Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Ti verrò a trovare in sogno: Milano, un caso senza movente per la PM Maddalena Fiorito
Ti verrò a trovare in sogno: Milano, un caso senza movente per la PM Maddalena Fiorito
Ti verrò a trovare in sogno: Milano, un caso senza movente per la PM Maddalena Fiorito
E-book204 pagine3 ore

Ti verrò a trovare in sogno: Milano, un caso senza movente per la PM Maddalena Fiorito

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un segreto sepolto nella memoria per decenni può affiorare all’improvviso, in una mattina qualunque, a Milano. Fulvio che non si era vendicato da ragazzo per difendere la donna che amava solo ora, a cinquant’anni, trova la rabbia per farlo. Una rabbia cieca che prende di mira un uomo sconosciuto, Giacomo, responsabile di aver inciso nello sguardo quell’identica colpa. Uno sparo e la vita dei due uomini cambia per sempre. E così quella di altre persone a loro vicine. La pm Maddalena Fiorito che indaga su un caso apparentemente privo di movente, si imbatterà nella più difficile risoluzione delle esistenze di quattro donne, ognuna legata per vie diverse alla vittima e al carnefice. Scoprendo che esiste un sottile, e a volte fatale, legame con le persone che non conosciamo e in cui ci imbattiamo “per caso”; che ci sono amori di un’estate mai giunti a compimento che rimangono intatti per sempre e che la solidarietà femminile è in grado di riscrivere qualsiasi storia, anche le più negative, anche quelle che la sorte o la vigliaccheria umana hanno voluto interrompere.

Roberta Spadotto vive a Milano. È giornalista a tempo pieno e mamma di due figli maschi e di due gatti, maschio e femmina. Lettrice onnivora, coltiva la scrittura “come può, quando può e dove può”, come diceva Céline. Ha pubblicato due racconti: Un varco tra i sensi (nella raccolta Chiama quando vuoi. Racconti di passione e d’amore, Mondadori 1992); e A Viola, finalista del premio “Elsa Morante” e pubblicato nella raccolta Sirene. I racconti del mare (Terre di Mezzo, 2004). Ti verrò a trovare in sogno è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita26 apr 2021
ISBN9788869435317
Ti verrò a trovare in sogno: Milano, un caso senza movente per la PM Maddalena Fiorito

Correlato a Ti verrò a trovare in sogno

Ebook correlati

Noir per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Ti verrò a trovare in sogno

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Ti verrò a trovare in sogno - Roberta Spadotto

    PARTE PRIMA

    Giacomo quella mattina si era svegliato con il mal di testa. Un dolore acuto in mezzo alla fronte. Aveva sfiorato la schiena di Daniela, sdraiata accanto a lui e avvolta malamente nel piumino leggero.

    «Che c’è?», aveva mugugnato lei.

    «Il dolore. È tornato».

    «Non è nulla, è psicosomatico, lo sai».

    La sveglia segnava le sei e un quarto. Sarebbe squillata dopo più di un’ora. Ma i secondi erano lenti. Attese che il 15 dei minuti si convertisse in 16 ma non succedeva. Per un tempo infinito l’orologio segnò 6:15.

    «Forse sto impazzendo». Gli occhi di Giacomo erano spalancati e guardavano il soffitto.

    «No, semplicemente non sai rilassarti».

    Daniela si era riassopita in un attimo. Lui era rimasto immobile. Aveva lasciato una mano sopra la schiena di lei e non riusciva a spostarla. Ne sentiva il calore e il respiro lieve. Questo lo calmava.

    Il tempo pareva essersi proprio fermato. Ogni tanto Giacomo spostava le pupille verso la sveglia digitale e quella ora segnava le 6:17, anche se una vita intera pareva essere passata attraverso la sua mente in fermento. Aveva contato fino a sessanta e si era voltato, ma il 18 non era scattato. Che cosa stava succedendo? Provò ad alzare una mano e vide che lasciava una scia: mossa nell’aria la mano lasciava se stesso impressa nello spazio. Una mano raddoppiata, triplicata, quadruplicata. Un rosa carne che si espandeva, dissipandosi ai bordi, man mano che trascorrevano i secondi. Era un’illusione ottica o era la realtà? Non faceva molta differenza, alla fine, visto che in qualsiasi caso l’unico testimone sarebbe stato lui. Avrebbe dovuto svegliare Daniela e chiederle se anche lei vedeva quello strano fenomeno. Ripeté il gesto più volte. L’osservò affascinato. Anche l’anello d’oro che brillava al suo anulare sinistro compiva strani giochi nell’aria e smetteva di essere una fede nuziale. Era una spirale, un simbolo arcaico, una costellazione. Formava disegni ipnotici che però non riuscivano a riconciliarlo con il sonno.

    Giacomo sentiva l’aria pesante e se stesso ancorato alla terra come un macigno di parecchie tonnellate. Attribuì quella sensazione al proprio malessere. Aveva fatto alcuni esami, aveva consultato medici, neurologi e psichiatri. Il verdetto era stato unanime: depressione da adattamento. Erano quasi tre anni che Giulia era nata e lui non si era ancora abituato al nuovo assetto che aveva preso la sua vita. Non era stato tanto perché l’arrivo della bambina aveva trasformato drasticamente Daniela in una mamma e l’aveva allontanata forse per sempre dalla donna che era stata. Dopo un paio di colloqui con uno psichiatra, aveva capito che l’arrivo di Giulia aveva reso il futuro un percorso privo di sorprese e ricco di responsabilità. Le infinite possibilità della sua vita, le migliaia di porte che non avrebbe mai imboccato ora si erano chiuse irrimediabilmente. In lui, da tempo, si svolgeva una battaglia tra il senso di colpa che provava verso Giulia e il rimpianto per tutte le scelte che non aveva fatto. Una battaglia che ogni giorno, da quando apriva gli occhi a quando li chiudeva la sera, impegnava tutto il suo corpo: muscoli, nervi, vasi sanguigni e il suo sforzo, vano, finiva per diventare un dolore insopportabile in mezzo alla fronte.

    In un attimo decise: me ne vado. Poi sentì che la bambina cominciava a chiamare con la sua vocina sottile piena delle parole che amava ripetere più spesso e tra le quali la più frequente era papa. Si sentì un pusillanime ma non si mosse. Non poteva, il suo corpo era come di pietra. Vide sua moglie che si alzava ed era doppia, tripla, quadrupla. Tante Daniele che oscillavano: il nero dei capelli era una macchia scura, la camicia da notte come una nuvola azzurra indistinta.

    Disse: «Non mi sento bene», e sentì le proprie parole uscire al rallentatore, il suo timbro di voce farsi denso, pesante come la voce registrata quando il nastro gira piano. Daniela non gli aveva badato. La sua immagine aveva continuato a oscillare da una parte all’altra del suo centro e poi era stata risucchiata nell’oscurità della stanza di Giulia.

    ***

    Fulvio non aveva dormito affatto, quella notte. Il cielo fuori dalla finestra alle sue spalle era passato dal nero al bianco azzurrognolo e lui era sempre lì, immobile, seduto al tavolo della cucina, i gomiti piantati sulla tovaglia di plastica, le mani che tenevano la testa che pesava un quintale. Non aveva ceduto nemmeno per un secondo. I suoi occhi appannati dalla stanchezza e dall’alcol avevano fissato per tutta la notte un piccolo fiore rosso, riprodotto in serie sulla tovaglia. Lo avrebbe tenuto a mente quel fiore, anche se non vi aveva mai prestato attenzione. Poteva essere un papavero, un tulipano, una rosa. Ma aveva quella forma: grossi petali, un gambo verde, un pistillo nero. Sì, ricordava il pistillo. Sarebbe stata quell’immagine e non un’altra a riempire i suoi pensieri fino alla fine. Anche più tardi, nel buio che lo avrebbe inghiottito dopo la tragedia. Una volta sprofondato là, dove nessuno lo avrebbe tratto in salvo, avrebbe avuto davanti agli occhi quel rosso vivo, ormai privo di contorni, ormai senza forma. Una macchia di color vermiglio, come sangue denso, avrebbe riempito quel che rimaneva della sua coscienza, senza che lui avesse modo di sfuggirle o di spiegarsela.

    In quel momento, però, in quella lattiginosa alba di fine marzo Fulvio era vivo. La rabbia che stava montando dentro di lui era più forte di qualsiasi altro sentimento. Annebbiava la vista, sovrapponeva i ricordi. Era successo la sera appena trascorsa o quarant’anni prima? Una camicia bianca, i papaveri in un campo. Aveva bevuto, era stanco. Però sentiva che niente lo avrebbe trattenuto dal correre dove il destino lo attendeva. Se solo avesse saputo che esiste per tutti un pozzo in mezzo alla campagna scavato apposta per noi, dove, per un passo falso si cade ma non si muore. E una volta in fondo, a decine di metri dalla superficie e a centinaia da anima viva, ci si rende conto che nessuno verrà a salvarci. Ma non dalla morte che tutto annulla e sopisce. Nessuno verrà a salvarci dal nostro fiore rosso. Allora, per l’eternità, dovremo ripeterci: che cos’era quella macchia rossa? E l’unica risposta possibile sarà: fluttuava, come mossa dal vento.

    ***

    Daniela era tornata nella stanza. Le oscillazioni erano meno evidenti. I suoi movimenti lasciavano scie più sfumate che scomparivano subito nell’aria. Porse a Giacomo un bicchiere.

    «Bevi», disse. La sua voce pareva quella di sempre.

    Giacomo sentì l’amaro delle gocce che lei aveva sciolto nell’acqua.

    «Giulia?», si affrettò a chiedere.

    «Giulia si è rimessa a dormire. Io ormai sono sveglia».

    «Mi dispiace», disse in un soffio.

    Poi le mostrò come saltava giù dal letto, rinato e forte. Le fece un debole sorriso.

    Lei rispose: «Devi proseguire la cura e farti forza».

    Giacomo la baciò delicatamente sulla fronte e si avviò in bagno. Mentre muoveva i pochi passi per arrivare in corridoio, vide che le sue gambe avevano ripreso a oscillare lasciando scie di se stesse intorno. Tutto il suo corpo era pesante. Cercò di convincersi che non era così, era solo un momento, li conosceva ormai quei buchi neri, quando tutte le energie che gli rimanevano venivano risucchiate via e lui rimaneva immobile e sfinito pensando solo che non doveva cedere. La vita è solo resistere. Aveva letto la frase da qualche parte, forse in un romanzo, tantissimi anni prima e gli era rimasta impressa anche se allora, nel pieno della giovinezza vigorosa, aveva trovato quelle parole prive di senso. Ora era tornata improvvisamente, una mattina, durante uno di quei momenti duri, in cui era attratto dalle finestre aperte e dalla vacuità vertiginosa del sesto piano; un bel volo e lo schianto avrebbero messo fine a tutta quell’inutile fatica. La vita è resistere. Non sapeva come proseguisse nell’originale, si ricordò il senso, provò a parafrasare: essere vivi è rimanere fermi, lasciando che il sangue si muova, le vene pulsino, le ossa reggano, l’aria esca ed entri facendo il giro dei polmoni. Lasciare che i pensieri attraversino le funzioni vitali senza danneggiarle, come un respiro inconsistente, come un sogno. Si fermò in corridoio, si appoggiò a una parete, sentì la solidità ruvida e fredda del muro bianco. Cercò di concentrarsi sul suo inspirare ed espirare, provò a immaginare il cuore che, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno, continuava a pompare, ad alimentare arterie e capillari, pazzo di vita.

    Daniela gli passò di fianco, questa volta gli sembrò velocissima.

    «Tutto bene?». Le sue parole erano stridule, accelerate, come quelle sintetiche di un robot.

    Giacomo si riscosse, cercò di indovinare quale fosse la risposta giusta per non mettere in allarme sua moglie, per non farla arrabbiare come succedeva quasi tutti i giorni. Per quanto il suo stato psicologico glielo permettesse, aveva imparato a mentire e ora doveva spiegare che cosa ci faceva piantato lì in mezzo al corridoio immobile, appoggiato al muro, con la testa china.

    «Sì, ho avuto un piccolo giramento di testa, forse mi sono alzato troppo in fretta».

    Daniela tornò sui suoi passi, gli si parò davanti. Lui fu costretto a guardarla negli occhi. La rivide come era da ragazza: le iridi lucenti, i capelli spettinati, il viso lievemente arrossato di quando si baciavano sul suo letto da ragazzo. La ricordò in mezzo a un prato, in una macchia verde dove si erano sdraiati, dopo aver corso mentre il vento entrava dai finestrini e le labbra bruciavano. Si erano amati, dell’amore inconsapevole dei ragazzi quando il futuro è una spianata che supera l’orizzonte, la morte non esiste e non importa chi sei. Era stato bello, per tanto tempo. Rivide i loro anni migliori come su uno schermo immaginario che proietta il trailer di una vita, momenti che passano veloci e si sedimentano in fondo al cuore, e gli sembrò di non averli mai abbandonati quegli anni, che ancora quella magia permeasse le loro giornate, potesse dare un senso a tutto e trarli in salvo. Quella sensazione così volatile prese concretezza nel gesto che Daniela fece dopo averlo fissato a lungo, intensamente. Lo abbracciò. Erano mesi che non succedeva, i contatti tra loro si erano ridotti a uno sfiorarsi di circostanza, ogni emozione sopita dalle incombenze quotidiane, dalla stanchezza, dal disagio di lui.

    Stettero così, stretti, per un lungo minuto. Giacomo sentì la sostanza del corpo di Daniela, si lasciò andare alla materia, dimenticò la sua. Poi lei spezzò l’incantesimo.

    «Promettimi che ne usciremo», sussurrò. Tutta la luce di un attimo prima si spense.

    «Ce la sto mettendo tutta, davvero». Avrebbe voluto che non parlasse, che non lo invitasse a fare qualcosa, che ci pensasse lei a trascinarlo lontano da quello stato. Sarebbe bastato che dicesse: «Ti prometto che ne usciremo». Non si sciolse dall’abbraccio ma la sua carne tornò a essergli estranea, la sua la sentì pesante come non mai.

    «Ritorneremo quelli di una volta» disse Daniela. Si scostò e lo guardò soddisfatta. Finse di credere anche lei a quella bugia.

    ***

    Quando un fiore rosso entra di prepotenza nelle pupille è difficile cacciarlo via. Ci sono notti di spade e coltelli che ti trapassano da parte a parte e ti inchiodano lì, sul muro della tua vita. Fulvio era rimasto immobile per almeno dodici ore, seduto a quel tavolo, fissando quel disegno sulla tovaglia di plastica. Cercò di ricordare quello che era successo la sera prima. Quando la luce cadeva obliqua sulle pareti del corridoio. E c’era la porta d’ingresso semiaperta sul buio del pianerottolo. Vide Mariya vicino alla porta. Vide le sue valigie. Vide la bocca di lei spalancata in un urlo ma non riuscì a ricordare le parole. Si rammentò che l’aveva afferrata per un braccio ma lei si era divincolata con una forza che non le conosceva. Tutto era avvenuto nel silenzio. Lui aveva cercato di afferrarla di nuovo ma lei era stata attratta dal buio. Le sue valigie erano rimaste a terra. Lei era leggera come l’aria che passa negli spiragli. Si era caricata in spalla una sacca che roteandole sulla schiena aveva contribuito a sospingerla fuori ed era sparita nel vuoto delle scale oscure e silenziose. Il tutto era durato meno di un minuto, un baleno. Vide i capelli di lei uscire per ultimi come attaccati a niente. Se n’era andata sul serio? Il silenzio spettrale che regnava in casa non lasciava dubbi. Un minuto dopo, la polvere si era già depositata sulle cose di Mariya, lei era già indistinta, come le immagini del passato. Solo i fiori rossi si muovevano ed erano reali, come li aveva già visti in un campo, scomposti dalla brezza dell’estate.

    Era successo di nuovo. Una frustrazione viva saliva dal fondo di un passato che credeva morto. Lei aveva nominato un altro uomo. Che nome aveva fatto? Un nome spigoloso, un nome che faceva male. Con delle r, con qualche t. Un nome che da sempre gli evocava immagini di battaglia e di morte. Lo aveva nominato per ferirlo, per ottenere qualcosa, per fargli capire che aveva un’alternativa. Per smuoverlo. Ma lui non si era mosso. Era rimasto seduto a quel tavolo, al suo posto, che aveva occupato come per protesta non appena lei gli si era parata davanti con una richiesta di attenzione. Il silenzio era una punizione, la bottiglia di vino che lei aveva nascosto e lui aveva trovato lo stesso, era il modo migliore per metterla in castigo, per dirle di no. Che cosa pretendeva da lui? Ricordava il giorno in cui l’aveva conosciuta. Era magra dentro un vestito a fiori di due taglie più grandi, con quegli occhi azzurri chiari e tristi. Gliel’avevano mandata gli amici della cooperativa perché lui non si curava più di se stesso e gli avevano detto che era brava a mettere in ordine le cose. In pochi mesi, Mariya si era trasformata dalla donna che gli puliva l’appartamento due volte alla settimana, a pochi euro all’ora, alla compagna che gli dormiva al fianco. Due solitudini che si sfioravano. Le aveva dato un tetto dove vivere, quattro pareti solide che erano un baluardo contro il caos del mondo fuori. Era questo che lei chiedeva, protezione. Per anni, Mariya si era accontentata di quella sicurezza, di essere loro due, uno al fianco dell’altra, senza mischiarsi, senza conoscersi davvero. Poi, aveva avanzato quella richiesta. Voleva di più, voleva ancora. Che cosa? Non ci capiva più niente, Fulvio. Il fiore rosso non collaborava, gli evocava solo sensazioni di rimpianto e perdita. Poi, quel nome. Questo, sì, l’aveva scosso. L’aveva allora afferrata per un braccio senza dire nulla. Lei aveva atteso quell’attimo in più prima di sottrarsi, aspettando che lui dicesse: «Non andare con lui». Ma Fulvio non era riuscito a dirle quelle parole, nemmeno questa volta. Da secoli lei aspettava un segno, un gesto. E ancora una volta lui era rimasto immobile. Con la testa china tra le spighe, nascosto tra i papaveri.

    ***

    Giacomo riuscì a infilarsi i vestiti. Ogni indumento pesava sulle braccia e sulle spalle e in ogni punto in cui aderiva al corpo. Il dolore in mezzo alla fronte lo accecava. Era però meglio far finta di nulla. Come poteva dirle che il farmaco non aveva fatto effetto? Meglio seguire il suo consiglio e farsi forza, poi tutto sarebbe andato per il verso giusto. Aveva voglia di tornare a letto a dormire. Forse aveva anche un po’ di febbre. Poi vide la porta d’ingresso e lo colpì l’impulso di fuggire. Sarebbe bastato un passo, aprire delicatamente la porta blindata, scostarla e conquistare la libertà.

    Lo specchio del corridoio gli restituì la propria immagine. Vide un viso informe circondato dall’alone dei propri colori: rosa carne, marrone. Così si stampò un debole e faticoso sorriso sulle labbra ed entrò nella stanza luminosa dove Daniela stava preparando la colazione. Virando di qualche grado, Giacomo vide Giulia seduta sul suo trespolo. La bambina ammutolì e sgranò gli occhi enormi e limpidi, come se non lo avesse mai visto prima. Sentì che dalla sua bocca uscivano le parole: «È già pronto il caffè?».

    ***

    Seduto sulla sedia di legno e vimini, accostata al tavolo a pochi metri dal frigorifero, nella sua cucina all’ultimo piano di via Meda 24, Fulvio era riuscito ad alzare lo sguardo dal tavolo. Vide le due bottiglie di vino che si era scolato nella notte, vide la pistola d’ordinanza ancora nel fodero dove l’aveva appoggiata rientrando. Vide il suo cellulare che era rimasto muto per molte ore. Poi girò piano la testa, come se lo sguardo fosse un radar e potesse restituirgli un segnale interessante, un indizio. Vide la finestra spalancata da dove si intravedevano solo tetti e antenne e il cielo che stava schiarendo. Vide gli strofinacci appesi e sgualciti

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1