M'avanza un cadavere
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Anteprima del libro
M'avanza un cadavere - NATALFRANCESCO LITTERIO
800x600
Finito di stampare nel mese di ottobre 2018
presso Universal Book srl - Rende (CS)
per conto della casa editrice Lupi Editore
M’AVANZA UN CADAVERE
di
Natalfrancesco Litterio
L’unica trama è l’odio del mondo
(da Casino totale, J-C. Izzo)
A mia moglie Lucia,
che accarezza i miei sogni e li rende reali.
PREFAZIONE
Il romanzo d’esordio di Natalfrancesco Litterio mostra senza veli quanto l’autore divori e assimili cultura pop, cronaca estera, contemporaneità e gerghi tra visioni profonde dei rapporti interpersonali e gusto cinematografico.
La voce narrativa è definita e coinvolgente e la brigata di personaggi che articola la storia ha qualcosa di Pier Vittorio Tondelli innestato a un lucido nichilismo alla Bret Easton Ellis con personaggi radicali e cannibali
alla Ammaniti. E poi sembra di essere al cinema. La scansione degli ambienti, la telecamera dello scrittore che segue i personaggi muoversi, l’utilizzo di brevi capitoli flashback e anche l’elettricità dei dialoghi. Qualche personaggio lo odierete, probabilmente, ma vi farà comunque ottima compagnia.
M’avanza un cadavere è un romanzo che si sviluppa con una calma maliziosa, attirando in un gorgo in cui convergono diversi elementi del giallo classico e del thriller moderno reinterpretati nello stile rock e diretto dell’autore. C’è anche molta musica nel romanzo, anche se a livello sottocutaneo. Ci sono assoli di personaggi e ci sono grandi orchestre corali, ci sono veloci percussioni punk e ballate alla Leonard Cohen.
Il romanzo scorre fluido e veloce ma nasconde molte sommesse ramificazioni di significato e di trama che solo un lettore attento saprà cogliere. I meccanismi degli enigmi sono tanti, e la verità potrebbe non essere una sola. La soluzione può non essere univoca e certa, ma questo romanzo è certamente appassionante.
Giovanni Di Iacovo
IL MATTINO HA L’ORO IN BOCCA
Uno
Doveva morire. Era la prima cosa che aveva pensato appena sveglio, nel buio della stanza. Quanto tempo aveva? Si girò con iperbolica lentezza verso il comodino. Undici e ventitré, così diceva la sveglia dal suo display con cifre rosso sangue. C’era tempo: doveva morire intorno alle ventidue di quella sera.
Si girò ancora, verso l’interno del letto. Una sagoma di donna si nascondeva tra le increspature delle lenzuola e l’oscurità che ancora regnava nella stanza, nonostante l’ora tarda del mattino. Oltre quel corpo, dalle persiane chiuse penetrava appena un timido grigiore, tipico di una mattinata invernale. Paride passò da un disturbato dormiveglia alla piena consapevolezza: improvvisamente ebbe assoluto bisogno di liberarsi di quella donna che gli occupava il letto. Si alzò, cercando di fare rumore. La figura femminile rimaneva immobile. Andò alla finestra e tirò su le persiane, con un frullio talmente fastidioso per le sue orecchie che fu costretto a strizzare gli occhi. La luminosità, all’interno della stanza, ebbe variazioni significative. La sagoma non cedeva immobilità.
Paride scivolò lungo il muro, sotto la finestra, sedendosi a terra, rivolto verso il suo letto. Ormai le curve della sagoma si distinguevano nettamente e il pallore malato della pelle della donna risaltava come il bagliore della nebbia, all’esterno. Immaginò che la donna fosse morta. «Commissario, non ne so niente. L’ho trovata così, al mio risveglio» avrebbe detto alla Polizia. Immaginò che a quel bastardo di un commissario non sarebbe bastato, avrebbe fatto domande su domande, tante domande. «Sì, abbiamo avuto un rapporto sessuale. No, non la conoscevo bene. Sì, quando ci riesco rimorchio sconosciute, spacciandomi per grande attore, ma non ho ucciso nessuno.» Difficile da accontentare, il poliziotto.
Tossì, pensando svegliati, troia
. O forse dicendolo proprio, tra i denti, confondendo le parole nei colpi di tosse. Rimase a fissare quel corpo immobile, bianco morte. Infine si decise e guadagnò il bagno.
Le luci a basso consumo producevano una luce malata. Ogni parte illuminata sembrava posseduta da quel corpo biancastro che aveva lasciato di là, nella sua stanza. La voglia di liberarsene crebbe. L’immaginazione di vederla morta divenne desiderio. «È rimasta soffocata dal proprio vomito» avrebbe detto il medico legale, scagionandolo. Quello stronzo del commissario avrebbe avuto da ridire sul fatto che aveva fatto ubriacare un dolce fanciulla per approfittare di lei, ma avrebbe dovuto arrendersi davanti alle rivelazioni del medico.
«Sì, abbiamo bevuto un po’, ma non avrei mai immaginato... Oh, commissario, sono distrutto!»
Si fece la barba col rasoio da barbiere. Pessima idea. Si tagliò più volte, quasi senza accorgersene. Ci fece caso solo perché il rosso del suo sangue era fosforescente e risaltava tra il biancore della lampadina e la nebbia che sembrava essere entrata dalla finestra. Si guardò il collo con stupore: che colori accesi! Che sangue... bello! Bello? Bello, perché no? Si sciacquò il viso e il sangue si lavò, disperdendosi tra acqua, luce e nebbia. Le gocce che cadevano dal rubinetto della doccia facevano un rumore infernale a contatto con lo smalto della base; per farle smettere, Paride mise il suo gracile corpo tra il rubinetto e il piatto della doccia. E finalmente riuscì a rilassarsi, chiudendo gli occhi. In fondo, aveva qualcosa da mangiare, perfino un lavoro e scopava con sopportabile regolarità. Raul Bova non aveva cominciato dalla gavetta? In quante biografie di attori famosi aveva letto di inizi poco nobili, tra apparizioni fulminee e morti di fame? A lui, quella sera, toccava morire. E allora? Sempre meglio della pubblicità della carta igienica o di fare la ragazza di qualche regista finocchio. O no?
La doccia e quei pensieri lo rinvigorirono. Completamente nudo, tornò in camera, ma la sagoma giaceva ancora inerme nel suo letto. Le sorrise con paterna dolcezza e scosse la testa. «Che sonno pesante, tesorino!»
Si avvicinò alla scrivania e armeggiò con la chitarra elettrica che non toccava più da tempo immemorabile. Il ritornello di Smoke on the Water, però, non si scorda mai. Pochi accordi, d’altra parte. Attaccò il jack alla chitarra, quindi all’amplificatore Marshall che aveva lì a fianco. Abbassò al minimo il volume della chitarra e mise al massimo quello dell’amplificatore. Un inquietante brusio s’impadronì della stanza. Sssszzzz... sssszzzz...
Paride fermò con le dita della mano sinistra le corde e alzò anche il volume della chitarra. Sempre con la sinistra, con estrema lentezza e attenzione a non far vibrare in anticipo le corde, piazzò le dita a mi minore.
Poi sussurrò «buongiorno, amore» e partì col primo accordo. L’onda sonora colpì, travolgente, spazzando via i fogli sulla scrivania e sollevando i capelli della donna che pure si trovava ad apprezzabile distanza. La donna, quasi nel medesimo istante, cacciò un urlo isterico e si portò le mani alle orecchie. Paride continuò il suo ritornello. Quel suono assordante, nel chiuso della stanzetta, sembrò far balzare in alto la pressione all’interno. Lei chiuse quindi gli occhi, che sentiva che stavano come per esplodere. Quando il suo corpo si riprese da quello shock sonoro, cominciò a mandare qualche timido segnale razionale. Si guardò intorno e vide l’uomo nudo, con la chitarra a tracolla, che la guardava e sorrideva, senza smettere di suonare. D’altra parte, lei non aveva ancora smesso di gridare. La vista di quella figura aumentò la sua isteria e continuò ad urlare, più forte e incontrollata di prima. Sembrava voler addirittura sovrastare il suono della chitarra elettrica. Quando l’uomo spense l’amplificatore e poggiò a terra la chitarra, la donna stava ancora urlando. Finalmente padrona del sonoro della stanza, le sue urla presero consistenza di parole, senza cedere volume e isteria. «Aaaaaaaaaah! Che cazzo faiii? Che cazzo faiii? Aaaaaah! Sei pazzo! Sei pazzo! Sei pazzo!»
Il pesante trucco, già provato dalla nottata, si era mischiato alle lacrime e aveva trasformato il volto della donna in una maschera grottesca. Le sue smorfie di dolore, rabbia e confusione completavano il suo aspetto da pazza che Paride trovava molto divertente. «Che cazzo fai? Che cazz...»
Sfinita, la donna prima diminuì il volume delle sue urla, poi - allo stremo - crollò di nuovo sul letto.
Paride corrugò le sopracciglia. Era morta davvero? «Non so come sia potuto accadere, commissario... volevo solo svegliarla con una bella canzone.»
Quando l’uomo si avvicinò al letto, constatò che non era morta. Si era raccolta le gambe in posizione fetale e respirava affannosamente, con gli occhi sbarrati.
Sussurrava qualcosa.
«Che cazzo fai? Che cazzo fai? Sei pazzo. Che cazzo fai»
Due
Ancor prima di svegliarsi, seppe che avrebbe avuto un brutto mal di testa. Un dolore acuto come una puntura di spillo si era fatto largo tra le pieghe del suo cervello. Quando il colpo delle nocche della mano di sua madre rimbombò in tutta la minuscola stanzetta, si svegliò, già pronto al peggio.
La porta si aprì di quel tanto che bastava perché il volto scavato e stanco di sua madre facesse capolino. «È tardi» aveva semplicemente sussurrato, prima di richiudere la porta.
Marzio ruotò gli occhi in una specie di macabro stretching. L’aria era appestata dal fumo di una candela che aveva tenuto accesa per quasi tutta la notte. Si alzò dal letto, lasciando la sua forma sulle coperte che non si era nemmeno disturbato di sollevare, per infilarsi sotto. Dall’alto, sembrava il morbido interno di una bara. Aprì la finestra, ma nella stanza la luminosità non cambiò molto: le pareti erano addobbate con pesanti teli neri. L’unica fonte di luce riflessa era una croce rovesciata sulla testata del letto. Il giovane la guardò con indifferenza. Era un gadget come un altro.
Il ragazzo si annusò le ascelle, arricciando il naso. Si tolse il pigiama e spruzzò sopra quella puzza una quantità considerevole di deodorante. Riprovò ad annusare: molto peggio. Quindi si guardò allo specchio. Era pallido, sì, ma non abbastanza. Si impiastricciò il viso con del cerone e si vestì, lasciando un’aura di bianco all’interno della maglietta che era venuta a contatto col suo volto, mentre si vestiva. Tocchi di cerone, perciò, mancavano dal viso. L’improvvisazione non dispiacque a Marzio; gli dava un’aria più inquietante. Soddisfatto, andò a fare colazione.
«Sono mesi che non lavori...»
Suo padre gli parlava, senza guardarlo. Marzio annuì, era vero.
«Né puoi aspettarti che qualcuno ti assuma, se vai girando conciato così.»
Il padre di Marzio, in realtà, non l’aveva nemmeno guardato da quando il ragazzo era entrato nella piccola cucina. L’uomo, ormai al suo secondo anno di pensione, aveva lo sguardo fisso sulle carte sul tavolo, impegnato in un solitario che non riusciva a terminare. Comunque non aveva bisogno di guardarlo per sapere come si era conciato. Col volto chino sul tavolo, lo sguardo cadde sulla canottiera grigio sporco, macchiata di caffè. «L’ho macchiata» disse a bassa voce, a qualcuno.
O forse all’aria.
Marzio lo fissava, cercando di attirare con lo sguardo l’attenzione del padre. Inutilmente. Quindi aprì il frigo e prese del latte; lo versò in un bicchiere, senza scaldarlo, e ne prese un lungo sorso. Era acido. Rimase nello stomaco del ragazzo lo stretto necessario per mischiarsi ai salatini ingurgitati la sera prima e non ancora completamente digeriti, prima di riprendere la strada nel verso contrario. Marzio vomitò a pressione sul pavimento.
Suo padre non alzò nemmeno gli occhi dalle carte. «Il latte è scaduto» disse solamente, a bassa