Memorie di un pilone giramondo
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Letteratura - racconto lungo (34 pagine) - Centoventi chili, una vita sempre nella mischia. Un racconto coinvolgente e appassionante.
Dicono che i piloni, nel rugby, partecipino a un gioco tutto loro. A volte non è più questione di punteggio, è bisogno di sfidarsi, di andare oltre, di non arrendersi, di trovare una posizione migliore per affrontare il destino. Il destino e altri piloni, ovviamente.
Ken non sfugge a questa descrizione: a venticinque anni se ne va dal Nebraska in cerca di stimoli che il paesino e una famiglia con una mentalità relativamente chiusa non gli possono più dare. Inseguirà i suoi sogni in un’Europa che sta cambiando, tra una traduzione e una lezione in una scuola privata, tra un amore sfuggito prima del fischio d’inizio, innaffiando il tutto di vino, cicchetti e personaggi da osteria. Il tutto con un solo denominatore comune: il rugby. Che è bisogno di sfidarsi, di andare oltre, di non arrendersi, di trovare una posizione migliore per affrontare il destino. Sempre in prima linea.
Cristian Lovisetto è nato a Camposampiero (PD) nel 1986. Da sempre appassionato di scrittura e di rugby, nel 2016 ha creato il blog Anonima Piloni, che da allora raccoglie vite, avventure e racconti a sfondo ovale. Dal 2017 collabora con Npr-Non Professional Rugby. Nel 2018 il suo racconto Il pallone rimbalza male è stato selezionato per l’antologia Racconti dal Veneto, edita da Historica Edizioni. Nel 2019 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti a tema ovale, Storie dell’Anonima Piloni.
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Anteprima del libro
Memorie di un pilone giramondo - Cristian Lovisetto
Piloni.
1
Turisti.
Li riconoscerei a chilometri di distanza.
Quell’aria allegramente sperduta di chi da queste parti non ha messo mai piede, quella disperata voglia di spezzare la loro classica routine scarpinando per chilometri senza trovare né bandolo né matassa. Quell’incredibile capacità di sembrare stranieri ovunque, persino a pochi metri da casa loro, figurarsi qui. Sono in ferie, sono altrove. Altrove dal loro solito essere. Tedeschi, con quei loro Klamotten incredibilmente fuori scala cromatica. Cinesi e giapponesi, coi loro occhi vispi, ma mai vispi quanto i loro polpastrelli su quei selfie-stick. Inglesi, con quell’accento spigoloso, rigido e quella postura fintamente svagata.
Lo so, con gli inglesi a volte sono particolarmente severo.
È che sono americano, per me gli inglesi sono quei parenti che meno vedi e meglio stai. Sono americano e sono stato turista anch’io, qualche tempo fa. Me ne rendo conto, è bizzarro dire – sono stato un turista anch’io – come se un giorno ci si fermasse dal girare il mondo così, a comando.
No, davvero, credo di aver appeso la mia anima da turista al chiodo. A Venezia ho trovato la mia pace dei sensi, my cup of tea, la mia tazza di tè, e da qui non ho più voluto muovermi.
Era il 1985, avevo venticinque anni.
Venticinque anni passati a studiare, a giocare a rugby e a passare il tempo libero spaccando legna nella fattoria di mio padre, nel Nebraska, in un paese di forse mille anime, tra tempeste che ti levano la pelle e sole che ogni tanto si ricorda di passare. Una famiglia affettuosa, la mia, niente di drammatico né di socialmente degradante, ma che avrebbe potuto esserlo di più se solo fossi stato come mio padre desiderava. Papà era un figlio di quelle terre: orgoglioso, forte, duro, poco incline alla socievolezza con gente di altri isolati.
Amante del football e della pesca, anche se la sua amica più fidata era la scure.
Running back di discreto successo, fuori e dentro al campo, in gioventù. Mio fratello ha preso tutto da lui, io no. Io per anni sono stato il figlio – diverso. – Per carità, nessuno mi ha fatto mancare mai un pasto caldo o un bacio della buonanotte, ma il fatto che mi piacesse cucinare, fossi appassionato di sport che dai miei progenitori era ritenuto ad andar bene – un passatempo per idioti – e che non mi dispiacesse passare il mio tempo fuori dalla tenuta di nostra proprietà – soprattutto d’estate – faceva storcere lo sguardo ai miei familiari.
Soprattutto a mio padre, perfetto esemplare del pater familias del Nebraska: poche escursioni fuori dai confini della sua proprietà, poche distrazioni dai doveri familiari e poche parole, tutte perfettamente tagliate con l’accetta. La frase che risuonava più spesso alle mie orecchie era qualcosa simile a La cucina era per le donne
. Poi respirava e, con un tono quasi teatrale, concludeva: – …e il rugby è uno sport per checche.
Se non l’avete ancora capito, mio padre non ha mai capito fino in fondo il concetto di pari opportunità
. Ma mica odiava veramente chi non condivideva i suoi gusti sessuali. Quel termine – checca – l’aveva presumibilmente imparato da mio nonno, altro tipo che credo sia uscito da casa solamente per andare a messa e che raccontava orgogliosamente di non aver mai avuto bisogno di