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Errore dell'arte
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E-book303 pagine4 ore

Errore dell'arte

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Info su questo ebook

Trentadue anni, medico. Una carriera promettente davanti, una famiglia unita dove regna l’armonia, una donna da amare e che lo ama, amici con cui condividere sogni e avventure. Eppure la vita di Dario è appannata da un disagio impalpabile camuffato di leggerezza e troppo simile a una premonizione per essere ignorato. Piano piano tutto intorno al protagonista si deforma, trasfigurando la gioia in dolore, la sicurezza in angoscia e trascinandolo verso un abisso di disperata impotenza.
Non c’è che un’unica via di fuga.

LinguaItaliano
Data di uscita1 giu 2021
ISBN9788831285308
Errore dell'arte
Autore

Petros Michalopoulos

Petros MichalopoulosMadre ticinese e padre greco, ha studiato medicina all’università di Berna.Pratica per cinque anni in vari reparti e ospedali del Canton Ticino come medico assistente e, per un periodo, come medico d’urgenza per il servizio ambulanze di Mendrisio e Chiasso.Si specializza in dermatologia e venerologia e lavora per dieci anni presso il reparto di dermatologia dell’ospedale San Giovanni di Bellinzona, praticando anche in uno studio privato a Lugano.Attualmente lavora alla Clinica Sant’Anna a Sorengo. Sposato e padre di una bambina, vive nel Malcantone. Errore dell’arte è il suo primo romanzo.

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    Errore dell'arte - Petros Michalopoulos

    Errore dell’arte

    di Petros Michalopoulos

    Copyright 2021 Gabriele Capelli Editore

    Gabriele Capelli Editore

    ISBN 978-88-31285-30-8 (EPUB)

    Immagine di copertina: Guilherme Gomes da Pixabay

    Per scrivere una storia non basta un’idea. Servono anche regole, mestiere e coraggio.

    Un grazie enorme a: Dada Montarolo che con calma, gentilezza e professionalità ha saputo dare struttura e precisione al manoscritto; a Gabriele Capelli per la sua competenza, simpatia e per essere riuscito a trasmettermi il suo coraggio.

    Un riconoscimento speciale a tutte le persone che lavorano in ospedale e che svolgono un lavoro incredibile.

    Prima edizione GCE giugno 2021

    Revisione editoriale: Dada Montarolo

    La casa editrice Gabriele Capelli Editore beneficia di un sostegno

    dell’Ufficio federale della cultura per gli anni 2021-2024.

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale. Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone. Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di tornare su Smashwords e di acquistare la propria copia. Grazie per il rispetto al duro lavoro di questi autori.

    Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistenti è puramente casuale. In questo libro c’è tanta fantasia e un briciolo di fatti miei. Ma non solo. Le innumerevoli, adorabili e inconcludenti discussioni sostenute con i miei amici sono state fonte di ispirazione. Dal lavoro ho preso spunto per alcune situazioni. Qui e là, qualche esagerazione.

    PM

    Chiaro che la vita è buona

    e l’allegria, l’unica indicibile emozione

    è chiaro che ti trovo bella

    e benedico in te l’amore delle cose semplici

    è chiaro che ti amo

    e ho tutto per essere felice

    ma capita che io sia triste...

    Vinicius de Moraes, Dialettica, in Per vivere un grande amore,

    Mondadori, 1998, Traduzione di Amina Di Munno.

    *

    «L’esame autoptico del soggetto trentaduenne ha messo in evidenza numerose ferite lacero-contuse su buona parte dei tegumenti, considerevoli fratture ossee agli arti inferiori nonché estese lacerazioni del fegato, dei reni e dell’aorta toracica. Si è pure osservata un’importante embolia grassosa polmonare. Gli esami tossicologici hanno inoltre permesso di riscontrare un tasso di alcol nel sangue pari al 1,9 ‰...»

    Questi sono alcuni passaggi del rapporto dell’autopsia effettuata sul mio corpo e che il medico legale aveva inoltrato al procuratore pubblico incaricato di far luce sulle cause del decesso. Ho deciso di raccontare gli ultimi mesi della mia vita e non so se si possa definire una confessione ma tutta la mia frustrazione meritava uno sfogo. Dopo aver fatto a botte con la coscienza sono finalmente giunto a una tregua e penso di essere riuscito, in qualche modo, a perdonarmi. Trovare il coraggio di parlarne consentirà di sradicare definitivamente l’enorme senso di colpa che mi ha perseguitato per tutto questo tempo e potrò riposare in pace.

    Sono morto all’età di trentadue anni. Morte che non è servita a nessuno, ma all’epoca non fui capace di trascendere l’assoluta tragedia che si abbatté sulla mia vita. E non solo sulla mia. Avevo sempre creduto di essere abbastanza intelligente e ragionevole per farcela in questa vita ma, ahimè, ho capito male e così mi sono ritrovato con lo spappolamento di tutti gli organi interni e una massiccia embolia grassosa polmonare.

    Con embolia, immagino lo sappiate, si definisce l’occlusione di un vaso sanguigno. La forma più frequente è la tromboembolia dove è un coagulo di sangue a ostacolare il normale flusso ematico. Avvenimento interessante e raro è l’embolia grassosa. In questi casi è un insolubile ammasso di grasso a ostruire i vasi sanguigni. E da dove proviene il grumo di grasso? Quasi sempre da fratture delle ossa delle gambe. E se gli emboli adiposi, partendo dalla tibia, riescono ad arrivare fino ai polmoni, significa che le ossa si sono rotte quando il sangue ancora circolava nei capillari, nelle vene e nelle arterie.

    Se non avete ancora capito che accidenti sia l’embolia grassosa polmonare, ve lo spiego in soldoni: qualcuno, che avete fatto incazzare, vi prende a legnate sugli stinchi frantumandovi le ossa da cui fuoriescono ammassi di grasso che, penetrando nei vasi sanguigni, raggiungono il cuore che li pompa nei polmoni dove si incastrano e disturbano l’ossigenazione. Se fottutamente corposa l’embolia grassosa polmonare può farvi morire stecchiti.

    La presenza o meno di ammassi di grasso nei vasi sanguigni dei polmoni può inoltre permettere al medico legale di capire se eventuali fratture ossee riscontrate durante un’autopsia siano avvenute prima o dopo la morte del disgraziato. Alcuni omicidi, camuffati da incidente, sono stati smascherati grazie al fatto di non aver trovato emboli di grasso nei polmoni. Quindi, se volete far credere che quell’odioso del vostro capo sia morto precipitando con l’automobile in un burrone per aver affrontato troppo velocemente una curva, e non lasciar sospettare che siete stati voi ad averlo prima fatto fuori e poi spinto giù per la valle all’interno del suo SUV, premuratevi di spaccargli le gambe quando il sangue ancora circola. Gli emboli di grasso avranno tempo di raggiungere i polmoni e garantiranno per voi in tribunale.

    Insomma, per essere dei perfetti assassini bisognerebbe conoscere un minimo di patofisiologia e se proprio volete azzardarvi nell’arte dell’omicidio cercate di farlo in modo almeno professionale.

    Siccome nei vasi sanguigni dei miei polmoni sono stati riscontrati emboli adiposi, questo sta a indicare che le gambe si sono spezzate quando il cuore ancora pulsava. Morte violenta, morte prematura. Avevo solo trentadue anni, ecchecazzo!

    Per tutto il periodo della mia esistenza non sono stato altro che un uomo che sarebbe morto a trentadue anni. Ma questo evidentemente non lo sapevo. Gli altri morivano. Soprattutto gli anziani, gli stupidi e gli sfortunati e io non ero gli altri. Ero migliore. Avevo ancora tutta la vita davanti a me. Avrei potuto vivere alla grande.

    Ero stupido? Se lo stupido è – come lo definisce Carlo Maria Cipolla nelle sue leggi fondamentali della stupidità umana – chi con le sue azioni causa danno agli altri senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé stesso, ho allora la netta sensazione che l’intelligenza non abbia accompagnato i miei ultimi mesi. Darsi del cretino da soli è però fastidioso, anche da morto. Preferisco quindi pensare di essere stato uno come tanti: mediocre e approssimativo ma sicuramente sensibile e con mille domande nella testa. Cosa è giusto? Cosa è sbagliato? È stata colpa mia? Me la porterò a letto? È la ragazza giusta? Quando inizio a fare un po’ di sport? L’AC Bellinzona vincerà mai il campionato?

    Erano dubbi esistenziali per nulla inediti e contrassegnati da quesiti filosofici di una banalità così disarmante da non richiedere neppure una risposta definitiva.

    Elucubrazioni valide o meno, non ho mai avuto la gioia di poter festeggiare la conquista del titolo di campione svizzero da parte della squadra del cuore e non sono mai stato un atleta straordinario. Con qualche ragazza mi ero piacevolmente accompagnato, anche se non con tutte quelle che mi sarebbe piaciuto. Ancorché non dotato di un fisico statuario possedevo, a quanto pare, un certo fascino discreto e con gli anni avevo sviluppato alcune strategie di seduzione. Ve ne parlerò.

    Ero quindi giovane, forse stupidotto ma sicuramente non ero sfortunato. Sono nato in un angolo del mondo incantevole con una natura coinvolgente, dove laghi addolciscono e montagne inselvatichiscono un paesaggio ricco di cambiamenti morfologici. Numerosi villaggi, qualche borgo e poche città si sparpagliano tra valli, fiumi e boschi ricchi di castagni, faggi, abeti rossi, larici, querce e frassini. Da alcune vette potevi godere di vedute mozzafiato. Manca il mare e una metropoli sempre viva e pulsante ma la bellezza dei paesaggi, la sicurezza e anche un certo benessere rendono questo lembo di Sud della Svizzera un luogo particolare.

    Avevo una famiglia con la quale andavo d’accordo e che mi aveva garantito un’infanzia felice. Non ricordo di aver mai visto i miei genitori litigare. A volte si ignoravano ma si volevano bene, anche dopo trentacinque anni di matrimonio. Con mio fratello Manuele avevo passato milioni di ore a giocare nei boschi vicino a casa, a costruire capanne, a cercare funghi e a risalire il fiume Lisora, che tranquillo scorreva poco lontano da casa nostra, fantasticando di essere cercatori d’oro. Crescendo ci eravamo un po’ allontanati, ma mai avremmo litigato per l’eredità. Avevo amici interessanti, a volte follemente inadeguati ma proprio per questo amabili, quasi teneri. Alcuni dei momenti più felici li ho sicuramente trascorsi con loro. Persone vere.

    Ero in salute e svolgevo un lavoro stimolante. Avevo una professione stimata e di forte responsabilità civile. Il margine d’errore era minimo e per questo a volte toglieva il sonno ma stavo iniziando ad imparare alcune regole del mestiere. Non mancava qualche bella soddisfazione.

    Le camelie sono le piante che preferisco. A loro sono legati i bellissimi ricordi delle lontane ma ancora vivide visite che facevo ai miei nonni. Se in inverno ci sedevamo davanti al camino scoppiettante, nelle giornate soleggiate stavamo in veranda a bere un buon caffè, spesso e volentieri corretto con la grappa del nonno, prodotta con un alambicco che non ho mai capito se autorizzato o illegale. La veranda era protetta da tre camelie che, da quanto raccontava la nonna, erano state piantate dalla bisnonna. Quella sulla destra aveva fiori bianchi, le piante sulla sinistra invece fiori di un intenso rosso porpora e di color rosa, probabilmente frutto di una mescolanza dei due pollini.

    Nascosti dalle camelie, sulla sinistra vi erano dodici filari di vite che mio nonno curava con tanta passione e tanto verderame.

    «Il vino è la somma del legame tra cielo e terra per la gioia dell’uomo!» ripeteva dopo ogni pomeriggio di lavori nel vigneto. In autunno si dedicava alla vendemmia del nerissimo Merlot che in parte vendeva a una cantina sociale e in parte trasformava in un vino beverino e in una grappa niente male. Nonostante non avesse un nome, la grappa di mio nonno si lasciava riconoscere. Raramente ho bevuto qualcosa di più forte.

    Se si guardava sulla destra, oltre le camelie, si notavano degli arbusti cespugliosi con fiori di un giallo acceso.

    «Sono proprio belle, le forsizie» commentò un giorno la nonna notando che continuavo a fissarle. «Qualcosa non va?» si preoccupava poi.

    «No, perché lo chiedi?»

    «Lo vedo dai tuoi occhi. Ogni tanto cambiano colore e diventano più scuri. Blu come la notte...» La nonna stravedeva per i miei occhi, ereditati dal nonno.

    In quelle piante gialle avevo via via preso l’abitudine di rifugiarmi. Qualche volta le raggiungevo e attraverso un varco che avevo creato negli anni mi ci infilavo dentro. Vedevo solo giallo. Immaginavo di essere in mezzo al sole e lì, lontano dal mondo, pensavo ai fatti miei. Non ricordo quali grosse preoccupazioni potessi avere a neanche vent’anni. Nulla di drammatico suppongo, ma già allora mi sentivo catapultato in un mondo dove la velocità di crociera era stabilita da capitani senza bussola e il regolamento di bordo stilato da armatori senza navi. Chi cazzo stabiliva le regole del gioco?

    Giravo perché gli altri giravano e mi facevano girare. Era così, un movimento inesorabile e continuo. La mia naturale predisposizione alla calma non veniva considerata ma bistrattata dalla foga di esaltati iperattivi. Mi sentivo diverso, non ero un tipo aggressivo e alla moda mentre tutti intorno sembravano pronti a sacrificare la propria vita per essere simili agli altri, per diventare forti e per puntare all’eccellenza. Non so perché ma le qualità richieste dall’eccellenza mi hanno sempre fatto rabbrividire, come se contenessero una grande dose di cinismo. Per non perdermi e per ritrovarmi avevo bisogno di un punto fermo, un porto da cui poter ripartire. Era allora che mi immergevo nel giallo. Avvolto da fiori che sembravano gocce di sole sognavo la vita. Ed era bella!

    Un pomeriggio di un sabato d’aprile venne una grandinata mai vista, con chicchi di ghiaccio grandi come uova, che fece cadere tutti i fiori delle camelie e rovinò le piante gialle che non fiorirono più. Il mio sole si era spento. Da allora, senza più una stella dove cercare rifugio, quando lo sconforto diventava più intenso iniziai a prendere l’abitudine di sdraiarmi sotto un tavolo. Stare lì sotto trasmetteva, come lo stare tra i fiori gialli, un senso di protezione. Non mi era mai piaciuto rimanere allo scoperto.

    La vigna, un buon caffè corretto grappa, le camelie e le piante di forsizia sono dolci ricordi che, come tutti quelli legati ai nonni, mi confortano ancora adesso.

    Penso a lui che vestiva sempre in modo impeccabile: camicia e cravatta, che toglieva solo quando si caricava sulle spalle l’atomizzatore. Secondo il suo giudizio io, che indossavo solo jeans e maglietta, ero il ragazzo più malvestito di tutto il Malcantone. Non parliamo poi se non ero rasato alla perfezione. Mio nonno sapeva di dopobarba. Di dopobarba e di frutta.

    Penso a lei che profumava di incenso e di cibo. Cibo buono: polenta e brasato, patate novelle e torta di pane. Le sue mani erano lisce e morbide. Con il passare del tempo la pelle si era atrofizzata, lasciando intravedere grosse vene bluastre tra le numerose lentiggini solari, ma nelle sue carezze c’era sempre molta tenerezza. Con queste nobili mani mi allungava spesso e volentieri, sempre sottobanco, una banconota da venti franchi. Sono comunque convinto che il nonno si accorgesse, rallegrandosi, delle manovre finanziarie di Banca Nonna che non veniva mai colpita dai morsi delle crisi economiche. La nonna indossava sempre e solo abiti di cotone impreziositi da fantasie floreali. Secondo lei io e Manuele eravamo i ragazzi più affascinanti di tutto il Cantone. «Siete proprio belli! Chissà quante ragazze avete» diceva guardandoci con occhi orgogliosi e verdi come fichi maturi. «Ogni tanto andate ancora a messa?» chiedeva poi senza pretendere risposta.

    Da bambini, per alcuni anni, avevamo frequentato la messa domenicale, facendo pure i chierichetti. Il parroco del paese era Don Luigi, un uomo simpatico e rubicondo che dava sempre cinque franchi a chi partecipava e lo aiutava a officiare la messa in occasione dei funerali. Per le altre cerimonie nessuna ricompensa monetaria, bastava quella dell’anima. Non so se si trattasse di fede (cosa può saperne un bambino di dieci anni?), in ogni caso mi piaceva indossare l’abito talare e versare il vino sacro nel calice dorato. Tutti quei rituali mi facevano sentire bene. Bene, in pace e anche importante.

    Non più giovinetto, e quindi esonerato dal fare il chierichetto, iniziai a disertare le funzioni domenicali. Avevo perso quell’incondizionata fiducia in qualcosa di difficilmente palpabile e incontravo sempre più difficoltà ad afferrare il concetto di anima. È difficile seguire il volo di una farfalla invisibile.

    Ero dunque nato in un piccolo paradiso terrestre in cui avevo una famiglia sana, amici davvero amici, un lavoro interessante e soprattutto dove avevo avuto la fortuna di incontrare una ragazza speciale. Con lei avrei sentito a fior di pelle e giù giù fino al midollo tutta la forza e le ripercussioni dell’amore.

    Ero decisamente nato con la camicia. Perlomeno le condizioni iniziali erano queste. Non averne saputo approfittare è stata solo colpa mia. Del fallimento sono l’unico colpevole, anche se a volte un’intera vita viene decisa in frammenti di secondo. In pochi istanti tutto cambia. Abbassi un attimo la guardia, per stanchezza o per supponenza, e inaspettatamente sei preso a pugni nello stomaco. Cazzotti bastardi che fanno male. Colpi infami dai quali non ti riprendi più.

    *

    Tutto iniziò un sabato di metà primavera in discoteca dove ero andato con i miei amici. Appena entrati si respirava un’aria pesantissima e attraverso i coni luminosi delle poche lampade presenti, concentrate in vicinanza dell’unico bar del locale, si ammiravano densi movimenti di fumo di sigarette che disegnavano pesanti nuvole sotto il soffitto.

    Odiavo il fumo. Il disprezzo verso le sigarette non nasceva da un filantropico interesse per la salute pubblica o, peggio ancora, per il mio benessere. Praticavo pochissimo sport. Ogni anno mi iscrivevo in una palestra vicino casa ma ci andavo solo due o tre volte. Anche l’attività sessuale era sregolata, ed è fuor di dubbio che un’appagante intimità sia un elisir di lunga vita. Alternavo periodi di piacevole fervore a lunghe fasi di assoluta inoperosità.

    Avevo un’alimentazione malsana, ma soprattutto facevo utilizzo cronico e metabolicamente inadeguato di etile. Non saprei dire come mai ho usato un’espressione così ridicola e sofisticata per confessare che talvolta mi stordivo con sontuose ubriacature. È qualcosa di cui ancora mi vergogno. Non bevevo tutti i giorni, spesso solo il fine settimana, ma bevevo tanto. Era per me un simbolo di socializzazione legato al gruppo. In psichiatria mi avrebbero definito un alcolista di tipo beta. Nessuna dipendenza vera e propria ma danni organici, epatici e cerebrali in particolare, si sarebbero manifestati inevitabili con lo scorrere del tempo. Nonostante un riprovevole stile di vita, se non fossi brutalmente morto, sarei vissuto a lungo, forse per sempre. Chi ha buoni amici, chi è amato e chi svolge un lavoro appagante di solito campa cent’anni.

    Con ogni probabilità sarei stato festeggiato dalle autorità comunali in una lussuosa casa per anziani dove, alla domanda del sindaco su cosa rappresentasse per me un secolo di vita, avrei risposto, sfoggiando un sorriso sdentato e un’impercettibile sindrome frontale: «I primi cent’anni non sono un traguardo bensì un trampolino verso un futuro migliore. Tanto per iniziare mi spupazzerei Milva, l’infermiera». Tutti si sarebbero messi a ridere e via a brindare.

    La sindrome frontale è un disturbo del comportamento e delle emozioni causata dalla degenerazione del lobo frontale del cervello ed è lì, nella parte anteriore della nostra materia grigia, che si calibrano gli atteggiamenti. Se i pensieri non sono più controllati e filtrati, ecco che si diventa alquanto disinibiti. Ma forse è questa la saggezza: non avere paura dei propri sentimenti.

    Ripeto, la salute non c’entrava nulla con il disprezzo verso il fumo. L’avversione era di natura estetica. Che orrore tutto quel fumo che esce dalle narici dilatate e dalle bocche contorte, per non parlare dei denti gialli e delle unghie marroni. Il momento più eccitante di un bacio è l’attimo prima dell’incontro delle labbra. Penso al fiato che manca, immagino un tuffo in mare e ancor prima alla freschezza, all’eccitazione che sa di menta e di fragola. Penso a tante cose ma non a un sigaro umido di saliva.

    Ma come detto, tranquilli voi fumatori, vivrete comunque più a lungo di me. Tranquillo anche tu signor sindaco, nessuna bottiglia di spumante da stappare in una casa per anziani durante una scatenata festa di compleanno.

    Per Milva, l’infermiera, invece mi dispiace. Si è persa qualcosa. Avrebbe potuto trascorrere cinque minuti indimenticabili.

    Tornando a quel fine settimana di metà primavera, era venerdì e avevo appena finito di cenare in solitudine: un buon piatto di spaghetti e due bicchieri di Merlot, forse tre. Attraverso la finestra della cucina del mio nuovo appartamento potevo ammirare due camelie nel giardino della casa dei vicini.

    Da poco meno di un mese avevo traslocato in uno stupendo o, come diceva l’annuncio, raffinato appartamento al pian terreno di una villetta di tre piani in via Marco Ostrini, poco fuori dal centro di Bellinzona. Prima abitavo a Giubiasco, al quarto di sette piani di un anonimo palazzo color mattone vicino alla stazione ferroviaria. Non mi ero mai sentito a casa in quell’appartamento piccolo, vecchio e buio eppure ci ero rimasto per tre anni. La velocità nel cambiare non era mai stata una mia qualità, ma ultimamente sentivo di aver bisogno di più spazio e di più luce. Avevo girato per tre buoni mesi alla ricerca di un nuovo appartamento e dopo alcuni sopralluoghi in catapecchie, avevo finalmente trovato il mio appartamento signorile, anche se vicino a una stazione di servizio. Caratteristica topografica raramente poetica ma molto utile, per almeno due motivi: semplicità nelle indicazioni quando qualcuno veniva per la prima volta a casa e per fare la spesa quando finivo tardi di lavorare.

    L’appartamento era composto da tre locali e mezzo molto spaziosi. Metri quadrati che però non sfruttavo bene. In una stanza, che fungeva da ripostiglio, vi entravo di rado: una libreria traballante con i testi studiati durante l’università, due sedie che non avrei saputo dove mettere, un tavolino, la borsa che usavo nei viaggi, l’asse da stiro e l’aspirapolvere. Anche il soggiorno avrebbe avuto bisogno dell’intervento di un architetto d’interni. Davanti alla vecchia televisione a tubo catodico c’era un divano in pelle verde. Al centro un tavolo con quattro sedie e lungo una parete una libreria solida color crema con pochissimi libri e tanto spazio vuoto. Uno dei pochi oggetti di valore, non solo economico ma anche estetico, era un coloratissimo tappeto persiano adagiato sotto il tavolo e che apprezzavo molto quando mi ci sdraiavo durante le sedute casalinghe di psicoanalisi.

    Pure la camera da letto era minimalista. Oltre al letto c’erano soltanto una sedia, su cui appoggiavo i vestiti, e un armadio in legno chiaro. Il letto però era il mio vanto. Gigantesco, duecento

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