Di boxe e di vita: Un pugile italiano a New York
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Anteprima del libro
Di boxe e di vita - Bruno Panebarco
Bruno Panebarco
DI BOXE E DI VITA
Un pugile italiano a New York
EEE - Edizioni Tripla E
Bruno Panebarco, Di boxe e di vita. Un pugile italiano a New York.
© EEE - Edizioni Tripla E, 2021
ISBN: 9788855391603
Collana I Mainstream
, n. 33. Prima edizione.
EEE - Edizioni Tripla E
di Piera Rossotti
www.edizionitriplae.it
Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.
In copertina: foto di Luca Michael Pasqua.
0
Seduti su un muretto si possono raccontare cose, persone, vite. A Barriera di Milano, a Torino, le sere d’estate a volte sono piuttosto movimentate. Altre, come quella in cui Giovanni e Ale mi stavano seduti di fronte, non si muove una foglia. Ale mi chiese di raccontare com’era andata oltre oceano alcuni anni prima. Se avessi da raccontarvi solo i fatti della mia vita non starei neanche a cominciare, ma io vi racconterò di una epopea, di come si fa la boxe in America, dei miti che hanno popolato l’arte sublime di tirare pugni, di quelli che ho incontrato, con cui ho combattuto. Di quelli che mi hanno mostrato la strada e che mi hanno insegnato a vivere.
Voglio dirvi che la boxe è uno sport di riscatto. Almeno negli States. Non importa se sei povero, se sei nero, né da dove vieni. Se sai combattere puoi arrivare in cima. Certo, non è tutto così lineare, devi trovare appoggi e avere conoscenze, spesso qualche incidente di percorso può buttarti fuori strada ma l’artefice del successo rimani tu, con la tua forza e la tua determinazione.
A guardare bene, la boxe è molto cambiata nel corso degli anni, i pugili degli anni ’50 erano incredibilmente forti perché avevano la fame a sostenerli, gli italiani, gli irlandesi e i neri, tutti accomunati dalla stessa motivazione, il desiderio di riscattarsi. Ora i più forti sono i sudamericani e quelli dei paesi dell’Est, proprio perché loro hanno la stessa fame dei pugili degli anni ’50.
1
A gennaio del 2008 io e Susanna, la mia fidanzata di quel periodo, decidemmo di andare negli Stati Uniti. Per due come noi che stavano entrambi nella boxe, quello che riguardava il pugilato negli States era una sorta di mito. Come fummo a New York ci precipitammo a visitare la Gleason’s Gym, la più famosa palestra al mondo dedicata alla boxe. A volte i miti si esauriscono, tramontano, ma la Gleason’s continua da ottanta anni a sfornare campioni del mondo e medaglie olimpiche. Solo la sede è cambiata un paio di volte. Ora sta a Brooklyn, proprio sul water front, sotto al famoso ponte, ma nel 1937 Peter Robert Gagliardi, che di professione faceva il tassista, la fondò nel Bronx. Lui era di origine italiana e uno si aspetterebbe che aprendo una palestra di boxe in America si degnasse di darle un nome italiano, e in effetti fu quello che fece ma il periodo non era dei migliori per i nostri connazionali oltreoceano, che venivano visti come fumo negli occhi per la posizione del nostro regime, fortemente schierato con i tedeschi, già in aiuto del franchismo nella guerra civile spagnola. E poi al Bronx c’era una fortissima comunità irlandese, che in quanto a boxeur non era inferiore a quella italiana. Non bisognava scontentarla. Così il buon Peter Gagliardi prese il toro per le corna e fece cambiare il proprio nome in Bobby Gleason, ispirandosi a un pugile della sua scuderia che si chiamava in quel modo. Nacque la Gleason’s Gym. A guardarla in quel periodo nessuno si sarebbe mai aspettato che potesse diventare un tempio della boxe. Un solo ring al centro della sala, quattro sacchi pesanti e sei veloci, qualche specchio per gli esercizi e una fila di sedie per gli spettatori. Eppure, per qualche sortilegio tutto americano, subito diventò popolarissima. Già nei primi anni ’40 vi si allenavano atleti che poi sarebbero diventati campioni del mondo, come Phil Terranova e Jake La Motta, il famoso Toro del Bronx e poi Toro scatenato
del film di Scorsese con De Niro. Fu proprio nella sua sede successiva, a Manhattan, dove Gleason decise di spostarsi nel ’74, che venne girato il famoso film. E prima e dopo, Roberto Duran, Muhammad Ali e Mike Tyson calcarono quel ring, diventarono i più grandi pugili del mondo, in compagnia di alcuni Italiani come Vito Antuofermo, Arturo Gatti e Paulie Malignaggi, che manco loro scherzarono in quanto a bravura pugilistica.
Con tutti quei nomi e quelle immagini di combattimenti mitici a girarci per la testa, io e Susanna mettemmo piede nel tempio. Bruce Silverglade, l’attuale proprietario, è un uomo pieno di energia e passione, ereditata in gran parte dal padre. Il suo ufficio è impressionante, colmo di fotografie autografate e di immagini ingiallite di incontri leggendari. Peccato potergli gettare solo uno sguardo frettoloso, non invitati e quasi clandestini in quel luogo di memorabilia. Eppure, qualcosa c’entravamo anche noi. Fatti pochi passi in palestra, ci rendemmo conto che uno dei due pugili sul ring era un mio amico e collega, Floriano Pagliara. Soltanto qualche mese prima avevamo combattuto nella stessa riunione di pugilato nel campionato italiano super welter. Rimanemmo a parlare per un po’, immersi nell’inconfondibile odore acre di sudore e cuoio che sempre impregna le palestre di quel genere.
«Ma sì, ero stufo del pugilato in Italia, la vera boxe è qui, e New York è il suo tempio…» mi disse col fiato corto per il combattimento.
2
Susanna l’avevo conosciuta nella palestra Ilio Baroni, che io frequentavo regolarmente per allenarmi. Non ce ne sono tanti di posti così a Torino, sta in un circolo fondato da ex partigiani delle ferriere e ha un nome gonfio di storia, quell’Ilio Baroni, compagno e militante anarchico a cui è intitolata.
Mi presentarono quella ragazza minuta durante la pausa di un allenamento. Nel gruppetto che si era formato vicino alla macchinetta dell’acqua era l’unica donna. Teneva a bada quattro o cinque ragazzi rispondendo a tono a ogni battuta. Non fui attratto dalla sua bellezza, mentirei a dirlo. Susanna era minuta, non più di un metro e sessanta di altezza, capelli riccioli neri e occhi scuri, profondi, ma sul suo viso splendeva qualcosa di magnetico che rispecchiava la sua bontà d’animo. Solo in seguito capii che mi ero sbagliato su quell’aspetto. Cominciammo a frequentarci anche fuori dalla palestra, senza pensarci troppo ci trovammo affiatati, concordi su tutto quello che riguardava la boxe e sui sogni che avevamo in comune. In Susanna, bontà e durezza convivevano. Erano le sue caratteristiche più spiccate. Voi immaginatevi una bambina che comincia a fare karate e piano piano, nonostante la statura ridotta, sale tutti i gradini, tutti i livelli e le cinture, fino a diventare campionessa italiana ed entrare a far parte della nazionale. Ero affascinato dalla sua storia e questo portò alla mia infatuazione per lei. Forse aveva contato molto nella formazione del suo carattere combattivo il fatto di aver perso il padre in giovane età, un evento che l’aveva resa dura quanto serve per fare la boxe e così aveva fatto strada in quell’ambito.
Quando decidemmo di andare a New York Io avevo 24 anni, lei 22. Approfittammo al volo della proposta di una sorella di mia madre, Antonella, di andare a trovare sua figlia che viveva nel New Jersey, a Towaco Montville. Con mia cugina Consuelo, sua figlia, avevo trascorso un bel pezzo d’infanzia a Torino. Avevamo un bel rapporto, la complicità che spesso si instaura tra ragazzi quasi coetanei, anche se non ci vedevamo molto spesso, dato che vivevamo sparsi nei dintorni della città, lei a Baldissero e io a Settimo Torinese. Eravamo figli dell’ondata di immigrazione degli anni ’60 e ’70, che aveva coinvolto la famiglia di mia madre Franca e di Antonella, appena dopo la morte di mio nonno. Loro, con altre due sorelle, un fratello e la madre avevano lasciato Caltanissetta per raggiungere una sorella del padre che viveva da qualche anno a Torino e lavorava alla Fiat. Parliamo della fine degli anni ’70 e come successe in molte altre famiglie immigrate, una dopo l’altra, mia madre, un fratello e una sorella furono assunte nella grande fabbrica a fare le operaie, mentre Antonella entrò in una copisteria e la sorella più piccola continuò gli studi. Poi ognuno prese la sua strada ma quando si facevano delle riunioni di famiglia per un pranzo o una cena, io e Consuelo avevamo i nostri giochi e i nostri segreti, cose innocenti, da ragazzini. Col trascorrere degli anni, superata l’adolescenza, mia cugina cominciò a praticare strade pericolose che poco per volta la portarono ad allontanarsi da casa. Forse vivere in un paese così provinciale come Baldissero l’aveva spinta a cercare qualcosa di nuovo e di più eccitante, o forse aveva risentito di una situazione familiare in cui la madre, dopo che il padre se n’era andato in Brasile quando lei era molto piccola, conviveva con un nuovo compagno, Gianni, che faceva il gallerista a Torino, e con il quale aveva avuto altri due figli. Forse sono discorsi da psicologo improvvisato ma sta di fatto che cominciò a frequentare i centri sociali e a vivere come una squatter. Si riempì di piercing e, passando da un centro occupato all’altro, stava sempre in compagnia di un cane di grossa taglia e, cosa peggiore, non saltava un rave party, dove si imbottiva di ecstasy e anfetamina. Questo, naturalmente, a me non lo raccontava. Zia Antonella mi aveva chiesto di starle un po’ dietro e io spesso la invitavo per un caffè o in qualche discoteca della città. Una volta la portai anche al bowling di Leinì, mi sembrò una bravissima ragazza, senza problemi di alcun genere, ma allo stesso tempo si vedeva che era come un pesce fuor d’acqua, per niente a suo agio in quelle situazioni. Insomma, era brava a farmi credere che fosse tutto a posto ma ci voleva poco a capire che la realtà era un’altra.
Zia Antonella si dimostrò molto decisa nell’affrontare la situazione e praticamente obbligò Consuelo a entrare nel centro Scientology di Milano. Non so niente di comunità di recupero o di centri per tossicodipendenti, non avendo mai avuto esperienze con la droga, ma evidentemente possono avere un senso e un’utilità. Per Consuelo li ebbero. Non parlammo mai della sua esperienza in quel posto ma ciò che le successe andò ben oltre le sue aspettative di affrancarsi dalla dipendenza dalla roba. Lì conobbe Ernesto, o Ernie, come usavano chiamarlo in America, il suo attuale marito e padre dei suoi due figli, pure lui impegnato a risolvere i suoi problemi di dipendenza. Ernie era stato spedito a Milano dal padre Armando, che molti anni prima era emigrato nel New Jersey ma aveva delle sorelle in città che conoscevano la struttura. I due, facendosi forza uno con l’altra, non senza un grande sforzo di volontà, riuscirono a venirne fuori. Forse il progetto di cominciare una nuova vita insieme li aiutò a superare i momenti più duri. Dopo due anni, Ernie e Consuelo lasciarono il centro di Scientology e volarono negli Stati Uniti, freschi fidanzati, nella grande casa di Armando.
3
Quando io e Susanna arrivammo a New York fummo accolti e festeggiati come due di famiglia. Armando, il suocero di Consuelo, ci volle a tutti i costi nella sua casa del New Jersey. Dopo pochi giorni cominciai a chiamarlo amichevolmente zio. Sembra un luogo comune ma lui è veramente quel genere di uomo che si è fatto da solo, costruendo dal nulla una vera fortuna basata sulla professionalità nel proprio lavoro. Immaginatevi uno che parte con tutta la famiglia, 18 persone tra fratelli e sorelle, da un paesino di montagna, nel sud profondo della provincia di Benevento e con loro sbarca nel nord Italia. Ad Armando il nord non piace, lo trova grigio, monotono e poi non ci sono abbastanza opportunità per lui che sogna in grande. Allora s’imbarca per gli Stati Uniti e si stabilisce nel New Jersey. Ora vive a Towaco, che è una zona residenziale, con grandi boschi e piccole alture, abitazioni basse, grandi ville ognuna col suo bel pratone davanti, dove è difficile trovare una casa di più di due piani, ma prima di approdarvi Armando, che è giovane e intraprendente e freme per darsi da fare ed emergere, apre un piccolo box garage a Clifton, nella Contea di Passaic, a mezz’ora di macchina da Towaco. La cittadina nello stato sulla costa est, appena a ovest di New York, è una sorta di feudo latinoamericano, dove addirittura alcuni negozianti si rifiutano di parlare in inglese, continuando imperterriti a dialogare in spagnolo. Armando lo spagnolo non lo parla e nemmeno l’inglese, eppure persegue tenacemente i suoi scopi. È un bravo carrozziere, è onesto, ispira fiducia nella gente che gli affida volentieri la propria auto perché venga sistemata e un po’ alla volta, acquistando alcuni edifici attorno al piccolo garage, lo trasforma nell’Armando Auto Body, una grande carrozzeria con dieci dipendenti e convenzioni con assicurazioni e polizia locale.
Ecco, Armando stava lì per dimostrare che in America tutto è possibile, però ci devi provare. Lui era partito da un box dove aveva impiantato la sua piccola officina e poi, con sacrificio, sudando, imprecando, facendo le ore piccole, battendo le lastre delle grandi automobili degli abitanti del New Jersey aveva acquistato un locale più grande, spostandoci l’attrezzatura, e poi un altro edificio e un altro ancora, fino a quando tutta la contea di Passaic sapeva chi fosse Armando e conosceva la Armando Auto Body.