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Il manuale dello spadaccino: Gli insegnamenti dei samurai sulla via della spada
Il manuale dello spadaccino: Gli insegnamenti dei samurai sulla via della spada
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E-book302 pagine4 ore

Il manuale dello spadaccino: Gli insegnamenti dei samurai sulla via della spada

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Info su questo ebook

Forse non esiste simbolo più potente della spada per rappresentare l’era dei samurai. Nel Giappone del XVII secolo, l’arte della spada aveva assunto una popolarità quasi religiosa: era più che una mera padronanza delle tecniche, era un vero e proprio percorso verso la padronanza di sé. Il manuale dello spadaccino costituisce un’antologia di opere scritte da uomini che consideravano lo studio della scherma non solo un elemento essenziale alla vita e alla morte, ma anche un qualcosa che trascendeva la vita e la morte stesse. Il loro insegnamento, secondo cui affrontare un conflitto è un’arte che richiede grazia e coraggio, si rivolge a noi lettori con una sorprendente immediatezza e rilevanza. Questa antologia include gli scritti di Kotada Yahei Toshitada, Takuan Soho, Yagyu Munenori, Miyamoto Musashi, Matsura Seizan, Issai Chozanshi e Yamaoka Tesshu.
L’arte della spada possiede una grazia, una dignità e un’etichetta, accompagnate da tecniche che richiedono presenza mentale e coordinazione fisica, che sembrano svelare l’immediatezza della condizione umana, sia fisica che spirituale. E tutto ciò mentre si maneggia una lama che simboleggia la sottile linea che separa l’esistenza dalla non-esistenza.
LinguaItaliano
Data di uscita4 set 2019
ISBN9788827228661
Il manuale dello spadaccino: Gli insegnamenti dei samurai sulla via della spada
Autore

William Scott Wilson

Nato nel 1944, è cresciuto presso Fort Lauderdale, in Florida. E' il principale traduttore in inglese di testi tradizionali giapponesi sulla cultura dei samurai. Ha conseguito due lauree al Dartmouth College e al Monterey Institute of Foreign Studies, e un dottorato di ricerca in letteratura giapponese presso l'Università di Washington. Tra i suoi libri di maggiore successo, pubblicati dalle Edizioni Mediterranee, vi sono La mente senza catene: scritti di un maestro Zen a un maestro di spada, Il samurai solitario: Miyamoto Musashi e le traduzioni di Yojokun. Lezioni di vita di un samurai (Kaibara Ekiken), Il discordo del demone sulle arti marziali e altri racconti (Issai Chozanshi), Lo spirito libero. Riflessioni di un saggio cinese (Hung Ying-ming).

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    Il manuale dello spadaccino - William Scott Wilson

    Prefazione

    Posa sempre la spada nella guaina della mente,

    e indossala nella fascia dell’etichetta.

    Cos’è che rende l’arte della spada – che sia il kendo o lo iaido – una pratica così popolare oggigiorno, non solo in quasi ogni piccolo villaggio del Giappone, ma anche in molte città degli Stati Uniti e in giro per il mondo? A differenza del karate, del judo o dell’aikido, non è un’arte marziale che può essere impiegata immediatamente come sistema pratico di autodifesa. A differenza del tiro a segno, il maneggio della spada è un’arte che non può essere appresa in poche settimane, mesi o persino anni, inoltre la spada non è un’arma che può essere occultata e portata con sé per strada a scopo d’autodifesa¹. Eppure l’arte della spada possiede una grazia, una dignità e un’etichetta, accompagnate da tecniche che richiedono presenza mentale e coordinazione fisica, che sembrano svelare l’immediatezza della condizione umana – sia fisica che spirituale. E tutto ciò mentre si maneggia una lama che simboleggia la sottile linea che separa l’esistenza dalla non-esistenza.

    Vi racconto una storia.

    Quando Nennami Jion aveva solamente cinque anni, suo padre, Soma Jirozaemon Tadashige, il signore del feudo Soma nella città di Oshu, venne assassinato, probabilmente da una vicina famiglia di proprietari terrieri loro ostili, e così il giovane bambino fuggì a Bushu² sulle spalle della sua balia. Dopo esser entrato a far parte di un monastero buddhista per evitare di essere ucciso, cambiò il suo nome di battesimo, Soma Jiro Yoshimoto, con un nome più adatto a un monaco, Nennami.

    Gli venne dato il permesso di studiare sotto gli auspici dell’abate Yugyo, ma anche come giovane e diligente discepolo dell’abate, nutriva solamente un pensiero nella sua mente – ichi nen – quello di vendicare la morte del padre. A tale scopo, ogni volta che era fuori dalla vista degli altri monaci, si allenava da solo a utilizzare la spada.

    Alla giovane età di dieci anni, Nennami cominciò a viaggiare per il paese a piedi, passando da una provincia all’altra e apprendendo l’arte della spada da vari maestri, ogni volta che ne aveva occasione. Per un certo periodo di tempo si fermò sul Monte Ku-rama – dimora dei misteriosi tengu³ – alla periferia di Kyoto, e studiò sotto la guida di un uomo che lui descrisse come diverso e strano. Dopodiché diresse i suoi passi verso Soshu⁴ dove apprese le tradizioni segrete delle arti marziali da un altro spadaccino fuori dal comune, un anziano e venerando monaco del tempio Jufukuji, a Kamakura⁵. Infine, nel 1368, all’età di diciassette anni, Nennami viaggiò fino a Kyushu, nel remoto sudovest del paese, e raggiunse la sua comprensione più profonda dell’arte della spada durante un sogno che ebbe mentre dormiva all’interno di una grotta erosa dal mare vicino al santuario Udo.

    All’età di diciotto anni, Nennami si sentiva pronto. Lasciò la vita monacale, trovò l’assassino di suo padre, vendicò la sua morte senza pensarci due volte e poi tornò alla sua città natale, dove partecipò alla cerimonia per festeggiare il suo passaggio alla maggio-re età. Dopo tre anni di lutto in onore del padre, diventò di nuo-vo monaco Zen, prese il nome Jion, e si dice che abbia passato i successivi trentacinque anni a viaggiare nuovamente attraverso le varie province del Giappone, ma questa volta come uno spadaccino esperto nel suo stile personale, il Nen-ryu.

    Verso i cinquantotto anni di età, Nennami cominciò a sentire il peso degli anni, e nel maggio del 1408, decise di stabilirsi nel villaggio di Namiai, a Shinshu⁶, fondò il tempio Chofukuji, e finì i suoi giorni in costante venerazione di Marishiten, protettore dei guerrieri. Marishiten era venerato come una divinità che, attraverso la compassione e il rispetto per gli altri, guidava ogni guerriero al raggiungimento di un più elevato livello spirituale, dove la vittoria e la sconfitta, la vita e la morte, non avevano importanza. In questo modo il guerriero – anche se necessariamente coinvolto in battaglie e carneficine – acquisiva immediatamente sia la capacità di sacrificio di sé, sia la padronanza di se stesso.

    Nennami Jion, la cui storia personale non è particolarmente insolita tra i primi maestri di spada, è considerato il primo di una ragguardevole serie di grandi spadaccini giapponesi, o kengo⁷, e il suo stile, il Nen-ryu, ha lasciato il suo segno, non solo sul Maniwa Nen-ryu, che è tutt’oggi ancora praticato, ma anche su altri importanti stili, come il Chujo-ryu e l’Itto-ryu. Tuttavia, Nennami insegnò un’arte che fondamentalmente si basa sulla padronanza intuitiva di tecniche ripetute, e fu profondamente influenzato dal Buddhismo Zen – come lo furono molti altri maestri di spada che gli succedettero. Tale metodo d’insegnamento presentava alcuni problemi di comunicazione.

    Ad esempio, le tecniche ripetute del suo insegnamento sono degli schemi motori, eseguiti coi piedi e con la spada, che devono essere praticati senza sosta finché non vengono pienamente compresi, non solo dalla memoria muscolare, ma anche dall’inconscio profondo dell’allievo. In questo modo, vengono prima memorizzati, e poi appresi – o forse sarebbe meglio dire, assorbiti – finché non possono essere dimenticati ed esclusi dal movimento conscio. Una volta raggiunto questo livello, l’allievo è in grado di muoversi liberamente e intuitivamente. È diventato padrone della tecnica, ma non in maniera rigida. Tuttavia, è questo il livello che non può essere insegnato o trasmesso, e a cui le tecniche possono spiccare il volo.

    Similmente, nel Buddhismo Zen, si dice che la trasmissione dell’illuminazione sia isshin denshin, o trasmissione da mente a mente, e non deve dipendere da documenti scritti. Ciò che viene insegnato non può essere espresso a parole, e i concetti espressi verbalmente possono essere solamente di ostacolo. In altri termini, le nostre percezioni e comprensioni più profonde possono essere ricevute o condivise solamente con individui di mentalità affine alla nostra. Ecco un altro racconto:

    Quando il guerriero Hosokawa Shigeyuki (1434-1511) lasciò la carica di daimyo⁸ della provincia di Sanuki, divenne un mo-naco Zen. Quando Osen Kaisan (1429-1493), un monaco studioso, fece visita a Shigeyuki, il vecchio guerriero gli disse che voleva mostrargli un paesaggio che aveva dipinto durante un recente viaggio a Kumano e ad altri luoghi scenografici sulla penisola Kii. Non appena ebbe finito di spiegare il rotolo su un tavolo, il monaco vide solo un foglio di carta in bianco. Colpito dal vuoto del dipinto, espresse queste parole di lode a Shigeyuki:

    Il vostro pennello è alto tanto quanto il monte Sumeru

    L’inchiostro nero è abbastanza copioso da svuotare la terra intera

    La carta bianca è vasta tanto quanto il vuoto che inghiotte tutte le illusioni

    Proprio per questo motivo – la difficoltà di esporre a parole o immagini un’ispirazione intuitiva (vasta tanto quanto il vuoto che inghiotte tutte le illusioni), associata alla relativa mancanza di cultura di alcuni dei primi maestri di spada – gran parte di ciò che ci rimane delle prime scuole come quella di Jion è in forma di lunghe liste di nomi di tecniche, aforismi ambigui o poesie che alludono a concetti che non potrebbero essere altrettanto bene espressi in altro modo⁹. Ecco due esempi di queste poesie provenienti dalla scuola Itto-ryu:

    Quando entri in azione

    non frenare i tuoi piedi,

    ma fai attenzione al tuo corpo.

    Con il qi in pace,

    applica vigorosamente la tua tecnica.

    L’arte della spada

    è come spingere un carretto

    su per una collina.

    Basta vacillare una volta,

    e il carretto ritornerà

    ai piedi del pendio.

    Per tutte le suddette ragioni, sebbene questo stile espressivo pos-sa esistere ancora, in molti casi è difficile sapere quali fossero le in-tenzioni originali del fondatore, in che modo si esprimesse coi suoi allievi, o se il suo modo di esprimersi sia effettivamente cambiato col passare dei secoli. I manuali o le istruzioni che ancora esistono potrebbero significare poco o nulla per il profano e, a volte, persino per l’insegnante stesso.

    Le voci incluse in questa raccolta d’insegnamenti dei samurai sull’arte della spada sono di genere completamente diverso. Anche se è inevitabilmente apparente lo stesso sforzo per ottenere il massimo della chiarezza, e le liste sono incluse per norma, gli autori di questi trattati – Kotoda Yahei Toshitada (XVII secolo), Takuan Soho¹⁰ (1573-1645), Yagyu Munenori (1571-1646), Miyamoto Musashi¹¹ (1584-1646), Joseishi Matsura Seizan (1760-1841), Issai Chozanshi¹² (1659-1741) e Yamaoka Tesshu (1836-1888) – furono non solo degli uomini molto colti, ma anche dei veri e propri letterati. Eppure, venivano tutti da condizioni sociali molto diverse: uno di loro era un famoso studioso e spadaccino; un altro un monaco Zen di lunga data che probabilmente amava sperimentare in cucina tanto quanto usare una spada di legno nel dojo; un altro era un noto e votato ronin, e contemporaneamente un maestro di pittura e scultura; un altro ancora dedicò gran parte della propria vita alla politica. Le loro opere scritte differiscono tra di loro per stile, proprio come le loro vite, ma sono tutte profonde, in tema e, in alcuni casi, umoristiche e stravaganti, ma mai vaghe. Questi erano uomini che potevano e volevano scrivere bene. A cosa è dovuto tale cambiamento?

    In poche parole, verso il XVII secolo, l’arte della spada cominciò a godere di una popolarità quasi religiosa, e sempre più studenti cominciarono a essere attratti dai maestri e dai loro dojo. A differenza di Ito Ittosai Kagehisa, che ebbe solo due studenti quando decise di diventare sacerdote, e di Nennami Jion, che ne ebbe quattordici, i dojo di Yagyu Munenori erano stracolmi di allievi. Matsura Seizan era membro di un dojo che sarebbe diventato uno dei più frequentati nella capitale di Edo, e a Yamaoka Tesshu, malgrado i suoi metodi d’insegnamento molto rigidi, non mancarono mai allievi. È vero che alla fine della sua vita Musashi aveva solo pochi discepoli, ma la sua reputazione era diventata già così grande che probabilmente sentì la necessità di chiarire le cose – non solo per i suoi discepoli, ma anche per i posteri. Aggiungiamo il fatto che i tempi erano cambiati, e si era passati dal caos e dalla guerra dei secoli precedenti a un periodo di relativa pace e prosperità, tanto da offrire, a chi ne aveva voglia, il tempo libero necessario per scrivere questi trattati.

    Comunque sia, quali che fossero le loro ragioni per scrivere tali opere, tutti questi uomini consideravano lo studio dell’arte della spada essenziale per la vita e la morte – ma anche trascendente la vita e la morte. Tutti loro insegnavano che affrontare un conflitto poteva essere una questione di arte, grazia e coraggio; e in questo modo, le loro parole ci parlano con una sorprendente immediatezza.

    Sono stato molto fortunato ad aver avuto l’opportunità di lavorare su questi materiali per quasi trent’anni. A volte il mio lavoro è proceduto inaspettatamente senza alcun intoppo; altre volte, sono stato sul punto di strapparmi i capelli per la frustrazione. Ma ogni libro su cui ho lavorato ha rappresentato per me un’opportunità straordinaria, e mi ha sempre fatto stare incollato sulla mia sedia da lavoro. Inoltre, credo che qualunque mio collega sia d’accordo con me sul fatto che, lavorando con la scelta originaria delle parole, del frasario, delle arguzie stilistiche e persino di ciò che non è stato detto, il traduttore ha l’opportunità di conoscere più intimamente non solo il testo scritto, ma anche l’autore stesso. In questo modo, il mio lavoro mi ha permesso di fare la conoscenza di diversi uomini straordinari.

    Ma un lavoro non termina con il completamento della traduzione, e un libro non viene prodotto con l’ultima conclusione di un dizionario. Pertanto, devo esprimere la mia più profonda gratitudine a tutti coloro che hanno faticato così duramente per pubblicare queste traduzioni, e a tutti coloro che mi hanno incoraggiato ad andare avanti nei miei momenti di crisi. Ringrazio i miei ex curatori alla Kodansha International che per primi mi hanno dato il benvenuto a bordo, Homer Neal, Kuramochi Tetsuo, Barry Lancet, Elizabeth Floyd e Ginny Tapley; i miei pazienti e instancabili curatori alle Shambhala Publications, Beth Frankl e John Golebiewski; gli ami-ci che mi hanno aiutato a mantenere alto il morale, Thomas Le-vioditis, Ichikawa Takashi, Kate Brnes, Gary Haskins, Jim Brems, Jogn Siscoe, Jack Whisler, la dottoressa Laura Nenzi, il dottor Da-niel Medvedov, il dottor Justin Newman e Robin D. Gill (solo per nominarne alcuni); il Sensei Frank Nieves, che mi ha dimostrato nel dojo ciò che non può essere scritto nei libri, e tutti i miei sempai del South Florida Kendo Clud; mia moglie Emily, una vera musa esperta nell’uso delle parole; i miei compianti professori Hiraga Noburu e il dottor Richard McKinnon, il cui umorismo, erudizione e incoraggiamento saranno per sempre impagabili.

    Anche se è solamente il nome del traduttore che appare sulla copertina di un libro quando va alle stampe, il suo non è certamente un lavoro che ha svolto da solo. Tutti gli eventuali errori, tuttavia, sono da imputare solamente a me.


    1. In tutti e cinquanta gli Stati americani sono in vigore leggi che vietano il trasporto delle spade da samurai.

    2. Bushu: la moderna Tokyo-to, prefettura di Kanagawa e prefettura di Saitama.

    3. Creature fantastiche dall’aspetto di uomini-uccello e di natura a volte benevola e a volte malvagia (NdT).

    4. Soshu: moderna prefettura di Chiba.

    5. Le tecniche apprese da Jion al Monte Kurama vengono chiamate Okuyama (Pro-fonda montagna) Nen-ryu, mentre quelle che gli vennero insegnate a Kamakura, si chiamano Kamakura Nen-ryu.

    6. Shinshu: moderna prefettura di Nagano. Nel villaggio di Namiai esiste ancora un santuario dedicato a Jion che viene visitato da artisti marziali di tutto il mondo.

    7. Un sottile volume presente nella mia libreria personale, intitolato Kengo: sono ryuha to meito, fornisce una lista di trentasette fondatori di stili principali di kenjutsu, o tecnica di spada, e undici fondatori di stili principali di iai, il sistema di estrazione della spada dal fodero e di simultaneo attacco dell’avversario.

    8. Titolo di signore feudale (NdT).

    9. Questa difficoltà, o forse riluttanza, a esprimere a parole i concetti dell’arte della spada, ha una lunga storia. Prendiamo in considerazione questo pensiero del leggendario maestro di spada Kiichi Hogen, vissuto nel XII secolo:

    Se l’avversario ti viene incontro, accoglilo; se si allontana, mandalo via. Aggiungi cinque al cinque e ottieni dieci; aggiungi otto al due e ottieni dieci. Valuta la situazione, conosci il cuore; il grande è al di là di dieci piedi quadrati, il piccolo entra nell’atomo più infinitesimale. L’azione potrebbe esser violenta, ma quando affronti ciò che ti sta davanti, non muovere la mente.

    Più recentemente, nel XX secolo, il fondatore dell’aikido, Morihei Ueshiba, ci ha parlato della pioggia dorata che fuoriesce dal suolo, usando parole che nessuno ha ancora compreso. Entrambi sono stati dei grandi artisti marziali, la cui competenza e sincerità non possono esser messe in dubbio. Ma, appare ovvio, che ciò che erano riusciti a comprendere non poteva essere facilmente comunicato a parole.

    10. Di Takuan Soho è stato pubblicato, in questa collana, La mente senza catene. Scritti di un maestro Zen a un maestro di spada (NdR).

    11. Il capolavoro di Miyamoto Musashi, Il libro dei cinque anelli, è stato edito in Italia dalle Edizioni Mediterranee, come pure, in questa stessa collana, la sua biografia, Il samurai solitario, scritta da William Scott Wilson (NdR).

    12. Di Issai Chozanshi, in questa stessa collana, Il discorso del demone sulle arti marziali e altri racconti, a cura di William Scott Wilson (NdR).

    Introduzione

    Termini

    Negli ultimi versi del suo famoso libro I dialoghi, Confucio, filosofo cinese del V secolo a.C., afferma che:

    Se non comprendi le parole,

    non comprenderai gli uomini.

    Confucio, che praticava il tiro con l’arco e, probabilmente, anche altre arti marziali, credeva che nessuna discussione avrebbe avuto un buon fine senza la chiarificazione dei termini, che lui chiamava rettificazione dei nomi. Pertanto, iniziamo con la definizione di alcuni termini chiave che caratterizzano gli scritti inclusi in questa antologia. E, per quanto riguarda le arti marziali, co-minciamo dall’inizio.

    Bu ( ): Cose marziali o militari; radice per termini come bushido, budo, bujutsu e così via. Etimologicamente, il carattere ci-nese è formato da due radicali: fermare, e una forma semplificata di , lancia. Lo Shuowen¹, il primo dizionario cinese, fornisce la seguente definizione:

    Bu significa domare l’arma, e quindi fermare la lancia.

    Un’altra antica fonte cinese, lo Zuo Zhuan, continua:

    Bu proibisce la violenza e doma le armi… pacifica le genti e armonizza le masse.

    Altre fonti, invece, sostituiscono il significato fermare con avanzare, e quindi identificano col termine bu l’azione di raccogliere la lancia e avanzare. In questo modo, bu viene spesso contrapposto o accoppiato a bun ( ), la letteratura o le arti della cultura e della pace; sin dai tempi antichi, in Cina, Corea e Giap-pone, il vero gentiluomo è un uomo che possiede bu in una mano e bun nell’altra. Kuroda Nagamasa (1528-1623), un signore della guerra giapponese, si è espresso in questo modo a riguardo:

    Bu e bun sono come le due ruote di un carro; se ne manca una, il carro ha difficoltà a rimanere dritto in piedi.

    Infine, bu porta con sé un forte senso di essenza o sostanza interiore, mentre bun simboleggia una bellezza o un modello esteriore. Il carattere , una combinazione tra i due, indica una condizione di equilibrio e armonia. Tutte queste sfumature di significato dovrebbero essere tenute a mente man mano che leggete queste opere, perché mentre il marziale sembrerebbe essere l’immagine riflessa del letterario e del culturale, i due andrebbero meglio considerati come le facce opposte della stessa medaglia: inseparabili e inclusive.

    Bujutsu: Tecniche marziali. Il termine jutsu significa tecnica, e bujutsu sono le tecniche che costituiscono i mattoni di qualunque stile di arte marziale. Sono sia elementi del kata, sia il kata in se stesso: il singolo colpo di una spada, o la serie di colpi per cui viene usata. Così si hanno il kenjutsu o il tojutsu, tecniche di spada; lo shajutsu, tecniche di tiro con l’arco; il bajutsu, tecniche di equitazione; o lo iaijutsu, tecniche di estrazione della spada. Tuttavia, bisogna sottolineare che queste sono tutte tecniche associate all’abilità e all’efficienza nel combattimento e che, in questo senso più stretto del termine, nessun altro valore viene attribuito loro se non quello che concerne la sconfitta dell’avversario e la capacità di so-pravvivere allo scontro senza danni.

    Nell’antichità, il carattere per jutsu indicava un incantesimo che veniva ripetuto in prossimità degli incroci per assicurarsi un buon viaggio; in seguito, passò a indicare il tragitto lungo e tortuoso che conduceva alla destinazione da raggiungere. Considerato il termine sotto questa luce, lo studio e la pratica delle tecniche marziali sembrerebbero essere qualcosa di più delle mere azioni fisiche necessarie per eseguirle. Nei Dialoghi Confucio dice:

    Nel tiro con l’arco, il bersaglio non è il nostro obiettivo principale.

    Per sviluppare questo concetto, nel Liezi² troviamo questo racconto:

    Un giorno Lie Yukou decise di sfoggiare la sua abilità nel tiro con l’arco davanti a Baihun Wuren. Tirò la corda dell’arco caricandola al massimo e, con una ciotola d’acqua poggiata sul gomito sinistro, scoccò una freccia. Mentre la prima freccia era ancora in volo, ne scoccò un’altra, e poi un’altra ancora. Durante tutto questo tempo, rimase immobile come una statua, senza far tracimare una sola goccia d’acqua dalla ciotola. A questo punto Baihun Wuren gli disse: Questo è tiro con l’arco in cui si scoccano frecce. Non è tiro con l’arco in cui non si scoccano frecce. Scaliamo una montagna, fermiamoci su una roccia traballante che si affaccia su un laghetto profondo cento braccia, e vediamo se sei ancora capace di scoccare le tue frecce. Detto ciò, Baihun Wuren scalò un’alta montagna, si fermò in piedi su una roccia instabile che si affacciava su un laghetto profondo cento braccia, e indietreggiò verso il ciglio della roccia fino a far sporgere i talloni nel vuoto. Dopodiché disse a Yukou di raggiungerlo. Giunto alla roccia traballante, Yukou si stese a terra, con il sudore che gli colava dalla fronte, e si avvicinò a Baihun Wuren strisciando.

    Baihun Wuren disse:

    Adesso l’uomo arrivato³

    Può volgere lo sguardo verso il cielo azzurro,

    Tuffarsi nelle Sorgenti Gialle⁴ sottostanti,

    Venire scrollato e percosso nelle otto direzioni,

    Ma il suo spirito e il suo qi non muteranno.

    Dopodiché volse lo sguardo verso Yukou e disse: Adesso ti rannicchi impaurito e batti le palpebre. Non sei in pericolo dentro di te?.

    Bugei: Arte marziale. Nell’Honcho bugei shoden, una raccolta di biografie dei fondatori di vari stili di arti marziali, pubblicata nel 1716, le arti marziali sono divise in otto categorie: shikke, etichetta; shajutsu, tecniche di tiro con l’arco; bajutsu, tecniche di equitazione; tojutsu, tecniche di spada; sojutsu, tecniche di lancia; hojutsu, tecniche di tiro con armi da fuoco; shogusoku, tecniche di cattura; jujutsu, o jujitsu. In questo senso il termine arte sembra essere un sinonimo di tecnica, ma la parola gei viene applicata anche alle belle arti, e un bugeisha, o artista marziale, era ed è considerato un vero e proprio artista, e non solamente un semplice tecnico. Bisogna considerare il fatto che il carattere cinese arcaico per gei rappresentava un uomo inginocchiato a terra mentre pianta un alberello o una piantina con entrambe le mani, un’azione attinente sia all’agricoltura sia al governo. Nelle prime fasi dello sviluppo della civiltà, sia l’agricoltura che il governo dovevano essere elevate al livello di una vera e propria arte; la tecnica non era sufficiente.

    Confucio sembra considerasse la gei in una maniera più profondamente umana, ritenendola fondamentale per la cultura, l’istruzione e il miglioramento dell’uomo. Sempre nei Dialoghi dice:

    Se punti verso la Via, fai della virtù il tuo fondamento; se vuoi avvicinarti alla benevolenza umana, passa il tuo tempo con le arti.

    Heiho⁵: Quasi un sinonimo di bugei. La parola hei può significare arma, soldato, esercito, guerra o strategia, e il suo ca-rattere originario mostra due mani che tengono un’ascia. Nella Cina classica, il termine non era considerato benaugurale. In un documento intitolato Guo yu yue yu, è scritto:

    L’eroismo è una virtù opposta; le armi sono strumenti di cattivi presagi; il conflitto è l’ultima risorsa delle cose.

    Nel Tao Tê Ching, Lao-tze ripete:

    Le armi sono strumenti di cattivi presagi.

    E lo Zuo Zhuan dichiara che:

    Le armi sono come il fuoco; se non riuscirete a controllarle, avvamperanno spontaneamente.

    Ho significa legge, codice o metodo – nei tempi antichi, indicava uno sbarramento per regolare il livello dell’acqua in un torrente – e quindi heiho, che letteralmente significa la legge delle armi o della strategia militare, ha finito per indicare semplici tattiche o strategie oppure, per estensione, le arti marziali. Nel summenzionato Honcho bugei shoden, il termine viene impiegato principalmente per classificare le varie teorie alla base delle tecniche belliche usate in operazioni militari che coinvolgevano un certo nu-mero di guerrieri, ma prima di allora era stato usato per indicare sia le arti marziali in generale sia l’arte della spada in particolare. Ad esempio, nell’Heiko

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