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La baita. Vivere o morire
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E-book278 pagine4 ore

La baita. Vivere o morire

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Info su questo ebook

Lorenzo, Giacomo e Daniel sono i Bombaroli, tre amici uniti dalla passione per il tiro con le potenti rivoltelle Magnum. Per coltivare il loro hobby acquistano uno chalet sulle Dolomiti, dove realizzare un poligono di tiro privato. L'idillio viene però travolto da eventi tragici e inspiegabili: la morte violenta di uno sconosciuto durante una cena, gli incubi e le visioni di Lorenzo, fino al suicidio dei due amici.

Un thriller psicologico dalle tinte noir, che esplora il forte legame tra amici e i lati oscuri della psiche umana. Una trama avvincente, ricca di colpi di scena, che conduce in una spirale di morte sullo sfondo del paesaggio dolomitico.
LinguaItaliano
Data di uscita10 nov 2023
ISBN9791221495423
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    Anteprima del libro

    La baita. Vivere o morire - Mauro Ferru

    Capitolo I

    Eravamo tutti e tre lì, in piazza della Repubblica, un pomeriggio qualsiasi della primavera del 2016. Il Caffè Roma era il nostro punto d’incontro, ogni sabato, nell’ora in cui gli ultimi venditori ambulanti ripiegavano le tende e ritiravano i banchi.

    Quello di Porta Palazzo a Torino è il mercato più grande della città e, a detta di alcuni, dell’intera Europa. L’odore di stoffe e di fiori, di argille, orpelli e olive in salamoia invade le narici e inebria l’animo che si perde, irrimediabilmente, tra lo sventolare delle tende e dei nastri rossi e gialli, tra il profumo dolce delle caramelle e quello acre del latte cagliato. Solo le vecchie madamine riescono a orientarsi agevolmente senza perder la bussola in quegli incommensurabili labirinti di colori, voci e profumi. Proprio come la mia mamma che, ancora oggi mi chiedo come facesse, ai tempi in cui ero un bambino frastornato che la seguiva fedelmente col naso all’insù, si destreggiava in mezzo a quelle viuzze senza fine, legate l’una all’altra da una logica che ancora oggi fatico a comprendere.

    Ordinammo tre caffè: due Bicerìn alla crema di gianduia e un Nocciolino di Chivasso. La giornata era particolarmente uggiosa, dalla mattina una pioggerellina insistente non aveva dato tregua benché, vista la primavera alle porte, le temperature fossero in leggero rialzo. Protetti dal tepore della veranda riscaldata e famigliare del Caffè, Giacomo ci porse un foglio giallo che teneva riposto nella tasca interna della sua solita giacca in pelle nera da motociclista. Lo aprii e con Daniel leggemmo ad alta voce il titolo del documento: «Primo torneo di tiro a segno con pistola di Caselle».

    «Ragazzi miei, ecco la nostra occasione! Leggete bene sulla colonna di sinistra: solo una categoria di tiro con revolver ammessa e calibro massimo .357 Magnum!» ci interruppe euforico Giacomo mentre noi seguitavamo a leggere rapidamente con gli occhi il resto dei campi del manifesto.

    «Ci saranno tutti i professionisti della zona! Hai visto il premio per il primo team classificato? Cinquemila euro!» esclamai stupefatto.

    Non ci era mai capitato di competere per una cifra simile.

    «Mi accontenterei del weekend sulle Dolomiti per il secondo posto» commentò Daniel.

    «Sì, ragazzi, è davvero incredibile... quando l’ho letto non potevo credere ai miei occhi. Ci troveremo a competere contro i campioni d’Italia sui venticinque metri, la nostra specialità. Vi rendete conto? Già vedo i titoli dei giornali sportivi: I Bombaroli sfidano Bassetti, Bolzan e Montoria

    Nell’ambiente del tiro a segno torinese Giacomo Fusi, Daniel Koller e io, Lorenzo Tagliaferri, eravamo meglio noti con il soprannome di Bombaroli, per via della nostra passione per la rivoltella calibro .357 Magnum con canna da sei pollici. Più che un revolver, la quintessenza stessa del tiro a segno con pistola.

    Scoppiai a ridere al pensiero dei nostri nomi accanto a quelli del fantastico trio azzurro. Trangugiai il mio Bicerìn in un sol sorso e con una mano feci cenno al cameriere di riempirci nuovamente i bicchieri. Giacomo era entusiasta, parlava, sognava e non intendeva perder nemmeno un minuto.

    «I nostri avversari si alleneranno ogni giorno. Non lasceranno niente al caso: il clima, i venti, l’umidità, la visibilità in certe ore della giornata, pondereranno tutto e anche di più! Dobbiamo metterci al lavoro subito, senza indugiare. Per prima cosa proporrei un sopralluogo al campo di tiro di Caselle già domattina.»

    Tutti d’accordo ci ritrovammo l’indomani, domenica, all’alba sempre di fronte al Caffè Roma, pronti a partire per quella nuova avventura, tutti e tre assieme, come sempre.

    A raccontare oggi la nostra storia le mani mi tremano, letteralmente, non si danno pace, hanno voglia di dire tutto e anche di più, di non nasconderti niente, caro lettore, di essere sincere come non lo sono mai state, di raccontarti ogni dettaglio di questa storia incredibile che mi capitò di vivere e che oggi, per mia immensa fortuna, posso raccontare.

    Il poligono L’Airone, dove si sarebbe svolto il torneo, si trovava a pochi chilometri a nord dal centro di Caselle, non lontano dall’aeroporto e immerso in una vasta vallata circondata dalle Alpi. La struttura, piuttosto moderna rispetto ai poligoni tradizionali, era gestita da un’associazione dilettantistica e inaugurata da poco meno di un anno ma già frequentata, come scoprimmo, da tutti gli appassionati e i professionisti della zona. Era la prima volta che ci recavamo in quel luogo di cui avevo solo sentito parlare, e ricordo che mi sorpresi nel vedere il gran numero di visitatori e di appassionati radunati nella valle al primo sole della domenica per quello che ho sempre ritenuto un hobby per pochi.

    «Zio fa’, son tutti qui stamattina?» esclamai dopo cinque minuti che giravamo invano tra i parcheggi del poligono in cerca di un posto libero per la nostra auto.

    Davanti all’ingresso della struttura coperta un folto gruppo di persone commentava il manifesto del torneo.

    «Cinquemila euro?» si sentiva ripetere nell’aria.

    «Ma va’, ci saran due zeri in più!» arguì ironicamente qualcuno dei presenti.

    L’iscrizione ammontava a cento euro per ogni membro del team più altri quindici per l’assicurazione. Cartucce e accessori per il tiro erano a carico dei partecipanti. Ecco spiegato il montepremi così elevato. A riferirci la notizia fu Daniel, di ritorno dai bagni del poligono mentre Giacomo e io iniziavamo già a chiederci se non sarebbe stato meglio limitarci per quel giorno a un semplice sopralluogo, evitando di esercitarci in mezzo a tutta quella gente e a tutto quel frastuono.

    «Prevedono di avere molti partecipanti. Uno degli organizzatori mi ha avvertito che i posti disponibili sono quasi terminati e ci consiglia di iscriverci oggi stesso» ci informò Daniel.

    Discutemmo qualche minuto prima di prendere la nostra decisione e, una volta convinti, ci recammo negli uffici dell’amministrazione per ufficializzare la nostra partecipazione al torneo. Il regolamento prevedeva che tutte le gare avrebbero avuto luogo a Caselle nel mese di marzo. Gare sui 25 metri a eliminazione diretta, quattro in tutto compresa l’eventuale finale, una ogni domenica. Due categorie di tiro ammesse – semiautomatiche e revolver – e trentadue squadre partecipanti per ogni categoria. Nessun rientro dopo l’eliminazione. Quindici colpi validi suddivisi in tre serie, illimitati in visuale di prova. Tempo di gara 20 minuti compreso il riscaldamento. Otto linee da assegnare a turno e in ordine di iscrizione e di categoria; le rivoltelle avrebbero gareggiato sempre per seconde, dopo le semiautomatiche e a partire, almeno, dalla tarda mattinata. Tiro a due mani non permesso. Calibro massimo .357 Magnum. Più che un torneo, quello organizzato dall’Airone di Caselle era un giro di roulette.

    Le competizioni alle quali partecipavamo di solito, e in cui devo ammettere che ci trovavamo piuttosto a nostro agio, erano strutturate su molti turni di tiro e aperte a un pubblico vasto e vario che comprendeva spesso perfino gli esordienti. Avevamo partecipato come team a più di trenta tornei in dieci anni di attività conseguendo sedici vittorie, di cui tre con la formula del rientro, tredici secondi posti e due terzi classificati. Solo in due occasioni non eravamo riusciti a collocarci nelle prime tre posizioni e, tutto sommato, potevamo dire di meritare il soprannome affibbiatoci nell’ambiente.

    Ma ci mancava ancora qualcosa per poterci ritenere pienamente soddisfatti e adeguatamente ripagati dei nostri sacrifici. Ciò di cui sentivamo il bisogno era una consacrazione, una vittoria che più di ogni altra ci potesse conferire, anche se in via ufficiosa, il titolo di miglior trio di tiro con revolver calibro .357

    Magnum con canna lunga da sei pollici.

    Era lei la nostra più grande passione, ancor più del tiro a segno in sé. Prima di conoscere la Magnum .357 nessuno di noi aveva mai nemmeno riflettuto all’eventualità di possedere un’arma. A presentarcela, per modo di dire, fu il nostro amico Max Fioravanti, ex tiratore scelto dell’esercito e l’unico tra noi a non ripudiare la guerra, la caccia e tutto ciò che di offensivo può far l’uomo nei confronti del suo prossimo e, in generale, della natura. Daniel e io eravamo a quell’epoca vegetariani ormai da otto anni, mentre Giacomo aveva imboccato la strada del veganismo e nessuno di noi intendeva tornare indietro sulle sue scelte. Per noi tre la pistola era un mezzo per passare del tempo assieme concentrandoci su un’attività complessa in vista di un obiettivo comune. La rivoltella, insomma, non era altro che uno sport come qualsiasi altro, come il calcetto, per esempio, o il padel.

    Ciò che più rendeva il torneo di Caselle originale ed elettrizzante, oltre alla quota di iscrizione piuttosto elevata – ma assolutamente ben compensata dal montepremi –, era il fatto che non fosse ammesso alcun rientro, ovvero nessuna seconda possibilità in caso di sconfitta. Dettaglio che per noi rappresentava un’assoluta novità; si trattava, cioè, di giocarsi il tutto per tutto in tre turni di tiro da cinque colpi ciascuno, quindici per ogni membro del team. Le squadre con il punteggio maggiore si sarebbero ritrovate la domenica successiva, le altre sarebbero tornate a casa. Molto semplice e molto cinico.

    Quella mattina ci esercitammo al poligono nazionale di Torino, il più antico d’Italia, con la serietà e l’energia dei futuri campioni di Caselle. Lavorammo in particolare sull’impugnatura e sulla posizione di tiro, due dei momenti chiave dell’esecuzione. Conoscevamo tutte, o quasi, le posture tradizionali da assumere in gara o in allenamento, e sapevamo che la stragrande maggioranza di esse prevedeva un’esecuzione a due mani, possibilità tuttavia esclusa a Caselle. Questo aspetto del torneo non ci inquietava affatto, piuttosto aggiungeva un po’ di pepe a una competizione già di per sé alquanto speziata.

    Come non smetteva di ripeterci il nostro caro Max.

    «Non esiste una posizione valida per tutti di fronte a un bersaglio o a un nemico; che si miri a due mani o a una, rannicchiati o in piedi, ciò che conta è impugnare bene l’arma e mettersi a quadro con l’obiettivo di sparo.»

    Partendo dal semplice assioma per il quale il buon esito di un tiro dipende in massima parte da una buona preparazione, ognuno di noi, con il tempo, aveva sviluppato un proprio modo per equilibrare il corpo di fronte al bersaglio, così come una sua personale maniera di impugnare il revolver. Era Max, comunque, a incoraggiarci a trovare un nostro stile al di là di qualsiasi costrizione manualistica. E noi abbiamo seguito alla lettera i suoi consigli, come sempre.

    Il tiro a una mano ha un fascino particolare principalmente per via delle sue origini, indissolubilmente legate ai duelli tra i nostrani uomini d’onore e a quelli tra fuorilegge da saloon del vecchio West. Mi è capitato spesso di viaggiare per lavoro o per piacere, sia in Italia sia all’estero, e in ogni mio viaggio ho avuto cura di raccogliere quanti più documenti mi fosse possibile non solo sulla mia S&W 686 ma, in generale, sul passato delle armi a tamburo, le cosiddette six shooters (sei colpi) o wheel guns (pistola a ruota).

    Conservo in casa, appesi alle pareti o riposti dentro album di vari materiali e colori, centinaia di stampe di modelli e di progetti di revolver ottocenteschi o dei primi del Novecento. Non conto neanche più i libri sulle rivoltelle che riempiono gli scaffali della mia libreria. Conosco a memoria i dettagli di ogni immagine e di ogni racconto, sia in riferimento alle armi sia all’abbigliamento, agli accessori e alla gestualità e postura dei tiratori. Ripensai a loro quel giorno al poligono di Torino, con la mia rivoltella da quasi un chilo e trecento grammi salda tra le dita della mia mano destra.

    Tornammo sul luogo del torneo solo il sabato successivo, prima ancora che aprissero gli ingressi. I visitatori erano molti meno rispetto alla domenica precedente e, nello stesso pilastro dove quel giorno era affisso il manifesto del torneo, vedemmo appesi i calendari della competizione, uno per le pistole semiautomatiche e l’altro per i revolver. Al primo turno ci trovavamo confrontati a un trio proveniente da Torino e a noi ben noto, formato da Benassi, Troisi e Riganò. Su nove gare che ci videro rivali solo in un caso non abbiamo raggiunto la vittoria, peraltro a causa di una penalità sulla quale ci sarebbe molto da discutere.

    «Ah, quelle schiappe!» urlò Giacomo leggendo il tabellone. Capivo il suo entusiasmo ma non condividevo quell’atteggiamento. I nostri sfidanti non avevano certo il nostro talento né tantomeno la nostra esperienza e il nostro affiatamento, ma non sopportavo che si deridessero gli avversari, soprattutto ad alta voce e dentro il poligono dove si sarebbe svolta la gara. Lo sport è prima di tutto, per il modo di vedere le cose, una questione di rispetto verso se stessi e verso gli altri. Inoltre sottovalutare la difficoltà di una prova è la giusta maniera per non rendere al massimo delle proprie potenzialità. Se ci si limita a eseguire i propri colpi senza quel particolare impegno che occorre per vincere, a prescindere dalla disciplina che si svolge, si potrà rischiare di rimanere amaramente sorpresi dal nostro avversario.

    «Mai fidarsi degli errori altrui; anche il più scarso è capace di far centro tre volte consecutive almeno una volta nella vita» ci diceva sempre Max. Perciò rimbrottai Giacomo, sapendo tuttavia che le mie sarebbero state parole buttate in pasto al vento.

    Capitolo II

    Quando Max ci comunicò che sarebbe partito per l’Afghanistan per una missione di pace, noi amici di sempre organizzammo una piccola festa di buon auspicio in suo onore. Erano gli inizi del 2015, circa un anno e mezzo prima del torneo di Caselle, e la vita ancora ci sorrideva.

    Prenotammo la veranda del Caffè Roma per il 24 gennaio, poiché la partenza di Max era fissata per il lunedì successivo, e facemmo in modo che almeno per una notte la sala fosse tutta per noi. Giacomo si preoccupò di contattare gli invitati, Daniel pensò invece a ingaggiare un direttore artistico per la band musicale, le decorazioni e la disposizione di tavoli e sedie. Quanto a me, com’è ovvio, scelsi i miei cuochi migliori e mi occupai di selezionare personalmente ogni singola pietanza del menu.

    Ammesso all’Accademia militare di Modena subito dopo il diploma di liceo scientifico, Max aveva dato avvio fin da giovanissimo a una carriera che, oltre a buone soddisfazioni economiche, lo avrebbe portato a realizzare negli anni anche molti dei suoi sogni… e pure qualcuno dei suoi incubi. Alto poco più della media e con la testa rasata da quando ho memoria, per lui divise, rigore e disciplina facevano parte del suo DNA da secoli. Suo bisnonno, il conte Arturo Fioravanti, fu tra i membri onorari del poligono di Torino e i suoi duelli all’arma corta sono tutt’oggi tramandati in storie e leggende che conosco fin da bambino. Suo nonno Massimo, invece, già sottufficiale dell’esercito durante la Grande Guerra, morì sul campo con il grado di Comandante nel corso della sfortunata campagna di Russia del ‘41. Quanto al padre, Emanuele, sappiamo che è un agente dell’Interpol non ancora in pensione.

    E pensare che per un soffio Max rischiò di non riuscire a entrare in Accademia. Il giorno destinato alle prove fisiche dei candidati, come venimmo a sapere, dopo aver eseguito i piegamenti sulle braccia di fronte al caporale incaricato di tenere il tempo e di contare i movimenti corretti, ebbe da ridire sui calcoli di quest’ultimo; atteggiamento rischioso durante un concorso per aspiranti ufficiali. Secondo i suoi conteggi aveva compiuto trenta flessioni entro il tempo limite di due minuti, secondo quelli del caporale solo quindici, ovvero una quantità appena sufficiente per superare la prova ma senza punteggi bonus. Per Max non vi era dubbio che si trattasse di un errore e, benché ciò non comportasse la sua esclusione, pur di non darla vinta a quell’altro si rimise a faccia in giù per ripetere la prova, questa volta contando a voce alta ogni piegamento. Attirò così su di sé l’attenzione di tutti i presenti, compreso il sottufficiale supervisore che attese la fine della sua sceneggiata per redarguirlo di fronte a tutti. Fortuna che restò impressionato da quel numero spropositato di piegamenti, altrimenti con ogni probabilità lo avrebbe cacciato dall’Accademia senza possibilità di appello.

    Ci raccontò quest’episodio una sera a casa Fioravanti, davanti alla famiglia riunita per festeggiare la sua ammissione al corso per aspiranti ufficiali dell’esercito. Ricordo che era presente anche il padre Emanuele, fatto questo più unico che raro, che lo rimproverò duramente per quella sua strafottenza, aggiungendo, peraltro, che non avrebbe dovuto festeggiare un successo così immeritato. In realtà tutti sapevamo che nessuno più di Max era all’altezza di quella divisa, e non solo per le sue indubbie doti fisiche che lo portavano da sempre a eccellere in tutti gli sport, era anche il primo della classe al liceo e, devo ammetterlo, ho sempre fatto fatica a comprendere come facesse ad apprendere la geometria con quella rapidità.

    Negli anni delle scuole elementari trascorrevo molti pomeriggi a casa Fioravanti. La madre di Max e la mia, migliori amiche fin dall’infanzia, amavano condividere gran parte del loro tempo libero sole o in compagnia delle rispettive famiglie. La signora

    Adele, oltre a volermi molto bene, lasciava a me e a suo figlio ampia libertà di movimento tra le possenti mura di casa Fioravanti, delle quali mi vantavo di conoscere tutti i segreti e che, in qualche sorta, consideravo anche un po’ mie. Quando fuori pioveva e non potevamo approfittare del bel prato verde del giardino, passavamo le ore a correre o a curiosare tra le soffitte e i meandri delle cantine, in mezzo a quadri senza cornici, botti, bottiglie e marchingegni di ogni genere. Spesso ci divertivamo a urlare nel buio delle volte in pietra e a scappare poi, terrorizzati dall’eco delle nostri stesse voci, lungo le scale che portano al pianterreno.

    Ma il nostro più grande sogno, quello per cui avremmo dato via tutte le nostre biglie in vetro senza pensarci neanche un attimo, era quello di poter sbirciare dentro l’ufficio del signor Emanuele. L’unica volta che superai la soglia di quella enorme porta in legno a due ante affacciata sull’ala sud del primo piano di casa Fioravanti fu per un caso fortuito.

    Era raro che il papà di Max stesse in casa per più di due giorni consecutivi e, quando ciò accadeva, per la maggior parte del tempo se ne restava chiuso a chiave dentro il suo ufficio, presumibilmente a occuparsi di faccende piuttosto inderogabili. Per noi era impossibile penetrare dentro la sua stanza dei tesori. Tuttavia un pomeriggio, mentre Max e io correvamo dietro a una macchina telecomandata rossa nuova di pacca, fummo sorpresi nel sentire il signor Emanuele parlare animatamente al telefono e, qualche secondo dopo, chiamare ad alta voce Graziella, la tata. Mi parve di capire che avesse con urgenza bisogno di qualcosa, di cosa esattamente non lo ricordo, perché ciò che realmente contava per noi era il fatto che riuscissimo a sentire la sua voce diffondersi con chiarezza nei corridoi della casa… aveva lasciato il suo studio e dovevamo assolutamente approfittarne! Udimmo in effetti i suoi passi dirigersi al secondo piano, presumibilmente verso la camera da letto o il bagno padronale e, come due ghepardi sulla loro preda, o piuttosto come due cuccioli di labrador su una pallina, ci lanciammo in direzione della stanza dei tesori con la speranza di trovarla aperta.

    Una delle ante era stata effettivamente lasciata socchiusa e fu Max a prendersi la responsabilità di schiuderla completamente. Subito dopo ricordo che un forte odore di sigaro mi arrivò dritto in faccia e che rimasi accecato dalla luce dei grandi finestroni, aperti in tutte le direzioni. Le tende bianche sventolavano e la scrivania era meravigliosamente grande, come non ne avevo mai viste fino ad allora, in legno rossastro e piena di fregi e intarsi lungo tutto il bordo. Al di sopra non vidi altro che una montagna di libri e registri, e un posacenere in cristallo grande quanto lo scrittoio della mia cameretta e pieno zeppo di cenere e mozziconi di sigaro. Non vi era un angolo delle pareti che non fosse coperto da una mensola, un quadro, una libreria, da un armadio o da una teca in alluminio o vetro. Assomigliava alla sala di un museo. Respiravo, oltre al disgustoso odore di fumo che permeava l’aria e che sentivo appiccicarsi perfino ai miei indumenti, tutta la storia della famiglia Fioravanti. I loro successi, principalmente, ma anche le passioni che da sempre avevano accompagnato gli uomini di casa.

    «Che ci fate qui voi due?» sentimmo domandarci tutto a un tratto mentre in silenzio assorbivamo con lo sguardo ogni millimetro di quel luogo. Emanuele era fermo accanto alla porta, ma non sembrava adirato né troppo infastidito dalla nostra presenza. Sorrise, anzi, quando si rese conto che non avevamo ancora avuto il tempo di frugare dappertutto.

    «Non sapete che qui non si deve entrare senza il mio permesso? Max, per questa volta passi, ma che non accada più. Venite, già che ci siete voglio mostrarvi una cosa» ci disse avvicinandosi a una delle pareti, quella rivolta verso est, aperta sul grande giardino di casa Fioravanti. Noi obbedimmo senza un fiato e i nostri occhi ben sgranati lo videro allungare una mano verso un quadretto appeso alla parete e raffigurante una scena di caccia alla volpe. Tirò verso di sé un lato della cornice e apparve un piccolo portello in metallo con al centro una rotella circondata da lettere e numeri.

    «Papà, quella è una cassaforte?» chiese Max al massimo dell’eccitazione.

    Il signor Emanuele annuì col capo e ci fece cenno con una mano di non avvicinarci ulteriormente. Girò la rotella due o tre volte a destra e a sinistra e quando lo scrigno si aprì ne estrasse una scatola in acciaio, grande, quadrata e piatta. Richiuse lo sportello spesso quanto un pollice e fece un po’ di spazio lungo un lato della scrivania.

    «Sapete

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