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Sono come la sabbia
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E-book397 pagine5 ore

Sono come la sabbia

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Info su questo ebook

Michele è un sottufficiale armiere, single per scelta, un posto di lavoro fisso e un reddito certo, ha vissuto quasi tutta la vita nell'agio e nella tranquillità. Congedato anzitempo, cerca di rendere interessante la sua nuova condizione di pensionato, dedicandosi a sport e arti marziali, praticati da anni e intensificati dopo il congedo. La prestanza fisica e la facilità nell'ottenere attenzioni dal gentil sesso, contribuiscono a renderlo avulso da responsabilità e dalla società reale. Il suo mondo era stato costellato da parate, finte battaglie, nonché, da duri scontri nel corso di missioni in zone di guerra, accettate soltanto per denaro. Il tempo a disposizione abbonda e, per colmare il grande nulla, riscopre la quotidianità seguendo con interesse fatti di cronaca nera. Una vicenda in particolare lo porta all'interno di un mondo che - per superficialità e individualismo congeniti - non ha potuto e voluto conoscere. Per senso di colpa e noia, ma soprattutto perché il destino lo impone, decide prepotentemente di entrarvi, ovviamente da protagonista. L’umano coinvolgimento emotivo si tramuta molto presto nel desiderio di proteggere e aiutare persone sfortunate oggetto di violenze, ritenendo doveroso scendere in campo con strumenti che conosce, ma con modalità e risultati pieni d’incognite.

All’interno della sua “nuova vita”, si alternano personaggi dalla forte personalità - che in alcuni momenti sembrano mettere in ombra il protagonista - anche loro alla ricerca di una vita migliore e di una dignità senza compromessi. Le azioni svolte appaiono di straordinaria violenza, pericolosamente improvvisate, ma anche di machiavellica raffinatezza e messe a punto con ossessiva precisione.

La parte “nera” del protagonista si alterna, quasi con leggerezza, a momenti poetici e di vita comune, mettendo in risalto - con sorprendente naturalezza - nobili aspetti caratteriali apparentemente in contrasto con la “missione” scelta. L’intera storia del protagonista si muove fra violenza, amore, gioco, e la tenerezza di un padre che non è stato; Il rispetto incondizionato per la sua compagna e per le persone di buona volontà.

Qualcuno mette in guardia il protagonista dalle ambiguità e dalle trame occulte dell’eterno e ingannevole conflitto tra bene e male.
LinguaItaliano
Data di uscita14 set 2014
ISBN9786050321722
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    Anteprima del libro

    Sono come la sabbia - Enrico Grasso

    55

    Capitolo 1

    Dicevano che la disciplina, il sacrificio, la fatica e l’amore per la Patria, fossero gli unici elementi che ci avrebbero consentito di diventare veri uomini. Ognuno di noi sapeva che dopo quell’anno di transizione sarebbe arrivato il momento delle scelte, quelle che ci avrebbero catapultato nel mondo degli adulti e del lavoro. Per quanto fossimo convinti di essere divenuti veri uomini, la cosa faceva paura. I sogni e l’ottimismo ci aiutavano a immaginare un futuro radioso e di avere ottenuto il lasciapassare per la conquista del mondo. In verità l’obiettivo era meno ambizioso ma maledettamente improbabile: trovare un lavoro piacevole e ben pagato!

    Erano gli anni settanta, gli anni in cui la maggior parte dei ventenni subì l’esperienza militare obbligatoria ed ebbe quelle illusioni. Uno dei tanti ero io, che però decisi diversamente; non perché fossi più furbo, ma semplicemente per pigrizia. I grandi progetti di vita non rientravano tra le mie aspirazioni. Prossimo al congedo - in controtendenza - accettai il consiglio del maresciallo armiere. Chiesi la ferma volontaria e proseguii la vita militare sino alla pensione, ottenuta a soli quarantanove anni grazie a una serie di agevolazioni e missioni all’estero. Nel corso di quegli anni tutto era certo e noiosamente scontato. L’unico evento tragico si consumò con la perdita di mio padre e, poco dopo, di mia madre. Quelle circostanze mi fecero capire quanto fosse importante prendersi cura di se stessi. Ritenevo possibile e doveroso tentare di vivere più a lungo e meglio, applicando alcune semplici regole: alimentazione sana, regolare attività fisica e ridurre lo stress. Avevo già cominciato scegliendo una professione fin troppo tranquilla, a parte le missioni in zone di guerra che accettavo esclusivamente per denaro.

    La mia giornata lavorativa in armeria era di sei ore, ma soltanto una minima parte era di attività vera, che consisteva nella consegna e nella ripresa in carico delle armi che distribuivo al personale adibito alla vigilanza del sito. L’armeria, come pochi altri comparti, aveva una certa autonomia rispetto agli schemi notoriamente inflessibili. Il mio capo, un maresciallo armiere, era uno degli anziani più rispettati e temuti. Pare conoscesse tutto di tutti, uno di quelli sempre disponibili a far favori di ogni genere e di approfittarne al momento opportuno. La sua attività di delatore, ruffiano e opportunista, lo teneva lontano dal suo vero lavoro dandomi la possibilità di impiegare il tempo liberamente. Ebbi modo di leggere e imparare tutto ciò che la scuola non aveva avuto il tempo di insegnarmi, a causa del mio volontario, prematuro ritiro. Quell’onesto e tranquillo lavoro in armeria durò ventotto anni.

    Il primo periodo dopo il congedo trascorse in tranquillità. Organizzavo la strana vita da pensionato in modo da tenermi occupato più a lungo possibile, evitando pantofole, divano e tivù. Ero convinto che l’unione di tali elementi riducesse la vita. Dovendo quindi esorcizzare la paura di una morte precoce, mi dedicai con impegno alla cura del corpo e, con fatica, anche dello spirito. Frequentavo una palestra bene attrezzata dove praticavo arti marziali, in aggiunta al tennis e tanta corsa. Avevo sempre curato la forma fisica e l’abbondante tempo libero mi permetteva d’implementare l’attività motoria.

    Niente alcol, a parte un bicchiere di buon vino a pasto, cibi rigorosamente biologici e zero sigarette. Insomma, una vita apparentemente perfetta. Ma non era così. Da qualche tempo aleggiava una vena di tristezza, probabilmente causata dall’assenza di una compagna e forse anche di figli. Mi aveva sempre spaventato l’idea di costruirmi una famiglia, pensavo alle responsabilità, i sacrifici, la paura di perdere la mia compagna o, ancor peggio, i figli; il rischio di un rapporto conflittuale, la separazione e chissà cos’altro. Il timore mi faceva fuggire al primo abile tentativo di stabilizzazione del rapporto, da parte di compagne occasionali che si susseguirono negli anni. Più passava il tempo, più si consolidavano le mie convinzioni non lasciando spazio alla naturale flessibilità, fondamentale per una probabile, armoniosa e duratura vita di coppia. A parte i rari momenti di scoramento, la vita da single mi calzava a pennello. Un certo sex appeal mi consentiva brevi avventure volte ad appagare le esigenze di maschio medio. Le donne invece si concedevano con il preciso obiettivo di accalappiare lo scapolone maturo, belloccio, aitante e agiato; ma soprattutto con un lavoro sicuro e rispettabile. Il fascino della divisa completava il quadro, già irresistibile. Vedersi sfuggire da un giorno all’altro un tale partito suscitava in loro frustrazione e rabbia che, in alcuni casi, diedero luogo a vere e proprie persecuzioni.

    Inconsciamente e non, ero l’antitesi dei miei genitori: principalmente di mio padre, che aveva trascorso quasi tutta la vita nel suo laboratorio a riparare e creare splendidi gioielli. Seduto dietro il suo banchetto illuminato da una vecchia lampada snodata, stava immerso nella penombra antica quanto la bottega. Da bambino trascorrevo giornate intere a guardarlo in silenzio mentre lavorava, e non capivo come riuscisse a trovare istantaneamente qualunque cosa fosse sul piccolo piano di lavoro, colmo di attrezzi posti alla rinfusa. Un giorno mi fece provare il monocolo e finalmente capii perché riusciva a trovare con facilità anche la più piccola scaglia d’oro sepolta tra pinze, pinzette, martelli, frese e seghetti. Lo stocco - il blocco di legno sporgente dove appoggiava il gioiello da lavorare - portava i segni del tempo, piccole ferite inferte da frese, lime e affumicature da cannello. Ricordo ancora l’odore delle lunghe collane di ossi di seppia messe a essiccare, con le quali creava gli stampi. E poi, l’odore stantio del tabacco di un numero incalcolabile di sigarette che in parte fumava e in parte si consumavano poggiate al posacenere rosso con la pubblicità del Cinzano. Il fumo fermo a mezz’aria, catturato dal fascio di luce della vecchia lampada, ammorbidiva le forme rendendo quel luogo irreale. Mia madre non usciva quasi mai, fatta eccezione per le periodiche visite mediche. Dipendeva totalmente da mio padre, costretto a farsi carico di ogni cosa riguardasse la famiglia. Fortunatamente, nel corso degli anni, era riuscito a farsi un’ottima clientela che gli aveva consentito di raggiungere una certa tranquillità economica. La fragilità, le paure e le malattie vere o presunte di mia madre accompagnarono ogni istante della nostra vita. La causa scatenante fu la mia nascita e la depressione post parto, alla quale si aggiunse un’ipocondria delirante. Per questa ragione decisero di non avere altri figli.

    Il tempo a disposizione mi consentì di riprendere anche la lettura, che riscoprii con piacere. Ero interessato prevalentemente a fatti di cronaca nera, criminalità e processi. Le storie mi apparivano come se facessero parte di un mondo che non mi apparteneva, come se fossero racconti di fantasiosi scrittori affascinati dall’eterno conflitto tra il bene e il male.

    Le giornate trascorrevano quasi tutte uguali: colazione al bar sotto casa, chiacchierate inutili con il gestore, sosta in edicola, piccola spesa rigorosamente biologica presso il vicino centro commerciale, rientro a casa per la lettura dei quotidiani e preparazione del pranzo. Il pomeriggio era dedicato allo sport che m’impegnava quattro giorni su sette, alternando tennis, body building e jogging. Il mercoledì partecipavo a lezioni di spada e coltello, nella piccola ed essenziale palestra del maestro Kyo Ysoshi. Il venerdì era il giorno del Kung fu. La mia corporatura da novantacinque chilogrammi e un metro e ottantacinque d’altezza aveva bisogno di allenamenti costanti e impegnativi, indispensabili per ottenere velocità e armonia nei movimenti. Nonostante i miei cinquantatrè anni suonati, il risultato sembrava apprezzabile. Infine, una volta al mese mi recavo al poligono con le mie pistole, che collezionavo da anni, tutte detenute regolarmente e conservate in cassaforte.

    Dopo una vita passata in armeria era quasi inevitabile una certa simpatia per le armi. Quando le tiravo fuori per pulirle o semplicemente per guardarle, pensavo alle cifre esagerate che avevo speso. Nella collezione spiccava la famigerata Walther P38 in dotazione alle forze armate tedesche durante la seconda guerra mondiale, riapparsa in rare occasioni durante gli anni di piombo. La famosa Smith & Wesson 44 magnum a canna lunga; e, di recente passione, alcuni coltelli da collezione e spade giapponesi. La mia Cristianità e la collezione di armi erano in evidente contrasto. Mi consolava pensare che, qualche secolo fa, anche i Papi andavano in guerra armati allo scopo di indurre al pentimento e assolvere dai peccati.

    Dopo tanti anni di armi tra le mani, le vedevo oramai soltanto come interessanti oggetti da collezione. Mi sentivo vicino a Dio pur vivendo con alcune contraddizioni, inclusa la scelta di non aver voluto consolidare legami sentimentali e tanto meno crearmi una famiglia. Forse era arrivato il momento di pensarci seriamente. Alla mia età e con la mia ritrosia atavica, sapevo soltanto che per cominciare dovevo trovare una brava donna, e che il resto era ignoto.

    Capitolo 2

    Nel corso delle letture, prevalentemente sul web, trovai una storia che mi colpì particolarmente e che fece vacillare il mio scudo protettivo chiamato cinismo. Quel caso racchiudeva i crimini peggiori.

    A Napoli era stata giustiziata una donna per aver denunciato e testimoniato contro il compagno della sorella, vittima di ripetute violenze. Nell’ultimo litigio aveva assistito impotente alle percosse che avevano reso la sorella paralitica. Quella notte non riuscii a dormire pensando alla storia appresa in modo frammentario e ripresa dai telegiornali della sera. Le indagini vedevano forti indizi a carico del violentatore, quale mandante dell’omicidio. Per la prima volta provai rabbia e una gran voglia di vendetta. Associai l’inaspettata ma umana collera all’idea di una famiglia mia che da qualche tempo immaginavo con cauta gioia. Fatti di quel tipo potevano accadere a chiunque. Era impossibile comprendere il dolore di una donna, costretta sulla sedia a rotelle dalle violenze inflitte dall’indegno compagno, sospettato anche di essere il mandante dell’omicidio della sorella. Non riuscivo a trovare un solo motivo che potesse indurre alla clemenza e tanto meno al perdono. Erano invece tanti i motivi che suscitavano odio.

    La mattina seguente, contrariamente alle precedenti che si susseguivano uguali da anni, mi svegliai particolarmente agitato e confuso. Mi guardai attorno, la mia casa era finemente arredata e conteneva tutto ciò che l’agio e il buon gusto mi consentivano di possedere. Mi resi conto, con un po’ di vergogna, che la mia esistenza non serviva a nessuno. Per volontà e per eventi favorevoli, avevo organizzato la mia vita esclusivamente per compiacere il mio ego non pensando al disagio che affliggeva tanta gente, privata di ogni sostentamento da una società impietosa. La fortunata condizione di uomo agiato, rimasto distante da ciò che avrei dovuto vedere e comprendere, non mi era più congeniale. Stavo assistendo al risveglio della mia coscienza in letargo da troppo tempo. Il mio modo illusorio di essere Cristiano non era altro che il risultato di un’educazione familiare il cui fine era proteggermi dal male, farmi rigare dritto e vivere con la paura dell’inferno.

    La solidarietà, l’amore, il senso di giustizia e l’ideale dell’uomo guerriero che mio padre mi aveva trasmesso, erano finiti in un angolo remoto del mio spirito, sostituiti da cinico egoismo contemporaneo. Il benessere e il conseguente stile di vita avevano minato i miei valori originari. Avevo cinquant’anni suonati e mi comportavo ancora come un giovane viziato privo di responsabilità. Lo sport, le arti marziali, le armi e una sagoma bucherellata servivano soltanto a riempire il tempo che scorreva sempre più veloce. M’immaginai vecchio e solo. Ripensai a mio padre sul pavimento del suo vecchio laboratorio, stroncato da un infarto causato da una rapina. Era ormai anziano e sovrappeso; da qualche tempo il suo cuore era compromesso, anche a causa della grande quantità di sigarette fumate in ogni momento della giornata. Se avesse avuto vent’anni di meno, quei due spostati sarebbero usciti con le ossa rotte.

    Nella tarda mattinata di quel giorno telefonò mia madre comunicandomi che papà non era ancora tornato con la solita spesa per il pranzo. Mi precipitai in negozio, dove trovai la polizia. Lui era lì sul pavimento, con gli occhi socchiusi. Più tardi appresi che si era trattato di un infarto e che, se fosse stato soccorso, probabilmente si sarebbe salvato. Avevano rubato tutto quanto era possibile e l’avevano lasciato morire. Avevano violato il tempio della mia infanzia e giovinezza.

    Per quanto tentassi di essere presente e occuparmi di mia madre, già da quel giorno aveva deciso di morire. Resistette un mese, nutrita amorevolmente dalla vicina di casa che tentò di tutto per ridarle speranza e voglia di vivere.

    Era la lettura che mi aiutava a capire cosa realmente accadeva attorno a me e nel mondo. Racconti di vita comune rammentavano agli uomini di buona volontà qual era la loro missione. I messaggi di solidarietà, giustizia e speranza erano ricorrenti un po’ in tutte le mie letture. Tutti ne parlavano ma pochi tramutavano le parole in fatti e quei pochi, in alcuni casi, pagavano con la vita il loro impegno a difesa dei valori umani e di giustizia.

    Il trascorrere dei giorni consolidava il vero significato delle cose, che osservavo da un nuovo punto di vista. Quel tragico fatto di cronaca risvegliò il germe della giustizia, a qualunque costo. Fin da bambino ero attratto da racconti e film nei quali i buoni sconfiggevano i cattivi. Negli anni a venire capii che dietro la finzione cinematografica e la fantasia dei racconti c’è la realtà. Da una parte la società malata e dall’altra l’esigenza di giustizia che condanna, assolve e redime. Purtroppo però, le statistiche danno una minima percentuale di redenti e la quasi totalità continua a delinquere.

    Non cercavo motivi che sedassero la mia inquietudine ma fatti che dessero forza alle mie ragioni. Temevo che la storia dolorosa che occupava i miei pensieri diventasse un pretesto per auto-legittimare la parte peggiore di me e quelle che sarebbero state le azioni conseguenti.

    Non avere legami stabili mi dava la possibilità di decidere liberamente cosa fare della mia vita. Il senso di giustizia ereditato dai miei genitori, sopito da anni, stava emergendo in modo estremo. Ero passato dal cinismo puro al senso di colpa per non aver fatto nulla per gli altri e nulla di onorevole per me, colpevole anche di voluta mediocrità intellettuale alla quale mi ero aggrappato dopo la morte di mio padre.

    Capitolo 3

    L’arrivo della primavera era evidente. Aprii la finestra della cucina arredata in stile minimalista. Così mi dissero gli arredatori, anche se di minimo non aveva nulla, tenuto conto della quantità di roba che mi ritrovavo in casa e l’enorme costo sostenuto. A parte il termine fuorviante, l’ambiente era accogliente e funzionale.

    Il caldo insolito degli ultimi giorni aveva anticipato lo sbocciare dei gelsomini, da sempre aggrappati alla recinzione che separava il piccolo giardino dalla strada. L’inconfondibile profumo intenso e delicato raggiungeva la mia finestra al primo piano della piccola palazzina risalente ai primi del novecento. Tutto l’arredamento era gradevolmente in contrasto con la vetusta architettura dell’appartamento che non feci modificare rifiutando, tra l’altro, l’installazione di un orribile controsoffitto fonoassorbente consigliato caldamente dall’impresa che eseguì i lavori di ristrutturazione. Con quel temuto tocco di modernità avrebbero coperto i soffitti a volta e alcune parti ancora affrescate. La cucina era l’ambiente più ampio di tutta la casa. Al centro c’era un monoblocco laccato nero con lavandino; i fornelli completi di costosissimi utensili riposti in avveniristici contenitori, integrati al piano di marmo bianco di Carrara. A seguire, l’ampio tavolo di acciaio con piano di vetro satinato e quattro poltroncine dalla struttura scheletrica foderate in pelle rosso bordò. Un’intera parete era occupata da una serie di armadi bianchi con ante scorrevoli, contenenti tutti gli elettrodomestici immaginabili. Sulla parete opposta, il divano di pelle bianco e il tavolo basso in acciaio e cristallo, sotto al quale giaceva il tappeto sale e pepe. Di fronte al divano, fissata a parete, la tivù al plasma da quarantacinque pollici e, nel ripiano sottostante, l’impianto dolby e lettore dvd. Con tutta quella roba costosissima avevo riempito casa illudendomi di aver colmato non solo gli spazi, ma anche altri vuoti meno visibili.

    Teresa veniva due volte a settimana per sistemare e pulire casa e il sabato faceva il bucato e stirava. Era una donna dal passato turbolento che raccontava senza falsi pudori ogni qualvolta ne aveva l’occasione, soprattutto quando percepiva il passaggio fugace di compagne occasionali, che da anni si avvicendavano lasciando tracce e che lei sistematicamente intercettava.

    Mi preparai il tè rosso ad alto potere dimagrante, ricco di fosforo, ferro e vitamina C. Gli antichi giapponesi ritenevano che tale bevanda fosse in grado di agevolare la circolazione dell’energia vitale in tutto l’organismo, stabilizzando equilibrio tra mente e corpo. Stravaccato sul divano iniziai la visione dell’ennesimo film di scontri tra buoni e cattivi, tra bene e male, che alla fine aggravò i miei conflitti.

    Quella notte sognai un luogo sconosciuto dall’atmosfera onirica: mi trovavo in una grande piazza con poche persone immobili e un tavolo al centro con due sedie vuote. Cercavo di avvicinarmi a una delle sedie, mi sentivo stanco e avevo bisogno di sedermi prima che le gambe cedessero. Nonostante gli sforzi procedevo lentamente e la paura di cadere mi rallentava ancora di più. Sapevo che se fossi caduto non mi sarei più rialzato. I presenti mi guardavano impassibili. Caddi e mi svegliai. Non sapevo quale significato contenesse ma certamente la sensazione fu sgradevole. I miei insani progetti cominciavano a disturbare il sonno, procurando eccitazione e inquietudine.

    La mattina seguente, come ero solito fare, andai al bar da Mario per la colazione e mi resi conto che, per la prima volta, avevo indossato gli stessi indumenti del giorno prima.

    «Buongiorno Michele, bene alzato… che faccia!» disse il buon Mario.

    «Buongiorno Mario».

    «Cos’è, non stai bene?», chiese con tono accorato.

    «Sì, sto bene, ho solo un po’ di mal di testa».

    «Ecco il cornetto caldo, un minuto e arriva il cappuccino, non dire niente, lo so: tiepido, con caffè d’orzo e poca schiuma».

    «Bravo, grazie», risposi annoiato.

    Presi posto al solito tavolo; guardavo le persone presenti: alcune chiacchieravano, altre con la faccia triste, altre allegre e sorridenti. Tutto poteva capitare a chiunque. In pochi secondi la vita di ognuno poteva cambiare in meglio o in peggio, senza preavviso: una vincita milionaria, un incidente, un attentato, un lutto o una malattia. Eravamo tutti così vulnerabili, in balia del tempo e dei suoi eventi imprevedibili. Finii il cornetto e il buon cappuccino e salutai con finto buonumore.

    Tornai subito a casa, avevo l’esigenza di saperne di più su quella storia. Posai le chiavi dentro la solita ciotola di smalto rosso che da due anni stava lì, sopra la mensola dell’ingresso. L’avevo ricevuta in regalo dall’ultima donna che finse di volermi bene, con la quale si era creato uno strano rapporto conflittuale apparentemente immotivato. In fondo, la signorina aveva qualche problemino: cercava la lite che, non casualmente, si risolveva a letto e con una certa veemenza. Se non fosse stato per la mia eccessiva normalità, che smorzava un certo tipo di ardori, saremmo arrivati a forme estreme non di mio gradimento.

    Capitolo 4

    Presi il notebook e mi sistemai in cucina, dove trascorsi alcune ore sul web. Le notizie sul fatto erano tante, con dettagli diversi ma uguali nella sostanza: la donna era stata uccisa a Napoli con quattro colpi di pistola calibro 7,65 per mano di due killer in moto. Pare si trattasse della vendetta del cognato denunciato dalla povera vittima, che da testimone oculare lo aveva indicato come unico responsabile delle violenze che avevano reso la sorella paralitica. Il violentatore, S.S., fu arrestato, processato per direttissima e condannato a otto anni e quattro mesi di reclusione, da scontare nel carcere di Carbia in provincia di Modena. Gli autori materiali dell’omicidio, non ancora identificati, sarebbero stati assoldati dallo stesso S.S.

    Mi venne in mente la frase, di un film o che avevo letto da qualche parte, "Dio ha generato uomini imperfetti, la giustizia su questa terra sarà anch’essa imperfetta". Senza pensarci troppo, decisi che la mattina seguente sarei andato a Napoli.

    La notte trascorse abbastanza tranquilla. Mi alzai presto e non avevo pianificato nulla. Mi recai alla stazione Tiburtina con un taxi; avevo con me l’inseparabile zainetto nero, ovviamente griffato. Avevo messo dentro la fotocamera, il cellulare, due mele, un succo d’arancia, le chiavi di casa e pochi altri effetti personali. Come tutte le stazioni delle metropoli, soprattutto nelle prime ore del mattino, era piena di pendolari italiani e stranieri che iniziavano freneticamente una nuova giornata di lavoro, nella speranza che almeno una volta i treni sarebbero stati puntuali. Qualcuno ancora assonnato accendeva sigarette appena sceso; altri, dopo quattro tirate consecutive le spegnevano un secondo prima di salire. Molti uomini e donne di colore arrancavano, carichi di enormi fagotti contenenti mercanzia di provenienza ignota. Persone di ogni etnia e ceto sociale entravano e uscivano da treni malridotti e fatiscenti. Le carrozze erano sporche, imbrattate da scritte incomprensibili lasciate da graffitari insonni affetti da disagio cronico. La fila alla biglietteria era la solita tiritera, con il solito coatto ultimo arrivato che finge di non capire dove inizia la fila e litiga con l’irremovibile anziano impavido.

    «Buongiorno. Per Napoli andata e ritorno, grazie».

    «Ventinove euro e cinquanta, parte tra otto minuti dal binario tre».

    Era ormai passata l’ora di punta e il treno semivuoto mostrava ancora più evidenti i segni di vandalismo e pulizia insufficiente. Presi posto. Da qualche tempo avevo scoperto quanto fosse interessante osservare le persone e fantasticare su chi fossero, come vivessero, se sole o sposate, come fossero le loro case e altri aspetti che mi lasciavano immaginare la loro quotidianità. Nella fila accanto, una signora dormiva come fosse sulla poltrona di casa. Teneva la borsa sulle gambe protetta dalle mani che stringevano i manici. L’aspetto era modesto ma dignitoso, sul volto e sulle mani erano evidenti i segni della fatica. I tratti del viso, lo sguardo, la postura e le rughe raccontavano la storia di ognuno. Provavo sincera compassione pensando a quelle vite difficili e silenziose.

    Qualche istante prima che il treno desse il primo strattone, un uomo sulla quarantina arrivò dalla carrozza precedente; sostò qualche secondo e prese posto accanto alla signora, che aprì gli occhi per pochi istanti, guardò il suo vicino, sistemò i manici della borsa tra le mani e riprese sonno. Due ore di viaggio e sarei arrivato nella città della povera donna uccisa. L’uomo appena arrivato non riusciva a stare fermo, armeggiava inutilmente con il telefonino, si toccava il naso e i capelli; con pollice e indice asciugava i lati della bocca e si girava continuamente a guardare attraverso il finestrino ruotando il busto, dandomi le spalle. La testa della signora assecondava i movimenti del treno mostrando la quantità di sonno arretrato che forse non avrebbe mai recuperato.

    Mi accorsi per caso che ogni qualvolta l’uomo si girava verso il finestrino, mi guardava riflesso nel vetro. Il buio delle gallerie rendeva più nitida l’immagine riflessa. Ci guardammo per pochi secondi, sufficienti perché nascesse un brutto sentimento. I maschi capiscono subito quando scatta quella strana e pericolosa scintilla. Di solito è il preludio dello scontro che può manifestarsi improvvisamente per un futile motivo. Mi voltai, fissavo il sedile di fronte, cercando comunque di carpire i movimenti e le intenzioni di quello strano tipo.

    Trascorse qualche secondo e la mano destra iniziò ad armeggiare con l’evidente intenzione di aprire la tasca laterale della borsa dell’ignara signora dormiente. Il sentimento di antipatia si tramutò in odio accompagnato dal desiderio di colpirlo, ma lasciai che si spingesse oltre; guardai la cintola ed eventuali rigonfiamenti. Apparentemente era pulito. La tasca della borsa della signora cedette.

    Le mie abitudini, la serenità, la noia, il benessere e la conseguente spensieratezza avrebbero subìto una piccola scossa. I ricordi delle missioni all’estero erano ancora vivi e mi sentivo pronto al primo battesimo del fuoco, stavolta da civile. Ci sarebbe stato lo scontro e sarei stato io a provocarlo. Era una buona occasione per iniziare a muovere le mani e l’idea di fare a botte fuori dalla palestra mi eccitava.

    Stesi il mio lungo e solido braccio come la sbarra di un passo carraio e appoggiai la mano destra sulla sua spalla sinistra, senza distogliere lo sguardo dal sedile che avevo di fronte. Girò la testa di scatto e sfilò la mano dalla tasca della borsa.

    Rimanendo immobile, chiesi con tono tranquillo ma deciso: «quanto manca per Napoli?».

    «Quattro fermate» rispose con tono indispettito.

    «Tu invece scendi alla prossima oppure alla quarta» dissi, voltando lo sguardo verso i suoi occhi.

    «Ma tu che voi?» rispose sorpreso e infastidito.

    «Voglio che sparisci alla prossima fermata oppure scendiamo insieme alla quarta».

    Iniziai a stringergli la spalla senza distogliere il mio sguardo dal suo.

    «Facciamo alla prossima, e ti chiudo la bocca» disse spavaldo.

    Non risposi, mollai la sua spalla e lui tolse definitivamente la mano dalla borsa. Mi girai nuovamente con calma, in attesa della fermata che dopo un po’ fu annunciata dalla voce quasi umana.

    "Prossima fermata Landra, stazione di Landra"

    Poche volte mi era successo di fare a botte seriamente. Con i miei commilitoni ci si picchiava spesso per gioco e per misurare la nostra resistenza a prenderle; e poi in palestra, dove vige lealtà, onore e rispetto per l’avversario ed è proibito fare del male volutamente durante gli allenamenti. Nel mondo civile non è così, nessun valore né rispetto, e l’avrei capito di lì a poco. Quando due maschi si sfidano, fuori dal gioco e dalle palestre, sono pronti a uccidere o a morire. E’ l’istinto primordiale dell’uomo guerriero e cacciatore.

    L’aspetto curato e il mio modo di parlare induceva gli avversari a sottovalutarmi, e questo giocava a mio favore. La sorpresa era uno degli elementi che solitamente mi consentivano di cavarmela. La tattica era collaudata e funzionava. L’unico svantaggio era proprio la mancanza di cattiveria che veniva fuori non appena ricevevo i primi colpi. Fortunatamente incassavo bene. Marco, il mio maestro di Kung fu, me lo ripeteva da anni, devi colpire per primo, ma temevo di non riuscire a dosare il  primo colpo e di arrecare danni all’avversario. Forse il tizio si chiedeva quanto fosse incosciente uno come me nel cercare la lite con uno come lui, certamente vissuto in certi ambienti. Tra l’altro, anche se portati magnificamente, i miei anni c’erano tutti, ma mi fidavo della preparazione e del mio corpo datato e potente. In ultima analisi, la corsa, che praticavo quasi giornalmente, mi avrebbe consentito di fuggire molto velocemente.

    Ricominciò ad agitarsi, si toccava ripetutamente il naso e i capelli. Non capivo se era drogato o era alienato di suo. Toccarsi il naso ripetutamente mi fece pensare al gesto incontrollato dei pugili. Dalla corporatura non poteva essere che un peso piuma. L’avrei scoperto presto.

    Il treno entrò in galleria e iniziò a rallentare "Landra… stazione di Landra". Mi alzai prima di lui, mostrando sicurezza e voglia di chiudere in fretta la questione. Continuando con la strategia psicologica, mi avviai verso l’uscita dandogli le spalle. Anche se rischioso, serviva a fargli credere che si trovava di fronte a uno sprovveduto.

    Percepivo quasi il suo respiro. Cercavo di applicare gli insegnamenti del maestro Ysoshi sulla percezione, elemento fondamentale per un buon combattimento.

    Mi voltai a guardare la signora che, con calma, stava indossando la sciarpa arancione, totalmente incompatibile con gli altri colori. Il tizio mi stava a pochi centimetri; forse sbagliavo a dare le spalle a un balordo incazzato.

    Appena scesi mi sorpassò con passo veloce dando l’impressione che volesse svignarsela. Sparì dietro l’angolo del fatiscente fabbricato del bar. Era evidente che anche lui aveva i suoi metodi da strada. Probabilmente conosceva il posto e voleva portarmi nel suo terreno. Girai l’angolo, lo vidi attraversare i binari che, a giudicare dalle sterpaglie, da qualche tempo non vedevano treni, e sparì dietro alcune carrozze in disuso. Feci il suo stesso percorso, tranne l’ultima parte. Con sufficiente agilità m’infilai sotto una carrozza cercando di vedere le sue gambe, ma era sparito. Forse era salito su uno dei vagoni, magari con l’intenzione di saltarmi addosso. Uscii dalla parte opposta, mi allontanai dalle carrozze percorrendone la loro lunghezza. Nessuna traccia. Era scappato.

    Non finii di pensarlo che lo vidi sbucare da un cumulo di traversine, distanti una decina di metri. Con lo sguardo feroce avanzava verso di me tenendo la mano destra quasi coperta dalla manica del giubbotto ma la posizione dell’indice e il medio

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