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Hegel e la tradizione ermetica
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E-book640 pagine8 ore

Hegel e la tradizione ermetica

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Info su questo ebook

L’innovativo testo di Glenn Alexander Magee afferma che Hegel fu decisamente influenzato dalla tradizione ermetica, una linea di pensiero che ha le sue radici nell’Egitto greco-romano. Magee tratta dell’influsso di Hegel su pensatori ermetici quali Baader, Böhme e Paracelso, oltre all’attrazione che su di lui esercitarono i fenomeni occulti e paranormali. Hegel e la tradizione ermetica prende in considerazione il corpus letterario di Hegel e dimostra che il coinvolgimento con l’ermetismo attraversò tutta la sua carriera e si intensificò durante i suoi ultimi anni di vita a Berlino. Il fatto di considerare Hegel un pensatore ermetico presenta implicazioni utili a una più profonda comprensione della moderna tradizione filosofica, e in particolare dell’idealismo tedesco. Secondo Magee non solo possiamo comprendere Hegel come pensatore ermetico, nello stesso modo in cui potremmo comprenderlo come pensatore tedesco o svevo o idealista, ma se vogliamo davvero comprenderlo dobbiamo considerarlo un pensatore ermetico.
LinguaItaliano
Data di uscita19 dic 2013
ISBN9788827224595
Hegel e la tradizione ermetica
Autore

Glenn Alexander Magee

Glenn Alexander Magee è assistente di filosofia presso il C.W. Post Campus dell’Università di Long Island.

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    Anteprima del libro

    Hegel e la tradizione ermetica - Glenn Alexander Magee

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    Hegel e la tradizione ermetica

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    Le radici occulte dell’idealismo contemporaneo

    Glenn Alexander Magee

    Introduzione di Massimo Donà

    Postfazione di Giandomenico Casalino

    Traduzione dall’inglese di Milvia Faccia

    Edizione italiana a cura di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco

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    Copyright

    Hegel e la tradizione ermetica - Le radici occulte dell’idealismo contemporaneo

    di Glenn Alexander Magee

    Introduzione di Massimo Donà

    Postfazione di Giandomenico Casalino

    Traduzione dall’inglese di Milvia Faccia

    Edizione italiana a cura di Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco

    In copertina:

    Jakob Schlesinger (1792-1855), Il filosofo Georg FriedrichWilhelm Hegel, olio su tela, 1831

    ISBN 978-88-272-2459-5

    I edizione digitale

    Titolo originale dell’opera: HEGEL AND THE HERMETIC TRADITION

    © Copyright 2001 by Cornell University. Originally published by Cornell University Press,

    Ithaca Italian edition published by arrangement with Eulama International Literay

    Agency, Roma

    © Copyright 2013 by Edizioni Mediterranee

    Via Flaminia, 109 - 00196 Roma

    www.edizionimediterranee.net

    Versione digitale realizzata da Volume Edizioni srl - Roma

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    Elenco delle illustrazioni

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    1. Il diagramma del Triangolo di Hegel

    2. Chiave per il diagramma del Triangolo

    3. Da un manoscritto del XVIII secolo noto a Goethe

    4. Mercurius redivivus (1630)

    5. La Riflessione raffigurata graficamente

    6. L’Albero della Vita secondo lo schema di Brucker

    7. La colomba dello Spirito che fa ritorno a Dio (il Padre)

    8. Le Sefiroth lurianiche

    9. Le Tre Età di Gioacchino da Fiore

    Ringraziamenti

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    Ringrazio coloro che mi hanno insegnato la filosofia di Hegel: Martin J. De Nys, Wayne J. Froman, Thelma Z. Lavine, Donald Phillip Verene e Richard Dien Winfield. Sono in debito anche con quattro persone che non sono mai stati miei insegnanti, ma la cui opera ha influenzato più delle altre la mia interpretazione del sistema hegeliano: Eric Voegelin, J.N. Findlay, Errol E. Harris e G.R.G. Mure. La loro interpretazione di Hegel non è attualmente condivisa, ma io la ritengo sostanzialmente corretta.

    Sono molto grato alla Fondazione Earhart per la generosa borsa di studio che mi ha consentito di continuare a lavorare sul presente libro nell’anno accademico 1998-1999. Voglio ringraziare anche la facoltà di Filosofia dell’Università di Emory per aver sovvenzionato la mia ricerca in Germania durante l’estate del 1996. Grazie allo staff della Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz di Berlino per avermi permesso di consultare i manoscritti di Hegel e altro materiale. Otto Pöggeler dell’Archivio Hegeliano di Bochum è stato inoltre tanto gentile da indicarmi alcune utili opere letterarie. Ringrazio anche Marsha Keith Schuchard, che mi ha molto aiutato con la sua conoscenza della tradizione ermetica.

    Devo esprimere la mia particolare gratitudine a Donald Phillip Verene. La sua generosità, il suo sostegno, i suoi consigli e, soprattutto, il suo buongusto hanno significato molto per me. Grazie anche a David Carr, Ann Hartle, Donald Livingston, Donald Rutherford e Cynthia Willett, tutti dell’Università di Emory, per l’aiuto, la cortesia e le costruttive critiche. Sono in debito inoltre con Tom Darby e Cyril O’Regan per le acute osservazioni sulla prima stesura della presente opera, e con Chris Matthew Sciabarra per l’impegno profuso a mio favore.

    Un ringraziamento speciale a Catherine Rice, mia curatrice presso la Cornell. Il suo sostegno ed entusiasmo sono stati molto importanti per me.

    Greg Johnson mi ha aiutato moltissimo in tutte le fasi della stesura. In effetti, fu lui a suggerirmi inizialmente questo progetto, che per tale ragione dedico a lui.

    Atlanta, Georgia G.A.M.

    Abbreviazioni

    image-3.png

    Butler = The Letters, traduzione di Clark Butler e Christianne Seiler, Indiana University Press, Bloomington 1984.

    EL = Encyclopedia Logic. Il riferimento è in base al numero di paragrafo di Hegel, ad esempio "EL § 9".

    FN = Filosofia della Natura. Il riferimento è in base al numero di paragrafo di Hegel.

    FD = Filosofia del Diritto. Il riferimento è in base al numero di paragrafo di Hegel.

    FS = Filosofia dello Spirito. Il riferimento è in base al numero di paragrafo di Hegel.

    Geraets = The Encyclopedia Logic, traduzione di T.F. Geraets et al., State University of New York Press, Albany 1991.

    Hoffmeister = Johannes Hoffmeister, Briefe von und an Hegel, Felix Meiner Verlag, 4 voll., Amburgo 1952-1981. Il riferimento è in base alle lettere numerate da Hoffmeister, ad esempio Hoffmeister # 15.

    Knox = Philosophy of Right, traduzione di T.M. Knox, Clarendon Press, Oxford 1952.

    LHP = Lectures on the History of Philosophy, traduzione di E.S. Haldane, 3 voll., Kegan Paul, Trench, Trübner, Londra 1892.

    LPR = Lectures on the Philosophy of Religion, a cura di e tradotto da Peter C. Hodgson et al., University of California Press, Berkeley 1984.

    Miller = The Phenomenology of Spirit, traduzione di A.V. Miller, Oxford University Press, Oxford 1977. Il riferimento è in base al numero di pagina di Miller, non al numero di paragrafo. I numeri di paragrafo presenti nell’edizione di Miller non esistono nell’originale di Hegel e offrono semplicemente un riferimento per il commento di J.N. Findlay, che forma un’appendice alla traduzione; oppure = Science of Logic, traduzione di A.V. Miller, George Allen and Unwin, Londra 1969. Il contesto chiarirà a quale dei due testi si fa riferimento.

    Nisbet = Lectures on the Philosophy of World History, traduzione di H.B. Nisbet, Cambridge University Press, Cambridge 1975.

    Petry = Hegel’s Philosophy of Nature, traduzione di M.J. Petry, George Allen and Unwin, 3 voll., Londra 1970; oppure Hegel’s Philosophy of Subjective Spirit, traduzione di M.J. Petry, D. Reidel, 3 voll., Dordrecht 1978. Il contesto chiarirà a quale dei due testi si fa riferimento.

    PG = Phänomenologie des Geistes, a cura di Hans-Friedrich Wessels e Heinrich Clairmont, Felix Meiner, Amburgo 1988.

    VIG = Die Vernunft in der Geschichte, a cura di Johannes Hoffmeister, Akademie Verlag, Berlino 1966.

    VPR = Vorlesungen über die Philosophie der Religion, a cura di Walter Jaeschke, Felix Meiner, 3 voll., Amburgo 1983-1987.

    Wallace = Hegel’s Philosophy of Mind, traduzione di William Wallace, Clarendon Press, Oxford 1971.

    Werke = G.W.F. Hegel: Werke, a cura di Eva Moldenhauer e Karl Markus Michel, Suhrkamp, 20 voll., Francoforte sul Meno 1986.

    WL = Wissenschaft der Logik, a cura di Hans-Jürgen Gawoll, Felix Meiner, 3 voll., Amburgo 1986-1992. Include l’edizione del 1812 di Das Sein, ma a meno di diversa annotazione il riferimento "WL 1" è sempre all’edizione del 1832 di quest’ultima opera, a cura di Hans-Jürgen Gawoll, Felix Meiner, Amburgo 1990.

    Z = Zusatz.

    A meno di diversa indicazione nella nota, il riferimento è al numero di pagina.

    Quando s’allude a testi specifici di Hegel, come la Filosofia della Natura, i titoli sono sempre in corsivo, al contrario dei nomi delle singole scienze hegeliane, per i quali s’è adottata la normale convenzione dell’iniziale maiuscola per le parole che hanno un significato tecnico particolare nella filosofia di Hegel, come l’Assoluto, Essere, Logica, il Concreto, Sostanza.

    Prefazione

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    LOGOS ERMETICO

    Lo speculativo hegeliano e la tradizione

    magico-ermetica come forma stessa della razionalità

    Gli antichi dicevano che i sapienti e gli ispirati scrivevano sotto

    dettatura; questo era appunto perché, scrivendo, si erano preparati alla dettatura, cioè alla lettura.

    Nei libri leggiamo per speculum in aenigmate: scrivendo ci

    prepariamo a comprendere ciò che nei libri è soltanto scrittura, ciò che è soltanto lo specchio e non la magia e l’enigma.

    E a sentire quindi la presenza della magia e dell’enigma.

    Andrea Emo (1964), La voce incomparabile del silenzio, a cura di Massimo Donà e Raffaella Toffolo, Gallucci Editore, Roma 2013, p. 46-47

    1.

    Diciamo subito che la questione messa a tema da questo bellissimo volume di Glenn Alexander Magee è quanto mai complessa e suscettibile di molteplici interpretazioni. Il rapporto di Hegel con la tradizione ermetica, infatti, è intrinsecamente problematico; se non altro perché il vero si dà per lui in forma esclusivamente razionale.

    Ferma restando la fascinazione prodotta da pagine come queste, capaci di mostrare in modo dettagliato e puntiglioso gli indiscutibili rapporti tra la forma del pensiero hegeliano e la grande tradizione ermetica, magica o comunque religiosa (in primis quella cristiana) – una tradizione che non si lascia certo costringere e giudicare dai parametri disegnati dalla ragione moderna e dalla sua pretesa di ridurre tutto alla rigida meccanica regolata dal principio di determinazione –, resta infatti innegabile che per Hegel il vero si dica nella forma dialettica che per lui dice appunto la quintessenza della razionalità. Sì, per lui, il reale non sarebbe neppure reale se non fosse in-uno anche razionale.

    Fermo restando che dire ragione, per il grande maestro dell’idealismo tedesco, significa evocare un orizzonte che comporta in actu signato l’eliminazione di qualsivoglia presupposizione; e dunque la costitutiva impossibilità di chiamare in causa un Assoluto che non sia quello stesso posto, in quanto tale, dal logos umano troppo umano che ci costituisce ab origine. E che, di qualsivoglia alterità, è costretto a riconoscere il suo doversi lasciar ricomprendere, da ultimo, all’interno di quel medesimo orizzonte che mai avrebbe potuto ospitare un divino che non coincidesse con la semplice, essa sì divina, intrascendibilità sua propria.

    Per Hegel, d’altro canto, l’Uno è già da sempre molteplice; e dunque le sue infinite determinazioni non vengono da e non ritornano all‘Uno; esse dicono piuttosto l’eterna e perfetta espressione di un Assoluto originariamente inscritto nella vita di tali determinazioni, e dunque non costretto ad attendere che esse tornino alla propria origine dopo esserne staccate (conformemente al modo anassimandreo d’intendere il rapporto tra uno e molti). In modo tale da rendere la loro stessa esistenza perfettamente identificabile con lo svolgimento di un testo già da sempre scritto. E dunque destinato a rendere sostanzialmente apparente la stessa contingenza solitamente attribuita a una storia cui tutto sembra essere da ultimo affidato.

    Perciò, anche il percorso mirabilmente descritto nella Fenomenologia dello Spirito va necessariamente collocato, dal punto di vista hegeliano, all’interno di un orizzonte eidetico alla luce del quale dovremmo tutti riconoscere non tanto, come sancito dalla prospettiva ermetica, che l’Uno deve farsi molteplice per ritornare da ultimo alla propria concreta unità (affermando sì la trascendenza di Dio rispetto al mondo, ma riconoscendo nello stesso tempo il suo necessario prender parte alle vicende di quest’ultimo, perché, secondo l’ermetismo, ci ricorda giustamente Magee, Dio è metafisicamente distinto dal mondo, eppure ne ha bisogno per essere completo¹), quanto piuttosto che esso vive palesandosi in tormentate vicende storiche comunque destinate a non disegnare altro che la mappa di un eterno nelle cui trame l’Uno non potrà che essersi già da sempre realizzato. Sì che, ognuna delle molteplici emergenze prodotte dalla storia, lungi dall’attendere una finale redenzione della propria erroneità o (per dirla con Hegel) astrattezza, dovrà riconoscere di essersi prodotta solo per rendere evidente il suo stesso non essersi invero mai prodotta.

    Un quadro, quello appena descritto, che rende alquanto difficile fare di Hegel un pensatore ermetico; un pensatore rispetto al quale, cioè, l’influenza della tradizione ermetica dica qualcosa di più di uno spunto, un’influenza, sicuramente importanti e inconfutabili – come ci si rende conto seguendo la dettagliata ricostruzione operata da Magee – ma evidentemente mantenute solo in quanto oltrepassate. Ossia, inverate da una ragione che proprio in forza dell’Aufhebung rende quasi impossibile credere che il mantenuto (conservato) possa mantenersi (conservarsi) nella sua forma originaria (ché, se così fosse, non si capirebbe il senso dell’inveramento operato appunto dall’Aufhebung medesima).

    Così come la tesi e l’antitesi trovano nella sintesi qualcosa che non può certo essere lo stesso originariamente presente nella forma della tesi, allo stesso modo, anche l’ermetismo, per quanto presente e vivente nel sistema hegeliano – secondo quanto ci mostra benissimo Magee (operante in esso, cioè, quale momento imprescindibile della sua stessa struttura, quale anima della medesima) – non può certo rimanere, all’interno del sistema del Geist dispiegato, quello stesso che poteva esser stato prima di tale inveramento… prima cioè del suo lasciarsi comprendere all’interno di una struttura quintessenzialmente razionale.

    Insomma, l’Aufhebung operata dalla razionalità hegeliana non può lasciare immutato nessuno degli elementi che pur potrebbero aver significativamente contribuito a determinarne la forma specifica.

    Ecco perché – e proprio per dare maggior forza alla tesi ermeneutica proposta in questo volume da Magee – riteniamo fondamentale cercare di capire se non sia piuttosto la forma stessa della razionalità hegeliana a custodire (per quanto mascherata dalla forma che la medesima sembra volersi consapevolmente assegnare) la quintessenza speculativa caratterizzante tutto l’ermetismo filosofico.

    Ma – insistiamo – non tanto per ciò che nel sistema hegeliano si fa rievocazione esplicita dei concetti e delle strutture già proprie dell’ermetismo; che, in questo contesto, sarebbero comunque destinati a confliggere con il compito esplicitamente assegnatosi dal sapere hegeliano.

    Insomma, quel che dovremo cercare di capire è se il sistema filosofico hegeliano sia rimasto, nonostante tutto, fedele espressione di una sapienza ermetica operante in esso proprio nella forma concettuale e speculativa attraverso cui il teorico della dialettica avrebbe ritenuto di poter realizzare una vera e propria trasfigurazione concettuale delle parole magiche che pur evocano la sua forma. Ma che sembrano poterla… solamente evocare (per usare l’espressione di Rosenkranz opportunamente citata da Magee).

    2.

    Mostra efficacemente Magee come l’ermetismo storico sia stato quintessenzialmente caratterizzato da una concezione del rapporto con la trascendenza che potremmo tranquillamente definire ambivalente. Ambivalente perché, se, da un lato, il sapiente ermetico ritiene che Dio sia un principio del mondo totalmente inassimilabile al modo proprio dell’esserci mondano, da un altro lato il medesimo ritiene anche che Dio non sia affatto estraneo al mondo. Se è vero che è già Lui ad averne bisogno, prima ancora che il mondo possa aver bisogno di Lui.

    Il Dio dell’ermetismo è, infatti, un Dio quintessenzialmente generatore; lo dice in modo chiaro il Corpus Hermeticum. In modo tale che il volere che le cose siano esprima di fatto la sua essenza più propria.

    Ma, per l’ermetismo storico, non meno rilevante è il ruolo svolto dall’uomo all’interno di questo processo (un processo generativo indipendentemente dal quale Dio sembra non potersi neppure connettere a ciò che egli stesso, peraltro, avrebbe fatto esistere); infatti, senza la mediazione operata dall’essere umano, non si potrebbe mai realizzare la seconda tappa di questo processo… ossia, quella del ritorno a Dio – la sola che consente a Dio di farsi davvero completo.

    Il Dio dell’ermetismo, insomma, è un Dio che non basta a se stesso; è un Dio che solo nel fare umano sembra poter trovare il proprio imprescindibile complemento. Nulla a che vedere, dunque, con l’autosufficienza dell’Uno plotiniano. Fermo restando che l’agire umano potrà portare a compimento tale dinamica, consegnandola a una perfetta circolarità (in modo tale da consentire all’agire divino di tornare a sé), solo a partire da un processo di purificazione-iniziazione analogo a quello descritto da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito.

    Magee indica con dovizia di particolari e con riferimenti sempre molto precisi le molte analogie che tengono insieme l’idea della conoscenza proveniente dalla tradizione magico-ermetica e quella articolata dal maestro dell’idealismo; mostrando come, proprio al modo degli ermetici antichi, anche Hegel sarebbe giunto a elaborare un’idea di conoscenza intrinsecamente concreta… ossia, originariamente connessa a un fare chiamato a legittimarne il compimento. Dando così forma a un’idea di filosofia ben lontana dal teoreticismo speculativo con cui troppo spesso il sistema di Hegel sarebbe stato impropriamente identificato (in primis da Marx).

    La filosofia per Hegel ha a che fare con la vita stessa, ci dice Magee, mostrandoci come anche per Hegel, al modo dell’ermetismo tradizionale, conoscere tutto significa avere il controllo su tutte le cose². Sì che il filosofo hegeliano finisca per costituirsi come un vero e proprio magus; come il sapiente bruniano, dunque, vocato a trasfigurare l’astrattezza del mondo in vista di una ben più rilevante trasformazione di sé medesimo.

    In tale prospettiva, peraltro, avrebbe potuto dirsi mago chiunque si fosse dimostrato capace di contribuire in maniera determinante ed efficace al ripristino di una perfezione universale che, senza il suo ausilio, non si sarebbe mai potuta compiere.

    Ma, se questo è vero per il sapiente-mago bruniano, per il piccolo-Dio cusaniano, se questo è vero per il teosofo böhmiano, se questo è vero un po’ per tutta la grande tradizione ermetica sino all’Ottocento, con Hegel la nuova prospettiva fondata sull’assolutezza dello Spirito, per quanto intrisa di concetti che alla tradizione ermetica fanno evidentemente riferimento, e della medesima costituiscono spesso un chiaro sviluppo (finendo per riproporre molte delle sue costitutive dinamiche strutturali), si pone in netta contrapposizione rispetto a quel passato. E innanzitutto per un motivo; perché, dal punto di vista hegeliano, la perfezione e la compiutezza dell’Assoluto sono date ab origine.

    In modo tale che, la vita dell’essente, la vita degli individui nella storia, così come la vita della natura, debbano comunque ri-disegnare quel che esse di fatto sarebbero già da sempre state.

    D’altro canto, per Hegel il concreto non si costituisce se non attraversando le vicende di una coscienza che da astratta volge a farsi concreta. È vero.

    La questione è dunque proprio questa: che senso ha istituire, come fa appunto Hegel, una concretezza originaria il cui costituirsi sembra non poter far comunque a meno di consentire il dolore dell’astrattezza, e dunque il patimento che caratterizzerebbe qualsivoglia forma di esistenza individuale? Da dove, cioè, il bisogno di ricordar-si da parte dell’assoluto, di ricordarsi in quelle forme cadute che altro non sono, in ogni caso, se non gli infiniti modi di una sempre identica sostanza?

    Anche questo della memoria, peraltro, è un tema tipicamente ermetico, sviluppato da quasi tutti i protagonisti, nonché dai più disparati testimoni della prisca philosophia. Ma in Hegel quel che va ri-cor-dato è appunto quello stesso che non avrebbe mai abbandonato nessuna delle sue manifestazioni specifiche. Neppure quella naturale; in cui, sempre secondo il teorico della dialettica, il Padre si sarebbe fatto Figlio, rinunciando alla propria autosufficienza; obbligandosi così a fare i conti con un’alterità che, per quanto fosse stata da esso medesimo prodotta, avrebbe comunque finito per istituire un’estraneità reale… e, in quanto tale, tutta da riconquistare.

    Quello che siamo da sempre, insomma, non lo ricordiamo; ossia, ci sfugge. E per un motivo ben preciso: perché lo siamo… ma lo siamo appunto da semplici individui. Perché lo siamo, cioè, solo in quanto parti che, concepite nella loro originaria determinatezza, pur potendo sempre accontentarsi di dirsi altre le une dalle altre… in verità pretendono quasi sempre di abbracciare l’Assoluto che pur nessuna di esse è mai compiutamente.

    In Hegel, insomma, tutto quel processo di autorealizzazione dell’Assoluto che il pensiero ermetico riteneva quintessenziale al costituirsi della stessa assolutezza dell’Assoluto, sembra non trovare giustificazione alcuna; stante che tutto quel che accade dice, agli occhi di Hegel, il semplice mostrarsi da parte del suo non esser in verità mai accaduto. Da ultimo, quindi, sempre dal punto di vista hegeliano, si dovrà finanche riconoscere che il tempo storico non solo disegna un paesaggio che è da ultimo quello dell’eterno, ma soprattutto si mostra nel modo in cui si mostra per rendere evidente il suo stesso non esser affatto quel che di esso sembra doversi dire.

    Non a caso, là dove si premura di disegnare il senso e la vera direzione del processo dialettico – ossia nella parte introduttiva della Scienza della Logica – Hegel precisa come l’andare avanti che caratterizzerebbe questo movimento sia in verità un tornare indietro a quel vero che il cominciamento del processo deve necessariamente presupporre. Sì da doverlo riconoscere come verità già data prima che il processo stesso potesse volgere alla sua riconquista.

    Hegel, cioè, concepisce una concretezza che non accade solo come risultato del movimento dialettico e della potenza negativa in esso originariamente inscritta, ma, nel risultato, riconosce appunto l’unica ragione possibile di quella stessa processualità. Ovvero, il suo presupposto. Che è come dire la sua vera e propria condizione di possibilità.

    Insomma, solo se il vero è già costituito come concreto, là dove qualcosa si dà, l’astratto sarà costretto a negarsi e a dar vita alla dinamica che a quel medesimo vero dovrà da ultimo necessariamente ricondurre. Altrimenti non potremmo mai riuscire a rendere ragione del doversi negare da parte della determinazione astratta (ovvero, da parte del cominciamento).

    L’astratto, dunque, deve negarsi, e si nega… ma solo perché il concreto già lo anima, imponendogli appunto di negarsi e dar inizio alla dinamica di uno spirituale che nulla potrà mai lasciare ancorato al proprio astratto isolamento.

    Hegel è molto chiaro a questo proposito; perciò il circolo di circoli non inizia dal cominciamento – quest’ultimo, infatti, patisce un vero e proprio contraccolpo, trovandosi chiamato da un futuro che lo muove invero verso il suo stesso eterno e dunque mai posseduto passato³.

    Insomma, il circolo dei circoli tematizzato dal padre dell’idealismo dice una circolarità già da sempre compiuta, rispetto alla quale nessun passo avanti potrebbe in alcun modo contribuire alla sua piena manifestazione – se non… per il manifestarsi nella forma temporale che compete al determinato da parte di ciò che determinato e temporale non è affatto – ma che non per questo istituisce una dimensione semplicemente altra da quella temporale e determinata che esso per l’appunto non-è (se così facesse, infatti, reinscriverebbe questa sua stessa alterità all’interno di quell’orizzonte della determinatezza che dice il luogo intrascendibile entro il quale, solamente, ogni esistenza è altra dalle altre).

    Perciò il Dio hegeliano è tutto nella storia e vive come storia; esso è Offenbarung, ossia aprirsi originario che si fa nella generazione di un mondo che lo mostra per quel che esso realmente è – che lo mostra, quindi, nel semplice e infinito negarsi da parte di qualsivoglia possibile determinatezza.

    Esso è rivelato da un mondo che lo dice compiutamente… rendendolo per l’appunto compiuto in forza di una negazione dialettica che muove ogni determinatezza a disegnarne il volto senza dover ogni volta riconoscere la sua inattingibile sovraessenzialità. Ché non si procede qui dall’irriflesso al riflesso – come avrebbe voluto Böhme –, ma dal riflesso al riflesso. Dove, nella consapevolezza autocosciente della fine, a palesarsi sarà appunto il semplice fatto che l’irriflessività caratterizzante i momenti astratti non può non esser stata già da sempre negata e dunque salvata dall’Assoluto e dalla sua potenza infinita.

    In Hegel, insomma, il movimento e le dinamiche della storia sono costitutivamente apparenti, nel senso che esse in verità si limitano a mostrare come quel che appare (e dunque anche il movimento in quanto tale) non sia mai quel che di esso appare. Stante che, nella sua (di quel che appare) concretezza, a mostrarsi è sempre e solamente un Assoluto che, lungi dal contrapporsi astrattamente al modo in cui tutto quel che si manifesta, di fatto, si manifesta, si dice nel semplice non esser quel che è da parte del manifestantesi, ossia, nel suo non esser quel che, del medesimo, sempre e solamente si manifesta. Nel suo chiamare in causa, in verità, il manifestarsi di una totalità che, pur vivendo in ogni determinatezza parziale e limitata come semplice negazione della medesima, non si lascia di certo esaurire in quel che da quest’ultima verrà ogni volta reso manifesto.

    Insomma, il negarsi della parte educa la parte medesima a riconoscersi animata e resa possibile solo dalla totalità, costringendola comunque a non accontentarsi mai di questa vuota negazione, e a riscriversi continuamente a partire da una relazionalità e da una concretezza alla luce della quale, solamente, potrà rendersi di volta in volta riconoscibile la sua vera e sempre fuorviante parzialità.

    Perciò il filosofo hegeliano sancisce il primato del tutto sulla parte; un tutto che mai, comunque, dal punto di vista sempre e comunque parziale caratterizzante lo sguardo dell’umano, potrà dirsi per quel che esso è, indipendentemente da una negazione che avrà se non altro il compito di disincantarci rispetto al potere persuasivo e idolatrico della parte. Di una parte che, non a caso, tende sempre e comunque a spacciarsi come totalità. E che, solo la potenza del negativo può aiutare a sapersi vera mente, consentendole di purificarsi da una tentazione che è propria di ogni astratto – che, in quanto astratto, è necessariamente inconsapevole della propria astrattezza (altrimenti si farebbe immediata espressione di un modo concreto d’intendere appunto la propria astrattezza).

    L’unità originaria, infatti, non è in Hegel – come in Böhme – "un’unità irriflessiva… che debba essere raggiunta e riacquisita in piena autoconsapevolezza"⁴. Come un Graal che nessuno prima di Hegel sarebbe riuscito a trovare.

    Per Hegel, insomma, l’Infinito ed Eterno, ossia l’Assoluto, non soltanto sono conoscibili (a differenza di quanto sostenuto da tutta la tradizione della teologia negativa di ascendenza neoplatonica) – come sottolinea anche Magee –, ma costituiscono invero il soggetto stesso del conoscere. Che, solo in quanto soggetto reale del conoscere, può chiamarci e motivarci a un sovrumano impegno volto a corrispondervi; perché animato da una forza che non può certo essere identificata con la fragile volontà degli individui. Ché, di gran lunga la sopravanza, costringendola per ciò stesso a collocare la potenza sconfinata del vero in una dimensione che, in quanto eterna, nessun desiderio di conoscenza potrà mai produrre – ma solo impegnarsi a ricordare.

    Stante che, se dall’eterno siamo tutti necessariamente costituiti – per quanto, come gli interlocutori di Socrate, mai ne siamo lucidamente consapevoli –, nello stesso conoscere questo o quello, cioè, nello stesso conoscere ogni singola cosa, a venirci offerta non è altro che la possibilità di ri-conoscere in ognuna la presenza perfetta, per quanto sub specie determinationis, dell’Assoluto in quanto tale.

    Lo rileva giustamente anche Magee, là dove sottolinea come, in verità, ci sia dato conoscere le cose per come sono in sé e per sé, perché la cosa finita che appare ai nostri occhi è di per sé apparenza di quell’essere infinito e conoscibile per eccellenza che è l’Assoluto o Incondizionato⁵.

    Perciò, nella voce del filosofo, e quindi nella sua conoscenza, a esprimersi è sempre e solamente lo Spirito in quanto tale. Perciò la sua è una sorta di scrittura automatica che osserva passivamente il gioco della dialettica che si sviluppa sulla sua pagina⁶.

    Dove, a scriversi è sì quel Dio originario che abbiamo visto venire identificato da Hegel con lo stesso presupposto di qualsivoglia cominciamento, ma che – con buona pace di Magee – non può precedere temporalmente il suo sviluppo logico ed esistenziale.

    Se dunque il teosofo Böhme fa riferimento a un Dio prima del suo sviluppo, a un Dio concepito cioè come semplice e oscura natura… che, nell’oscura natura, non si chiama neppure Dio – a un Dio, cioè, concepito come vero e proprio Ungrund che mai potrà rivelarsi a meno di non assumere qualche forma determinata⁷ – in Hegel, invece, ciò che si mostra alla fine, nella sua compiutezza definitiva, è quello stesso che accompagna il processo sin dal suo inizio, e che, solo, rende possibile il non potersi considerare definitiva e ultima da parte di nessuna delle sue determinatezze. Ma finanche il non potersi considerare prima in senso proprio neppure da parte della prima determinatezza, ossia da parte del cominciamento del sapere. Che non si muove, dunque ma è mosso… da qualcosa che, appunto, non lo precede affatto (ché, se lo precedesse, sarebbe esso medesimo un momento della successione temporale, e non l’eterno che invece deve essere), e che dunque non si ritrova caduto in quell’inizio temporale, ma vive della e nella sua stessa vita. Non come sostanza, dunque, ma come soggetto.

    3.

    Questo, ciò che il sistema hegeliano dice di sé; o meglio, quello che esso vorrebbe essere. Conformemente a una struttura che – come si dovrebbe esser ormai capito – rende alquanto problematica la sua inscrizione in quella storia del sapere ermetico di cui Magee vorrebbe farlo essere radicale espressione.

    Eppure – ecco la sfida che abbiamo già annunciato all’inizio di queste riflessioni – Magee ha perfettamente ragione.

    Per quanto abbia ragione non tanto o non solo per le molte consonanze figurali e concettuali che connettono il testo hegeliano alla tradizione magico-ermetica facente capo alla prisca philosophia; che sembrano abbastanza ragionevolmente autorizzarci a iscrivere la razionalità hegeliana nel solco di quella grande corrente.

    D’altro canto, è lo stesso Hegel, come ci ricorda Magee, ad affermare – in un frammento conservato da Rosenkranz – di voler dedicare i propri sforzi filosofici "proprio alla restaurazione della più antica di tutte le cose, liberandola da tutti i malintesi sotto i quali le epoche recenti di non-filosofia l’hanno sepolta"⁸.

    Magee ha ragione, insomma, ma per un altro motivo; ossia, perché, di là dalla volontà e dalle intenzioni che muovono di fatto la ricerca hegeliana – le stesse che la pongono in ogni caso al di fuori di una prospettiva che vorrebbe il sapere filosofico risolvibile nella ricerca infinita delle relazioni (esse stesse necessariamente infinite) che connettono il micro al macrocosmo – la struttura della razionalità elaborata dal teorico della dialettica sembra non riuscire a tenersi davvero fuori dal grande solco sapienziale tracciato da ricercatori come Paracelso, Pico della Mirandola, Niccolò Cusano, Giordano Bruno, Agrippa, Böhme e molti altri…

    Cerchiamo dunque di interrogare gli elementi che abbiamo già sottolineato. Cerchiamo di capire, cioè, cosa essi implichino davvero, di là dalla consapevolezza esplicita testimoniata dalle parole hegeliane.

    Hegel, come abbiamo visto, ritiene che l’Assoluto disegni una dimensione che, incarnandosi nella storia del mondo e attraversandola per intero, dovrebbe infine riuscire a palesarsi senza residuo alcuno. Il divino è infatti per lui, come per gli gnostici, quintessenzialmente conoscibile, ma soprattutto è conoscibile in modo tale da rendere lo stesso soggetto conoscente – e proprio in virtù di tale percorso sapienziale – perfetta espressione dell’assolutezza dell’Assoluto. Anche in termini di potenza e controllo sulle cose del mondo.

    Un risultato, quest’ultimo, che il filosofo può senz’altro proporsi di conseguire, e che potrà realmente conseguire…. ma solo alla fine, quando, cioè, l’eterno – quello stesso che regola il processo sin dal suo inizio –, sarà compiutamente dispiegato.

    Il primo problema che ci si presenta è però il seguente: come rendere ragione del fatto che il già-da-sempre-compiuto (ossia l’Assoluto, che da nulla di non-assoluto sembra poter essere fatto risultare, quale guadagno di una ricerca caratterizzata da semplici poros e penìa…. che, in quanto tali, mai potranno render ragione dell’assolutezza di un prodotto che rimarrà comunque il loro prodotto) possa, ma soprattutto debba svolgersi al fine di sapersi nel modo che gli compete, in quanto reale e attendibile espressione dello Spirito Assoluto?

    Certo, Hegel sottopone a critica finanche l’amatissimo Spinoza; ce lo ricorda giustamente Magee, là dove rileva come il teorico della dialettica ritenesse la sostanza spinoziana ancora troppo rigida e pietrificata, perché non ancora animata da determinazioni spirituali come quelle böhemiane – che si energizzano e si espandono l’una nell’altra.

    Hegel ritiene insomma che una forza possa riconoscersi come tale solo nel suo manifestarsi, ossia, nell’esprimersi attraverso il rapporto con un altro che si avrà per l’appunto la forza di ricondurre a sé.

    Insomma, l’Assoluto hegeliano si esprime in una struttura originariamente dinamica. Questo è chiaro.

    Ma insistiamo: perché mai il già da sempre compiuto (che significa: il già da sempre espresso) avrebbe bisogno di esprimersi?

    A meno che non si sia disposti ad ammettere che la sua supposta originaria compiutezza sia in quanto tale ancora mancante di qualcosa…. mancante almeno di quella rinnovata espressione senza di cui sembrerebbe non potersi ancora dire compiutamente e perfettamente manifesta?

    E poi il cominciamento, in Hegel, presuppone l’Inizio, il Fondamento – ossia, l’Assoluto.

    Infatti, quando il cominciamento comincia, l’Assoluto non è ancora di là da venire, ma vale piuttosto come quella forza illimitata che, sola, sembra poter determinare il cominciamento a svolgersi e a disegnare la sua (dell’Assoluto) vera compiutezza. Una forza già operante dunque; che, anzi, deve operare, per manifestarsi nella forma perfetta che solo la fine riuscirà a rendere compiuta e verace.

    Ma – insistiamo – perché mai tale assolutezza dovrebbe farsi operatrice? In che senso, cioè, il già compiuto si dovrebbe sempre e ancora compiere?

    Hegel non vuole distinguere il "prima del cominciamento dal cominciamento medesimo", quasi potesse trattarsi di una semplice sequenza temporale; Hegel, cioè, non vuole istituire un altro tempo, precedente finanche il semplice cominciare del cominciamento, ma dice piuttosto che, solo alla fine, il cominciamento si ritrova nel suo vero prima. Quello valevole appunto come reale fondamento – da cui il cominciamento verrebbe appunto fatto cominciare.

    Insomma, non c’è alcun prima rispetto al cominciamento; eppure… eppure, il cominciamento viene fatto cominciare. Viene reso cioè cominciante da qualcosa che non viene da lui medesimo. Qualcosa, ossia, una forza, da cui esso verrebbe propriamente spinto a negarsi. Una verità che la determinatezza può quindi solo patire. Per quanto non sia da essa resa astrattamente distinguibile, e riconoscibile come semplicemente altra dall’esistenza da essa resa originariamente negantesi.

    Infatti, se il negarsi del finito si producesse a partire dalla determinatezza medesima, quello che sembra costituirsi come un divenire sarebbe pura parvenza (come sembrerebbe doversi dire secondo la prospettiva severiniana), e il tutto sarebbe già dato in virtù di un negarsi di fatto originariamente risolto nella statica positività che andrebbe decisamente sostituita al dinamico negarsi della determinatezza e dunque della parzialità. D’altro canto, se le cose stessero in questo modo, il cominciamento non comincerebbe, ma sarebbe eternamente cominciante (e il divenire non potrebbe far riferimento a qualcosa come un suo reale cominciamento).

    In questa prospettiva, il movimento dialettico viene quindi concepito dallo Hegel come istituente un vero e proprio contraccolpo, che, nel condurre avanti il cominciante, lo risospingerebbe in realtà verso quel fondamento da cui il medesimo deve nello stesso tempo anche pro-venire. Il cominciante è dunque fatto cominciare dal fondamento.

    Insomma, solo in virtù della forza espressa dal fondamento, l’incominciante comincia; cioè, si muove. O meglio, si nega.

    Il negarsi del cominciamento, dunque (potremmo anche dire: della determinazione astratta, o, dell’astrattamente positivo), non è qualcosa che si dia come tale in forza di una potenza negativa originariamente inscritta nel cominciamento (che per poter cominciare da sé, dovrebbe in qualche modo già essere quale ragione del proprio cominciare, ancor prima di cominciare, vanificando così l’evento di questo stesso cominciamento).

    Insomma, non è il cominciamento, in senso proprio, a negarsi; ché esso viene piuttosto negato dalla potenza presupposta che gli impone di negarsi, perché dice appunto l’impossibilità, per esso, di essere quel che è. O anche, di stare semplicemente alla propria determinazione astratta.

    Se fosse il cominciamento stesso a negarsi, infatti, il negativo non direbbe il negarsi suo proprio, ma direbbe piuttosto il suo immediato apparire come negantesi.

    E la negazione non esprimerebbe la potenza di un atto negativo, ma si limiterebbe a mostrare quel che la determinatezza positiva sarebbe già da sempre in quanto tale.

    Le cose, dunque, non stanno in questi termini. Perché per Hegel, nel cominciamento, la determinatezza positiva si pone come astrattamente positiva. Sì che, proprio in quanto posizione di quel che non può essere posto, la medesima possa venire travolta dalla potenza del negativo.

    Certo, per Hegel tale negarsi non accade in un secondo momento; appunto perché sin da subito la determinatezza positiva patisce la potenza di un negare che le impedisce di stare immobilmente ancorata alla propria positività.

    Patisce cioè la sovranità del concreto, da cui l’astratto sarebbe in verità già da sempre reso possibile.

    D’altro canto, come potrebbe darsi la determinazione astratta, ossia come potrebbe la medesima farsi riconoscere come ab-stratta, se non in quanto separata da qualcosa da cui non si sarebbe dovuta separare?

    Per questo, è già il suo semplice apparire come separata (astratto= separato) a testimoniare del suo esser mossa da qualcosa che la eccede, e che essa non può dominare. Del suo esser fatta essere come astratta in quanto eparata dal concreto. Da un concreto di fatto già operante e dunque esistente come tale.

    Ma, insistiamo, non prima del cominciare del cominciante. Ché, altrimenti, non si tratterebbe del concreto.

    Non prima, ma fungendo, in ogni caso, da condizione di possibilità finanche del semplice separarsi da parte dell’astratto; sì che quel che, nel sistema hegeliano, si configura come astratto, dica in verità quello che potremmo definire, con Hegel, concetto concreto dell’astratto.

    Stante il suo poter apparire come astratto solo a condizione che appaia anche ciò da cui esso si separa; solo se il suo esserci, cioè, appare sin da subito come un separarsi.

    Insomma, il concreto non sta prima; l’abbiamo già visto, che non può costituirsi come semplice prima dell’astratto. In ogni caso, esso rimane immediatamente operante sull’astratto; sin da subito, cioè, si presenta come condizione originaria del mostrarsi come astratto da parte dell’astratto. Come condizione che, all’astratto, impone immediatamente di negarsi.

    Il passaggio dall’astratto alla sua negazione dice infatti per Hegel uno svolgimento logico, e non temporale.

    Sin da subito, dunque, possiamo a questo punto rilevare… l’astratto appare dominato dal concreto; da un concreto che gli impone di negarsi e di svolgersi dialetticamente in vista della conclusiva rivelazione. In relazione alla quale, a mostrarsi, sarà appunto una concretezza, che, in quanto valevole come originaria, è destinata a mostrare quel che la medesima deve esser già da sempre stata, sin dal primo sgorgare del movimento dialettico.

    Un concreto che, in ogni caso, si sarà potuto imporre sull’astratto solo perché in qualche modo già da sempre anche diverso dall’astratto.

    D’altronde, il tutto non può che riconoscersi diverso dalla parte; per quanto senza potersi assolutamente risolvere in qualcosa come una più ricca finitezza. O anche… in un semplice più.

    Esso, cioè, pur non ponendosi come semplicemente altro dalla finitezza (ché, se così facesse, si risolverebbe in un’altra finitezza), non può non contrapporsi a quest’ultima, normandone il venire alla luce e decidendo del suo destino.

    Per quanto non appaia mai come tale; esso non appare, infatti, proprio perché non è un qualcosa – che, in quanto tale, finirebbe per manifestarsi in forza di un semplice e astratto distinguersi dal proprio altro.

    Il fatto è che, al di là del tutto, non può esservi nulla che possa in qualche modo de-terminarlo… appunto come tutto. Altrimenti quest’ultimo si ritroverebbe ineludibilmente parzializzato. E si costituirebbe come falsa totalità.

    Eppure l’astratto si nega solo perché il tutto gli impone di farlo. Per questo l’astratto e il concreto si relazionano dialetticamente come ognuno bisognoso dell’altro.

    Insomma, questi due opposti si relazionano come altri, l’uno dall’altro, pur non potendo essere nessuno dei due semplicemente altro dal proprio altro, al modo delle alterità parziali e determinate di cui è pieno il mondo.

    Non è un caso che, per quanto non siano l’uno semplicemente altro dal proprio altro, l’uno s’imponga sull’altro quale suo inviolabile nomos.

    Eccoci, dunque, alla specifica struttura di un dialettismo perfettamente identico a quello che avrebbe caratterizzato il rapporto Dio-Mondo lungo il percorso tracciato da tutta la grande tradizione ermetica. Nella cui prospettiva – proprio come in Hegel – Dio non sarebbe mai stato concepito come semplicemente trascendente rispetto al mondo, e proprio perché non risolvibile in cosa… o meglio, in nessuna delle cose del mondo.

    Anche per i filosofi riconducibili al filone di quell’ermetismo perenne che da Ermete Trismegisto si sarebbe sviluppato sino a Schelling, infatti, quello che connette Dio al Mondo è un rapporto intrinsecamente paradossale, che nega e insieme afferma l’alterità tra Dio e Mondo.

    In questo senso, anche Hegel, pur ribadendo quasi ossessivamente che il suo Assoluto è tale solo nel dispiegarsi nel divenire dialettico del mondo e della sua storia, non perde occasione per distinguere Dio e il mondo facendo dell’uno il concreto e dell’altro l’astratto; dell’uno la dimensione dell’inizio e dell’altro la dimensione del cominciamento (a partire dalla distinzione da lui stesso operata nella già citata parte introduttiva della Scienza della logica, tra il primo momento del movimento dialettico, da intendersi appunto come cominciamento, e il suo presupposto o fondamento, da intendersi invece come inizio).

    Anche Hegel, insomma, e proprio per aver voluto superare qualsiasi residuo di trascendenza, è costretto a sostenere che, nel tempo storico, a manifestarsi non è mai solo quel che di fatto viene comunque a manifestarsi – vale a dire la sua astrattezza, la sua contingenza –, ma sempre anche l’eterno, il destino, la necessità. Qualcosa che non potrà mai esser ridotto all’astrattezza di ciò cui sembra non restare altro che riconoscere di non essere mai quel che nello stesso tempo sempre anche è – per quanto senza poter mai rendere determinatamente presente (che sarebbe un inevitabile parzializzare) quel che esso sarebbe vera mente.

    Il vero hegeliano, dunque, per quanto responsabile dell’infinito e dialettico negarsi di ogni determinatezza, non si risolve affatto in questo infinitamente molteplice negarsi; nel suo sistema, infatti, le determinatezze si negano in quanto nessuna di esse riesce a dire il tutto determinatamente – quello stesso tutto che, proprio in quanto tale, nega di poter essere in qualche modo determinabile. E dunque nega di poter coincidere con qualsivoglia sua possibile determinatezza. Che… proprio in quanto presenza del tutto, quindi, dovrà negarsi – dovendo negare in primis di essere quel tutto che in essa comunque si mostra, o meglio… dovendo negare di esserlo in relazione alla propria determinatezza.

    In essa è, infatti, sempre e comunque il tutto a manifestarsi, secondo Hegel; ma, per l’appunto, conformemente a un movimento che non può fare a meno, negando, di allontanarsi dalla vuota unicità del Dio che Plotino avrebbe voluto far coincidere con il Semplicissimo, ossia con l’Uno-Uno della prima ipotesi del Parmenide platonico. Mostrando, altresì, sullo sfondo, una sempre più ricca concretezza valevole appunto come l’intrascendibile vero dell’esistenza di volta in volta in questione. La stessa cui la storia sembra consegnare un unico compito: quello di mostrarsi da ultimo identica a quell’intero che pensatori come Patrizi, Comenio, Hartlib e Dury sognarono soltanto, preparando comunque la scena dell’avvento dell’Età dello Spirito Santo, e alla fine della storia⁹.

    L’Unità dell’assoluto hegeliano dice infatti un’unità piena di tutto, che, proprio in quanto tale, non può che distinguersi dalla molteplicità caratterizzante qualsivoglia parzialità o determinatezza. Conformemente a un dialettismo che sarà, dunque, relativo innanzitutto al rapporto Dio-Mondo, prima di riguardare le determinatezze empiriche.

    Certo, per Hegel, qualsivoglia determinatezza è custode ed espressione di un dinamismo dialettico che, solo, sembra rendere possibile il suo farsi manifestazione sempre della medesima totalità; ma il vero e primo dinamismo (archetipo di ogni dinamismo particolare) è secondo Hegel quello che, proprio in forza della sua originaria aporeticità, rende ineludibile il negarsi che anima e svolge qualsivoglia determinatezza. Ossia, il dinamismo che connette l’inconnettibile; e in primis l’essere e il nulla.

    D’altro canto, il Dio che, pur non essendo altro dal mondo, neppure rinuncia a porsi come irriducibile a una qualsiasi delle sue (del mondo) determinatezze, altro non è che il nulla; perché solo il nulla riesce a costituirsi come un altro (altro innanzitutto dall’essere) che non è altro; o meglio, che non è l’altro che dice di essere. Come un altro, insomma, che si configura come talmente altro da non potersi neppure dire altro. In modo tale da costringere lo stesso essere (privato di un altro rispetto a cui determinarsi appunto come essere, ossia, come positività) a non determinarsi – perché nulla è, appunto, al di fuori di lui.

    Il nulla, dunque, non è un ‘altro – ché, se lo fosse, sarebbe un altro essere. Per questo, l’essere, non determinandosi, nega di essere tutto quello che è (casa, lavagna, albero, stoviglia, fazzoletto, nuvola…). Ossia, nega di essere la semplice positività che dovrebbe essere; ché è lo stesso positivo a doversi negare, al cospetto dell’impossibile suo rapporto con il nulla. O meglio, con quell’altro talmente altro da non essere neppure un altro… in modo tale da negare finanche la propria alterità. Altro dall’esser altro è, infatti, solo il nulla.

    Perciò il Dio dell’ermetismo (un Dio che è altro dal mondo senza costituirsi come "un altro) altro non è che il nulla" – se è vero che solo il nulla dice qualcosa che, pur negando l’essere, non riesce a farsi altro dall’essere medesimo. Costringendo quest’ultimo a negarsi, in quanto originariamente privo di un altro che possa in qualche modo determinarlo.

    Nulla è dunque lo stesso Assoluto hegeliano; ché il suo essere è immediatamente identico al nulla. E proprio per il suo non riuscire a distinguersi da quest’ultimo. Non riuscendovi, insomma, l’essere si determina – distinguendosi appunto sempre e solamente da un altro essere. Aprendo così lo spazio al costituirsi di un dialettismo originario che, ripetiamo, è innanzitutto dialettismo tra l’Uno e i Molti. Che significa: tra il nulla e l’essere. Tra un negativo che non si lascia risolvere nell’esserci di un altro e l’altro che, fuori di sé, ha sempre e solamente un altro positivo. E dunque mai il nulla – che, solo, potrebbe determinarlo come essere.

    Non è un caso, insomma, che la negazione dialettica, nel sistema

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