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La mente che respira: L'esperienza della meditazione in oriente e occidente
La mente che respira: L'esperienza della meditazione in oriente e occidente
La mente che respira: L'esperienza della meditazione in oriente e occidente
E-book448 pagine5 ore

La mente che respira: L'esperienza della meditazione in oriente e occidente

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Info su questo ebook

La Mente che Respira di Paolo Giammarroni è la più completa antologia della meditazione in Oriente e Occidente presentata per la prima volta ai lettori italiani. Anche chi diffida delle filosofie orientali, ma rispetta la pratica meditativa, può oggi trovare chiarezza dal confronto su nascita e sviluppo delle tecniche di meditazione. Torniamo ai grandi Maestri: è la proposta di quest'opera originale. Riscopriamo così i maestri di meditazione grazie a pagine significative, ritradotte o inedite. Dunque un incontro diretto tra guida spirituale e lettore, praticante o possibile meditante, fuori da appartenenze culturali o religiose.
Sono molte le sorprese, anche perché – forse per la prima volta in Italia – vengono abbattute le barriere di tempo, spazio e cultura. Così la meditazione indiana incontra e si confronta con la meditazione cinese, la meditazione zen dialoga con YogaSutra e meditazione cristiana. Il taiji quan sfata il mito odierno di "ginnastica adatta a tutte le età" e si presenta per la meditazione in movimento che è sempre stata nella tradizione cinese. Ciascuno dei 20 testi classici della meditazione orientale e occidentale è analizzato e comparato con gli altri.
Il lettore troverà somiglianze e sinergie tra i tesori della gnosi di Patañjali o gli scritti di Teresa d'Avila, le poesie di Eihei Dogen o il racconto del “nulla” di Sosan/Tozan. Di ogni maestro è ricostruita anche la vita e il messaggio. Essenziale anche l’apparato bibliografico. Completa l’opera una sezione di analisi dedicata alla pratica meditativa nel Novecento.
Da meditazione vipassana a mindfulness, praticare oggi non è diverso dal passato
La pratica della meditazione gode sempre di buona fama ma sopratutto negli ultimi anni è stata vittima di vari fraintendimenti. Le versioni più recenti e alla moda si concentrano sugli effetti benefici della meditazione per conquistare benessere generale o acquisire un aspetto tecnico di concentrazione. Dell'impegno costante per raggiungere la consapevolezza non c'è traccia. Oggi finalmente, tra i libri sulla meditazione è disponibile questo saggio che raccoglie il significato, la storia e la pratica dei diversi metodi permettendo a tutti i lettori di avvicinarsi alla consapevolezza e ad una nuova conoscenza.
"Per la prima volta in Italia, a confronto i testi dei Maestri della meditazione di ogni epoca e tradizione. La pratica meditativa indiana, cinese, tibetana, giapponese, vietnamita così dialoga con la contemplazione dei monasteri e la preghiera degli eremiti. Pagine inedite, spesso ritradotte e piene di sorprese: ideali per chi vuole capirne di più e sperimentare una "mente che respira" in piena consapevolezza."
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2019
ISBN9788827229675
La mente che respira: L'esperienza della meditazione in oriente e occidente
Autore

Paolo Giammarroni

Paolo Giammarroni (Roma, 1951) traduttore, giornalista economico e consulente di comunicazione sociale. Ha affrontato l’opera poetica di Shakespeare, Rilke, Valery e vinto premi con propri racconti e sceneggiature. Si è dedicato alla cultura cinese e zen - indagando i testi originali - e in parallelo ha coltivato un percorso di pratiche buddiste e riscoperta delle radici cristiane. Nel 2015 ha tradotto una versione organica del Daodejing attribuito a Laozi, per poi occuparsi dei classici della meditazione. È istruttore di Taijiquan e QiGong. www.pacetraleciotole.it

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    Anteprima del libro

    La mente che respira - Paolo Giammarroni

    Presentazione

    Meditare per usare bene ciò che abbiamo

    La parola meditazione ha molti possibili significati e la motivazione che induce qualcuno a intraprendere una pratica meditativa può variare da persona a persona.

    Io ho cominciato a meditare con l’idea di imparare a concentrarmi meglio. Studiavo ingegneria all’università, era l’ultimo anno di corso e mi sono reso conto che rischiavo di fallire, di essere bocciato, perché ero troppo distratto. Tendevo a sprecare la maggior parte del tempo facendo una vita molto sociale, indulgendo in vari vizi che non conducono a una chiarezza mentale, anzi di sicuro verso l’opposto.

    Quindi l’idea cosciente era di applicarmi a essere più focalizzato e meno distratto, anche se adesso mi rendo conto che, allo stesso tempo, c’erano dietro altri fattori, altre motivazioni meno chiare e più profonde, come ad esempio la ricerca di un senso alla vita. Ricordo infatti di aver avuto una intuizione importante fin dai miei primi passi. Quando ci si riferisce alla mente generalmente si pensa in termini di contenuti della mente, o alla sua attività: i pensieri, i ricordi, gli impulsi, il ragionamento e così via. Però tutto questo meditare ha luogo in un preciso contesto, quello della consapevolezza stessa. Questo per me era una rivelazione, era come aprirmi a una nuova dimensione. Sentivo che qui c’era la chiave, che poteva essere la direzione per scoprire da me quello che conta veramente, ad aprirmi a una conoscenza diretta.

    I contenuti della mente vanno e vengono, ma la consapevolezza rimane, non nasce o muore con gli oggetti mentali. Questa presenza o consapevolezza non ha nessuna qualità afferrabile, similmente allo spazio fisico: non riusciamo a percepirlo direttamente e non possiamo discernere alcun confine, ma riconosciamo che c’è e che permette al Tutto di esistere e che abbraccia il Tutto.

    La consapevolezza è una facoltà che già abbiamo, non è qualcosa che dobbiamo cercare o raggiungere. È sempre qui-e-ora, accessibile immediatamente nel momento presente. Certo in ogni esperienza c’è un conoscere, altrimenti non ci sarebbe esperienza. In quei momenti, quando la mente si svuota completamente e non c’è più un oggetto dell’attenzione, c’è ancora presenza o consapevolezza, che è impersonale, e non è sperimentata come un soggetto separato, ma invece come un tutt’uno.

    Il Buddha indicava la consapevolezza stessa, nel contesto di una vita vissuta con integrità morale, come la porta verso la liberazione interiore. Quando dimoriamo nella consapevolezza abbiamo una prospettiva sulle cose come sono, scopriamo l’accesso a un naturale tipo di agio e contentezza nella ordinarietà del momento presente, e – allo stesso tempo – sviluppiamo le risorse interiori per navigare abilmente tra le circostanze mutevoli della vita, senza creare sofferenza per noi stessi, o per gli altri.

    Una volta qualcuno ha chiesto al Buddha se fosse possibile camminare sino alla fine del mondo, e il Buddha rispose: "Non è possibile raggiungere la fine del mondo camminando, però ti dico anche che sino a quando non raggiungi la fine del mondo, non raggiungerai la fine della sofferenza. Quando al Buddha fu chiesto di spiegarsi meglio, rispose: Proprio in questo corpo – alto 2 braccia – vi è il mondo, l’origine del mondo, la cessazione del mondo e la via che conduce alla cessazione del mondo".

    La meditazione è un viaggio interiore, il luogo dove il mondo si presenta nella sua varietà e ricchezza. Così non c’è bisogno di andare da nessuna parte. Abbiamo già tutto quello che serve: si tratta di imparare a usare bene quello che c’è, ciò che già abbiamo.

    Le tecniche meditative possono essere di aiuto, come l’uso del respiro per calmare e raccogliere le proprie facoltà, ma non sono fini a loro stesse. Non importa quanto si diventa abili nel concentrarsi sul respiro, o se invece ci si sente incapaci: il punto è quello che si scopre nel processo, quello che si sviluppa strada facendo. L’importante è cominciare il viaggio, e poi continuare, senza essere scoraggiati da quelli che sembrano ostacoli insuperabili. Mi auguro che questo libro possa essere un buon compagno in questo cammino, e che sarà un viaggio meraviglioso.

    Ajahn Chandapalo

    Abate del monastero theravada Santacittarama,

    Il giardino del cuore sereno

    Prefazione

    Da cristiani davanti al silenzio

    Le proverbiali due paginette di prefazione gentilmente richieste a un religioso cattolico, considerato, non senza enfasi, maestro di meditazione, mi danno la doverosa e gradita opportunità di offrire una rapidissima sintesi sul meditare in ambito cristiano.

    L’antica e sempre attuale prassi orante – da porsi in parallelo con quella propriamente liturgico-sacramentale – porta il nome di Lectio divina, con le sue scansioni: statio, lectio, meditatio, oratio, contemplatio. La statio richiama il celebre aforisma dell’Imitazione di Cristo: Nel silenzio e nella quiete progredisce l’anima cristiana e conosce i segreti delle Scritture, dove risulta già evidente che la meditazione coniuga il momento intellettivo/discorsivo della sacra lectio, con il suo ruminare/riecheggiare interiore.

    Non è il caso di illustrare la storia che la pratica meditativa ha registrato durante i secoli in ambito cristiano. Mi basta ricordare quanto prescrivevano le prime Costituzioni (1551) del mio Ordine, quello dei barnabiti, dove si sosteneva l’assoluta indispensabilità dell’ora quotidiana di orazione mentale, come veniva definita, apportatrice di molta energia nel favorire il progresso spirituale. Lungo i secoli, la meditazione si tradusse nelle diverse scuole che la propugnavano: basti richiamare i classici Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola (1491-1556). Va però detto che era prevalente l’aspetto discorsivo, sia pure interiore, non senza coglierne le profonde risonanze.

    Una vera e propria rivoluzione copernicana si verificò, a partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, attraverso gli apporti delle tradizioni meditative asiatiche (yoga, zen, vipàssana, mindfulness…) recepite in Occidente e divulgate da autori come Klemens Tilmann, Jean Dechanet, Hugo Lassalle, Giovanni Vannucci, Mary Jo Meadow ecc. A dire il vero, si riscopriva contestualmente che simile modalità non-discorsiva, ma puramente introspettiva e quindi silenziosa, vantava una singolare presenza anche in ambito cristiano, come faceva fede un anonimo certosino inglese del XIV secolo, autore de La Nube della non-conoscenza, testo non estraneo al magistero di Meister Eckhart (1260-1328), che a tal punto enfatizzò la tradizione apofatica, da formulare lo slogan: Prego Dio che mi liberi da ‘Dio’. Divulgò in America il messaggio della Nube, con il titolo di preghiera centrica, il monaco trappista Basil Pennington, mentre ne curai personalmente presso l’Àncora (1981), corredata di introduzione e di note, la prima edizione integrale in italiano, comprensiva degli altri scritti dell’Anonimo.

    L’autore di queste pagine, che spaziano su un vero universo e costituiscono un’eccezionale polifonia, allude alla posizione della Chiesa in merito alla meditazione. Ovviamente parliamo del magistero ecclesiastico e della sua fonte romana. Esso non poteva ignorare un fenomeno dall’importanza crescente, costituito da forme non cristiane di meditazione, quali appunto lo yoga e lo zen.

    A firma dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su Alcuni aspetti della meditazione cristiana (1989) si affermava che "il simbolismo psicofisico [risulta] spesso carente nella preghiera dell’Occidente, per cui autentiche pratiche di meditazione provenienti dall’Oriente cristiano e dalle grandi religioni non cristiane […] possono costituire un mezzo adatto per aiutare l’orante a stare davanti a Dio interiormente di­ste­so, anche in mezzo alle sollecitazioni esterne. Nel contempo si era allertati dal rischio di rimanere prigionieri di uno spiritualismo intimista, incapace di un’apertura libera al Dio trascendente".

    Ciò che, comunque, faceva difetto nella Lettera era la valutazione positiva di quel radicale silenzio del proprio io davanti a Dio (di cui peraltro parlano i Salmi 36 e 38), sottolineato con vigore da Meister Eckhart e dall’Anonimo della Nube, nei cui confronti si veniva messi esplicitamente in guardia, anche per non cadere in un pernicioso sincretismo. Io fui chiamato a collaborare alla stesura della Lettera, ma di fatto non si tenne conto del mio contributo, sia pure a sorpresa remunerato. Posso peraltro comprendere le difficoltà dello stesso Ratzinger e dei suoi collaboratori, in ordine a una visione della pratica meditativa all’insegna del "basta essere", che soltanto l’esperienza diretta può giustificare.

    Lo stesso cardinale Carlo Maria Martini, che pure nella sua prima lettera pastorale sulla Dimensione contemplativa della vita (1980) scriveva: Il confronto con le forme di preghiera provenienti soprattutto dall’Oriente può diventare uno stimolo a una più rigorosa scoperta degli originali valori della preghiera cristiana, sullo sfondo di un dialogo e di un reciproco arricchimento con altre tradizioni, mi confidava di faticare a immedesimarsi in un’attitudine interiore non espressamente familiare alla tradizione occidentale e gesuitica. Anche se in seno alla Compagnia incontriamo Mariano Ballester, che divulgò l’espressione orazione profonda, e Franz Jalics, che illustrò l’incidenza che riveste la contemplazione e il vuoto.

    Sta di fatto che l’urgenza dovuta alla dimensione silenziosa della pratica meditativa, e più in generale al silenzio come ingrediente indispensabile di ogni preghiera, sia essa devozionale o liturgico-sacramentale (dove a più riprese si sottolinea la necessità del sacro silenzio!), si è palesata sempre più indispensabile in ordine a un’autentica esperienza orante. È stata di recente portata alla ribalta l’iniziativa, promossa con altri da Antonella Lumini, eremita di città, che si definisce custode del silenzio, riassunta nello slogan "Rompere il silenzio sul silenzio (si veda www.osservatoriosulsilenzio.it). D’altra parte la denuncia di un eccesso di verbosità era già stata formulata all’inizio del Novecento dalla voce profetica di padre Giovanni Semeria: Purtroppo noi cattolici portiamo il peso di almeno 5 secoli di una vita troppo esteriormente chiassosa e poco interiormente raccolta".

    Tirando le somme di quanto sono venuto appuntando, mi sia consentito rifarmi a un mio testo, qui citato: In silenzio davanti a Dio (Appunti di Viaggio, Roma 2016), dove si parte dalla definizione di uomo/donna come essere orante, per poi illustrarne le 3 scansioni: l’umano, il religioso e il mistico e la rispettiva triplice esperienza, concernente: meditazione, preghiera propriamente detta, contemplazione/unione mistica, intesa quest’ultima in modo dialogico/personalista o fusionale, a seconda (e con buona approssimazione) delle tradizioni occidentale e orientale. Con questo si percepisce l’universalità che riveste la pratica meditativa, la quale sta alla base di ogni percorso spirituale e religioso e ne costituisce l’indispensabile premessa, a tal punto che la stessa pratica devozionale e liturgica – così si esprime il mio Fondatore, sant’Antonio M. Zaccaria – ha questo scopo che, eccitati dal suo gusto e senso, almeno all’ultimo incominciamo a imparare l’orazione interiore.

    Non mi resta che augurare a lettori e lettrici di fare della presente meritoria pubblicazione una sorta di livre de chevet, da centellinare quotidianamente come nutrimento interiore.

    Padre Antonio Gentili

    barnabita

    Introduzione

    Le tre parole più strane

    Quando pronuncio la parola Futuro

    la prima sillaba va già nel passato.

    Quando pronuncio la parola Silenzio,

    lo distruggo.

    Quando pronuncio la parola Niente,

    creo qualcosa che non entra in alcun nulla.

    Wislawa Szymborska

    Da lettore

    Ciò che mi preme non è di inquadrare l’estasi. A me anzi interessa ciò che dell’estasi non si può inquadrare. Così nel 1909 Martin Buber presentava la propria scelta antologica di Confessioni estatiche. Oltre le diverse appartenenze degli autori e l’ampia estensione temporale, quella cinquantina di brevi testi riusciva a parlare da sola. Nessuna nota, nessuna introduzione, nessuna biografia dettagliata, solo i minimi riferimenti bibliografici.

    Dunque voleva offrire al lettore un rapporto diretto anche con la pagina più misterica. Come prima conseguenza, zero aspri scontri dialettici, o privilegio dato a ricostruzioni smontando precedenti interpretazioni.

    Merito di Buber fu una severa presentazione dei criteri della sua scelta, al di là di ogni impossibile completezza, rinfacciatagli da qualcuno. Così precisò di aver messo al primo posto il valore di esperienza personale, di testimonianza appassionata, fuori da curiosità verso la vita di quel mistico, o da interessi per i propri tentativi di sistematizzazione a freddo. Grande libertà poi rispetto alla natura letteraria dei testi (tolti i frammenti); l’attenzione alla presenza femminile; lo spazio concesso alla poesia.

    Lui stesso lamentava lo squilibrio di testi di fonte occidentale rispetto a quelli dall’Oriente: problema di lingue agibili, ma anche di minore presenza di confessioni personali, quelle da lui privilegiate, forse perché l’orientale fa dell’esperienza estatica qualcosa di meno individuale: Ciò che sente viene vissuto.

    Lontano da improbabili paragoni verso una personalità come Buber, ho sentito negli anni l’esigenza di cercare, non più nell’ambito misterico-esoterico, qualcosa di simile nel campo della meditazione che provavo a praticare. E non l’ho trovato.

    In effetti circolano tante antologie di spiritualità, ma per raccogliere soprattutto proprie ricostruzioni, interpretazioni, appunti di lavoro: con un uso – spesso disinvolto – delle pagine originali, ridotte a citazioni, o passi significativi, o bignamini. La spiegazione ha trionfato sul dare strumenti critici ai lettori.

    Tornare al metodo Buber, dunque. Su una materia similare, ma se possibile ancora più articolata. E fare anche i conti con gli oltre 100 anni ormai trascorsi da inizio Novecento.

    Il fastidio per le fonti

    Molto sta cambiando e non sempre in meglio, nella sfera della comunicazione. Il commento di parte che scavalca la stesura originale. Il tweet immediato che rende datato il documento ufficiale. Il premio alla brevità rispetto all’articolazione di un discorso. La vittoria di una posizione tattica su una articolata strategia retorica…

    Ho nel mio passato professionale una triplice casacca: giornalista, divulgatore, traduttore. In tutti i casi e per quanto sia stato problematico questo rapporto, l’investigazione delle fonti era una necessità, prima ancora che un obbligo.

    Qualcosa di sostenibile come una verità da raccontare – per quanto fragile e provvisoria – passava inevitabilmente per fonti, che – come dice la parola – hanno a che fare con una sorgente di luce, o almeno con rivoli di attendibilità. Al di là della qualità delle fonti, solo il loro confronto può portare a ricostruzioni più credibili e a prova di contestazioni.

    Naturalmente scovare fonti è costoso, richiede tempo e attenzioni. Quasi mai le fonti parlano da sole. Per tanti – in una società frettolosa e distratta – sono sufficienti le scorciatoie: in particolare, l’utilizzare il già noto, o meglio confermare il già accettato a livello pubblico. Senza rischi, in fondo neanche per l’immagine aureolata del soggetto indagato, oltre che per la fragilità del lettore.

    Le fonti fanno un po’ paura. Possiamo sbizzarrirci su quali fattori abbiano concorso in questa decadenza. Il basso livello scolastico della popolazione italiana (solo il laureando impara a fare i conti con le fonti, suggerite dal proprio relatore). La scarsa attitudine con la storia, le sue fasi, i suoi momenti topici (i documenti vanno saputi collocare, farsi discorso). La carenza di criteri sulla credibilità di fonti contrastanti (vedi l’infinito percorso giudiziario tipico nel nostro paese). E forse anche una cultura religiosa tra i laici sostanzialmente passiva, affidandosi agli esperti dei testi canonici (da noi non è mai entrata in famiglia la prassi della lettura personale delle Scritture, tipica del protagonismo del credente nelle Chiese evangeliche).

    Così spunti di fonti si ascoltano, quasi mai si leggono. E per la memoria l’effetto è assai diverso.

    Anche senza rifugiarmi nei miei ricordi professionali, una vera spinta a raccogliere, tradurre, divulgare testi di una adeguata consistenza mi è stata sollecitata da una ricorrente disavventura: tutte le volte che ho avuto a disposizione un vero testo originale, è emersa subito la pochezza, distorsione e insufficienza delle informazioni correnti. Senza entrare nel vespaio tutto di questo secolo delle fake news (una vera gara a chi fa prevalere menzogne sulla verità), credo che mai una vicenda di cui conoscevo in profondità protagonisti e motivazioni abbia sopportato il confronto con le banalità circolanti. Persino Wikipedia, a cui mi onoro di collaborare, pur fissando precisi criteri di oggettività nella scrittura, fatica da sempre a correggere le prime voci inserite, anch’esse non aliene da parzialità.

    In qualche modo rivalutare le fonti – nel senso di estenderne la ricerca e la valorizzazione – potrebbe (o dovrebbe) diventare un bel proclama per numerose inversioni di rotta. Potremmo prenderlo come un vero terreno di crescita personale e collettivo, reso possibile oggi anche dalla minore difficoltà nel reperimento di informazioni altre.

    Questo libro vuol essere soltanto divulgazione che aiuti ciascuno a fare un proprio cammino. Dunque non espongo mie particolari e uniche valutazioni, sempre di­screzionali, ma offro sobrie schede conoscitive, non di parte e aggiornate, accanto a testi significativi e perlopiù integrali, almeno per quanto riguarda i passaggi relativi alla meditazione e non altre materie.

    Certo è d’aiuto avvicinarsi di persona alla meditazione o contemplazione. Sfogliando i testi qui presentati troverete molti rimbrotti dei maestri contro i propri allievi: o almeno quelli che si limitavano a rasare i capelli, a ripetere mantra senza voglia, a ripetere i ritmi delle giornate stancamente, ma anche quelli orgogliosi di poter studiare su antiche pergamene, ai danni della vera pratica contemplativa.

    Tornare alla pagina di un maestro può essere occasione di meraviglia, così come il silenzio prima dell’incontro col sacro. Testo, oralità, silenzio, lavoro sulla mente: tutti strumenti per rilanciare la propria crescita (con o senza un Dio cui sposarsi). Un risveglio personale, che è sempre stato un’occasione per allargarsi alla crescita degli altri.

    A proposito di maestri

    Questa antologia restringe il campo delle testimonianze a chi ha colto e vissuto una centralità della meditazione. Dunque non troverete in senso stretto né speculazioni filosofiche, né approfondimenti su terminologie, o altri apparati concettuali.

    Non tutti i grandi nomi del passato, che rientrano ovviamente nella storia delle religioni, hanno dato questa importanza precisa alla meditazione: e dunque non sono presenti. Per quanto riguarda il Novecento, in apertura della quarta parte illustrerò alcuni criteri di selezione nella marea di possibili protagonisti. Per il Dalai Lama una paginetta sarebbe andata troppo stretta, e per noti guru alla moda sarebbe stata anche troppo.

    Al di là dei gusti personali, cos’è un maestro di meditazione? Intanto non è un uomo di successo. Molta notorietà è relativamente recente, un recupero moderno, non d’epoca. E anche chi seppe costruirsi un’alta reputazione, pagò pesantemente (Meister Eckhart, ad esempio). Comunque il maestro da vivo non fu esattamente o necessariamente un Illuminato. Facilmente emergerà dalla lettura che non più di 2-3 protagonisti raccontano (senza mai ostentarlo) il proprio avvenuto risveglio o illuminazione. Quello stato fu un’eccezione, non una prassi. Quasi mai un obiettivo, piuttosto uno stato mentale e corporeo di grande intensità, quanto effimero.

    Il risvegliato per primo sa che a breve tornerà allo stato naturale e dovrà accettarlo. Indicherà perciò la percorribilità della Via, senza ergersi per vanagloria sopra la sua platea.

    Il maestro di meditazione è inquieto fuori dal suo riserbo, è spesso aggressivo a parole, almeno nel senso di voler stroncare alibi. Non offre soluzioni facili, non si chiude dietro la tecnicalità della postura, o i progressivi livelli di pulizia della mente, a cominciare dai pensieri disturbanti.

    Troverete che tanti hanno valorizzato il ciclo del respiro, con varie sfumature verso l’attenzione e la concentrazione: lo svuotarsi dell’attività cerebrale è propedeutico all’accesso a una nuova pienezza, che la si chiami piena consapevolezza o incontro con Dio.

    La grande maggioranza dei maestri qui presenti visse una vita monastica. Questo vuol dire che spesso i loro discorsi erano diretti a una ristretta platea di discepoli, o bikkhu, o novizi. Si può discu­tere su quanto dei loro insegnamenti fu diretto soltanto a quella cerchia di iniziati che vivevano in comunità. Ciò vuol dire allora chiedersi se ha senso prendere alla lettera indicazioni di ardua attuazione nella vita laica di tutti i giorni. È un punto che lascio alla considerazione finale del lettore. Senza anticipare le cose, va detto che, specie nel Novecento, sono state comunque molte le voci che hanno inteso la meditazione buddhista (e la stessa contemplazione cristiana) in senso di apertura e salvezza ambientale, come approcci capaci di uscire dal buio di un angolo di preghiera, per misurarsi col mondo.

    In ogni caso – al contrario dei mistici veri e propri – i maestri della meditazione furono meno legati a costrizioni o impervie condizioni di vita. L’eremitaggio in senso stretto fu soltanto un tratto lungo la Via, a cominciare dal Buddha che lo sperimentò per abbandonarlo. L’umiliazione del corpo e delle relazioni non è centrale in una visione né etica né pratica della meditazione.

    Certo non è esistito uno stereotipo di maestro. Qui troviamo un arco enorme di vite ed esperienze. Possiamo confrontarle e cercare differenze e analogie. Di certo non insegnarono per un qual­che tornaconto, se non vivere in semplicità dentro una comunità dai valori condivisi.

    A loro è data qui tutta l’attenzione e lo spazio. Ci sono molte altre sedi dove ascoltare gli esperti e ricostruire dibattiti interpretativi. Accanto ai maestri troverete – per correttezza e rispetto – i nomi di curatori e traduttori dei libri consultati, senza altri intermediari, con bibliografie dei soli utilizzati o indispensabili.

    L’augurio è che pagine che vengono da lontano possano favorire il nostro approccio a una qualche esperienza di meditazione personale, anziché fermarsi in dibattiti filologici, preziosi sul piano storico, ma spesso dalle scarse conseguenze. Avere fiducia in un classico?

    Classico, cioè… dentro una sfida viva

    Troverete nella prima parte una antologia essenzialmente selezionata da testi rappresentativi, più che da una cerchia di autori prediletti. Alcune di quelle pagine non hanno neanche un autore riconosciuto. Per questo sarà forse deluso chi è legato al fascino di un qualche maestro per la propria storia, o a un’altra sua opera non strettamente inerente alla meditazione.

    In effetti si può allargare a dismisura l’area di opere gemellate per intensità o complementarietà a quelle qui presenti.

    Il Sutra del diamante fu un serrato affinamento di una Via alla saggezza. Il Buddha in pressante dialogo con Mahamati nel Sutra Lankavatara su percezioni e superamento delle parole fu una vera enciclopedia viaggiante dal sanscrito, al cinese, al giapponese, pur senza avere un proprio tema intrinseco, se non il fine dell’autorealizzazione. Lo Huineng (Eno) della Scrittura dalla piattaforma (o meglio della Pedana degli insegnamenti) può certo meritare ancora oggi escursioni per l’alto profilo storico e filosofico delle sue interrogazioni da parte degli allievi, specie se interessati alle ragioni della meditazione istantanea. Il Libro tibetano dei morti (Bardo Thödol) di Padmasambhava indagava i momenti pre e post mortem, come occasione di illuminazione per l’anima, attraverso una minuziosa scansione temporale, estranea alla nostra sensibilità. Gli stessi koan cari a Linchi/Rinzai sono stati analizzati a fondo in Occidente per l’originalità dello strumento e per la particolare relazione maestro/allievo, certo non per la loro riproducibilità a scopo di benessere o autoconoscenza. E gli esempi possono proseguire in ambito cristiano, dove di Evagrio ha senso assaporare qui – affinando la meditazione – il testo sulla preghiera, piuttosto che il Trattato pratico per le comunità monastiche. Abbiamo preferito restare dunque sul solco della meditazione, preghiera, oblio, incoscienza, consapevolezza, presenza mentale. Ma cosa dà spessore a questi testi?

    Non è sufficiente essere antichi, per essere classici. E serve comunque il giusto rispetto nei loro confronti. Il Daodejing ha ricevuto talmente tante traduzioni novecentesche da proporsi ormai come un libretto da tavolino, pronto a essere sfogliato la sera. Quanto al Libro dei mutamenti (Yi Jing) la distanza di 2000 anni non è servita a non devastarlo oggi, quasi fosse un’appendice all’oroscopo del giorno.

    Tante altre opere non sono invece uscite dal novero degli specialisti, nonostante l’attenzione dei curatori più vicini a noi. Cito almeno lo Zhuangzi, caro a Merton, con pagine di bellezza letteraria uniche, almeno quelle considerate non posticce. Altri racconti mistici restano noti più come titoli, che per esperienze di lettura: La Notte oscura di Giovanni della Croce, il Castello interiore di Teresa d’Avila, la Filocalia dell’Est Europa. E qui mi è sembrato doveroso offrirne qualche assaggio e favorirne la diffusione.

    È stata poi la stessa ricerca a offrirmi spunti e nuove strade. Dal rilancio del medievale inglese La Nube, acquisizione relativamente recente e attrattiva di commentatori, al misconosciuto vietnamita Tang Hoi, fino all’apertura ai promemoria della meditazione-in-movimento, oggi diffusa come taijiquan. Non manca l’esempio di una sorta di preghiera zen, rituale all’interno della sesshin della tradizione soto, come il breve Sandokai.

    L’accostamento tra Oriente e Occidente si è fatto più stretto via via nella mia stesura. Quasi un contrappunto. Forse il testo di avvicinamento e congiunzione è il medievale Trattato dell’uomo nobile di Eckhart, duro ideologicamente come un diamante e letterariamente puro come un’invocazione.

    C’è infine anche chi usa classico nel senso di modello. Per la propria epoca e per la propria tradizione di appartenenza, alcuni insegnamenti volevano certo essere rappresentativi, anche se non necessariamente nati per durare. Parlano dell’evoluzione raggiunta da quel concetto di meditazione. Spesso volevano superare resistenze o letture opposte. Rispondevano a tensioni e deviazioni. Furono modelli per chi venne dopo. La loro forma comunque non fu mai estranea alla propria missione.

    La ricchezza letteraria

    Mi piacerebbe che l’antologia venisse letta anche da chi praticante non è, o ha avuto finora un interesse solo rispettoso per questa pratica. Certamente sarebbe riduttivo sfogliarla come catalogo di posizioni intellettuali solo da studiare. Specie rispetto al pensiero orientale, si cade spesso in questa riduzione. Qualcosa di bello o profumato, ma senza conseguenze particolari. Come predisporsi a una lettura più coinvolgente?

    Non so se ho saputo aggirare il problema offrendo un arco di testi assai diversificati nella loro natura e dunque stimolanti. Se il nucleo più denso è rappresentato dai trattati o manuali divulgativi (Changlu Zongze, o Evagrio), si può spaziare dalle severe stanze di Nagarjuna al misterico percorso ascetico di Patañjali, strettamente legato all’orazione personale e di gruppo. Oppure la trascrizione del dialettico sermone di Eckhart da paragonare all’irruenza retorica di Linchi/Rinzai, o le carezzevoli indicazioni di Niceforo.

    La forma base più riconoscibile è forse la poesia, la ricerca di una sintesi mirata, evocativa, piuttosto che spiegazione strutturata. Molto è infatti oralità e successive trascrizioni. Per quei maestri era importante aiutare a memorizzare i testi, almeno i più brevi e conclusivi. Vale per il samadhi cantato da Tozan Ryokai, come per il dottrinale Libro del nulla di Sosan Tozan; fino alle quartine stese per dialogare con le Dieci icone dello yak, o quelle – sia in lingua cinese che giapponese – del grande Eihei Dogen (qui proposte per la prima volta in italiano).

    Chi vorrà approfondire i fondamenti della meditazione sotto l’aspetto filosofico, sia nella veste introspettiva che in quella speculativa, avrà modo di rivolgersi ad altri classici, che siano la gigantesca raccolta di Discorsi del Buddha, o le Confessioni di sant’Agostino, oppure avanzare fino alle ricerche spirituali e non solo filologiche dei nostri contemporanei Merton (trappista) e Raguin (gesuita).

    Tradurre per meditare nello spazio

    Quale sia la sua finalità (se ne ha), la meditazione è un’attività a sé. Normalmente la si riconosce dalla postura del meditante. In realtà si può meditare anche a contatto della natura e delle persone. Non solo meditazione seduta, dunque: il lavoro orientale sulla respirazione in cerca di pace (samatha) o di visione profonda (vipassana) richiede altri fattori oltre che un corpo immobile.

    C’è così una richiesta di spazio – il giusto spazio – quando vogliamo guardare in viso la meditazione.

    Certo serve un luogo canonico dove agire una seduta di meditazione, silenziosa o guidata. Tutti i maestri ci hanno invitato a curare un nostro angolo meditativo, che sia in una abitazione o in un monastero. Quella semplice sensazione di sicurezza, indotto dalla riconoscibilità del luogo, ci metterà a nostro agio. Perfino entrare nel percorso meditativo sarà più facile e veloce.

    Anche tradurre ha a che fare con questo viaggiare intorno? Con una identificazione con altri luoghi oltre che altri individui lontani nel tempo? In effetti anche la stanza del traduttore, sommersa di carte e dizionari, è uno spazio di contemplazione, orto concluso, se non altro per orientare la mente e affinare l’impegno intellettuale. Se non si risolve in un banale copia-incolla tra termini stranieri e spesso estranei allo stesso traduttore, questa mente selettiva impara, senza volerlo. Molte terminologie forse usciranno dalla memoria. Eppure dallo svuotamento dagli schemi abituali, ecco risuonare (grazie a parole e immagini nuove) un senso di chiarezza piacevole e non previsto. E la stanza si fa universo.

    Tradurre per meditare nella parola

    Se, agli inizi, la prima necessità è stata quella di migliorare la mia stessa pratica meditativa, allargando l’orizzonte di quanto conoscevo e avevo sperimentato finora, quasi immediato è stato decidere come pormi di fronte all’impegno linguistico.

    Il testo originale parla sempre un’altra lingua, nel senso di non essere assoggettabile a facili sovrapposizioni. Purtroppo – se problema c’è stato – non ha riguardato le difficoltà interpretative, o la costruzione di un complessivo lessico meditativo comparato, quanto l’enorme disparità tra precedenti traduzioni.

    In generale ritengo che gli anni Ottanta-Novanta non hanno fatto bene a una maggiore circolazione dei racconti meditativi buddhisti. Le edizioni italiane hanno riguardato nella quasi totalità le edizioni anglosassoni. Quasi mai il nostro traduttore ha trovato spazio come curatore, per integrare o correggere impostazioni. Per semplificare: spesso la meditazione è diventata tutta zen o pseudo zen. Conseguenza: azzerata la enorme (e purtroppo frammentaria) produzione cinese chan, vissuta come discontinua pioniera della più alta e severa lezione giapponese.

    I primi danni hanno riguardato le confusioni terminologiche, ma anche l’ambientazione delle esperienze in sé: già negli anni Sessanta l’aura della meditazione

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