bassi da colpo al plesso solare, raggiunse un incrocio dove avrebbe dovuto dare la precedenza e lo superò senza neanche rallentare. Decisi di tornarmene in albergo e, per evitare di cacciarmi in altri guai, tolsi dal polso l’orologio di buona marca e lo misi in tasca, svuotai il portafogli lasciandovi solo pochi dollari mettendo il resto in un’altra tasca e sperai che un tassista distratto o ubriaco potesse smarrirsi da quelle parti.

    Aspettai cinque minuti, ma faceva troppo freddo a stare fermi, così tornai sui miei passi quando, appena voltato l’angolo, vidi una macchina grande, gialla, con una luce bianca sul tetto che stava per partire: un taxi. Rapido mi infilai due dita in bocca, fischiai come se avessi dovuto fermare il gregge e l’autista si fermò.

    Raggiunsi l’auto ed entrai.

    Come va, signore?, mi chiese l’autista dall’accento indiano. Si è perso o è anche lei uno di quei pugili suonati del Gleason’s, signore?.

    Gleason’s? Ha detto Gleason’s?.

    Certo!, mi rispose divertito. Quello lì, signore. Non lo conosce, signore?, disse indicando la piccola porta grigia accanto alla quale poco prima mi ero fermato a nascondere soldi e orologio.

    Era una porticina minuscola, la scritta Gleason’s era grande come l’etichetta di una bottiglia di Coca da un litro e non c’erano luci.

    Spinsi, ma la porta non si aprì; in America, quando si deve entrare da qualche parte, la porta si tira, quando si esce invece si spinge. Si chiama sistema antipanico.

    Quando tirai, dopo aver letto la scritta pull, la porta finalmente si aprì e mi trovai all’interno di uno stabile a dir poco decrepito davanti a una rampa di scale in cemento grigio sbeccato.

    L’atrio era buio.

    Dopo la seconda rampa di scale, una luce proveniente da uno spiraglio alla base di una porta di legno illuminò il pianerottolo. Non vidi scritte, non c’era nulla, si sentivano solo rumori sordi, poi si udì un suono, un misto fra una sirena e un cicalino al quale seguì un silenzio improvviso.

    Mi avvicinai, afferrai la maniglia fredda e tirai e quella fu la prima volta che vidi il Gleason’s Gym.

    All’ingresso c’era una vecchia scrivania malandata che aveva tre cassetti dove ancora oggi nel primo ci sono una vecchia pompa che serve per gonfiare le speed bag e una grossa chiave inglese scrostata e arrugginita.

    Gli altri due cassetti che erano pieni di scartoffie, ora sono pieni di depliant pubblicitari.

    La sala che avevo di fronte era enorme e si sviluppava tutta verso destra, le pareti erano dipinte di rosso scuro e le grandi colonne nere sostenevano l’alto soffitto che era rinforzato da travi a vista di acciaio, dalle quali scendevano catene o grosse funi alle quali erano attaccati come cadaveri decine di sacchi di ogni peso e misura consumati dai pugni.

    In buone condizioni c’erano solo i quattro ring regolamentari, il resto era vecchio, rotto, storto, sporco, arrugginito o dimenticato.

    Che vuoi?, mi ha chiesto una specie di mastino dalle spalle larghe e grosse con il viso tutto butterato, i pori dilatati e il naso completamente schiacciato.

    Stava lavorando alla pera veloce alla destra della porta d’entrata e, appena mi ha visto, si è fermato a guardarmi in cagnesco.

    Era più alto di me di una spanna e più vecchio di almeno 15 anni, era tozzo e a giudicare dall’odore acre del suo immondo sudore la pancia gonfia veniva costantemente riempita da birra.

    Vengo dall’Italia, vorrei vedere la palestra… vorrei allenarmi.

    Italia! Ah! Italia… football, spaghetti… mafia. Ah! Ah!, ha riso.

    Dovevo essergli simpatico, gli italiani piacciono in tutto il mondo.

    Con uno scatto violento e improvviso mi sbatté contro la parete.

    Vai via. Via… e non guardarmi, disse con disprezzo, fece un piccolo spostamento indietro e serrò i pugni.

    Sbirciai oltre le sue larghe spalle, la sirena aveva dato un altro avviso e tutti avevano ricominciato a saltare la corda, a colpire i sacchi, a ripetere i movimenti allo specchio o a combattere. Nessuno si stava curando di me, dovevo risolvere quella questione da solo.

    C’è un proprietario qui?, chiesi deciso.

    Il mastino fece mezzo passo in avanti sollevando le braccia in posizione di guardia, io mossi un passo indietro e anche io sollevai le braccia, ma con un altro atteggiamento, il palmo delle mani era aperto e rivolto verso lui:

    Ok, va bene, me ne vado, dissi, …stai calmo.

    Senza smettere di fissarlo ripresi la borsa che avevo poggiato sul pavimento e uscii.

    Avevo già frequentato palestre con gente simile, il cui unico modo di far valere le proprie ragioni consiste nell’usare il linguaggio della violenza, ero abituato e il mastino, stazza a parte, non mi intimorì più di tanto, ma io ero andato al Gleason’s per imparare il pugilato, non per fare a pugni.

    High Street è la stazione della metro più vicina al Gleason’s e la raggiunsi attraversando un paio di incroci in salita, uno spazio malamente asfaltato utilizzato come parcheggio definitivo di auto sfasciate e

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