Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Mastro Titta e l'accusa del sangue: Roma 1859, un'indagine del boia papalino
Mastro Titta e l'accusa del sangue: Roma 1859, un'indagine del boia papalino
Mastro Titta e l'accusa del sangue: Roma 1859, un'indagine del boia papalino
E-book389 pagine5 ore

Mastro Titta e l'accusa del sangue: Roma 1859, un'indagine del boia papalino

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Roma gennaio 1869: Giambattista Bugatti detta le sue memorie allo scrittore Ernesto Mezzabotta. Roma, inverno 1859. La scomparsa di un neonato, figlio di un ufficiale francese, fa temere un nuovo “caso Mortara”. Il bambino, infatti, nato ebreo, è stato sottoposto a un “battesimo forzato” dalla sua balia. Rapito, dunque, dai gendarmi pontifici e condotto nella casa dei catecumeni perché venga allevato nella fede cristiana? Siamo nel momento più delicato in cui si sta decidendo l’alleanza franco-piemontese contro l’Austria, che c’entri, quindi, la “longa manus” di una delle due potenze, prossime alleate, per screditare lo stato pontificio affinché Napoleone III possa schierarsi senza suscitare le ire e lo sdegno dei cattolici europei? Oppure, si tratta, più semplicemente, della fuga della giovane nutrice proprio per sottrarre il neonato alle “grinfie” pontificie? Ma quando il bambino e la balia verranno trovati trucidati, omicidi ai quali ne seguiranno altri, a quelle prime ipotesi se ne dovranno aggiungere altre. Gelosia? Oppure si deve dar credito a “l’accusa del sangue”, il mito secondo il quale gli ebrei userebbero il sangue dei bambini cristiani per scopi rituali? O le ragioni di quel “furore assassino”, risiedono altrove? Anche in questo caso Giambattista Bugatti, Mastro Titta, il famoso boia papalino, e i suoi due amici, Amilcare Laudadio, ispettore di polizia di Borgo, e Giuseppe Marocco d’Imola, poeta e tornitore, sono coinvolti per sciogliere il mistero. Il nuovo avvincente romanzo di un autore che sta portando alla ribalta una Roma ottocentesca sconosciuta, buia, sporca, puzzolente e addormentata, ma assolutamente fascinosa, incantevole e seducente.

Nicola Verde è nato a Succivo (CE) il primo marzo 1951, è sposato e ha un figlio; vive a Roma. Vincitore di alcuni prestigiosi premi dedicati al giallo, alla fantascienza e al fantastico, è presente in numerosissime antologie (Giallo Mondadori, Hobby & Work, Del Vecchio, Perdisa, Dario Flaccovio, Robin, Fratelli Frilli, Delos ecc.). Ha pubblicato i seguenti romanzi: Sa morte secada, (Dario Flaccovio ed. 2004; Delos Digital 2015; Fratelli Frilli Editori ed. 2020), prefazione di Luigi Bernardi, semifinalista al premio Scerbanenco; Un’altra verità, (Dario Flaccovio ed. 2007), prefazione di Marcello Fois, vincitore del premio Qualità editori indipendenti; Le segrete vie del maestrale, (Hobby & Work 2008), prefazione di Ben Pastor, finalista al Festival Mediterraneo del giallo e del noir. La sconosciuta del lago, (Hobby & Work 2011), liberamente ispirato al caso di Antonietta Longo, la decapitata di Castelgandolfo; Il romanzo è stato vincitore della sezione romanzi storici al Festival Mediterraneo del giallo e del noir. Verità imperfette (Del Vecchio 2014), “romanzo noir a più mani a incastri multipli”; Il marchio della bestia (Parallelo45 2017), quarto romanzo della “serie sarda”; Il vangelo del boia (Newton Compton 2017) già finalista al premio Tedeschi, è stato semifinalista allo Scerbanenco e finalista al premio Acqui Storia 2018, sezione romanzi storici.
LinguaItaliano
Data di uscita24 feb 2021
ISBN9788869435140
Mastro Titta e l'accusa del sangue: Roma 1859, un'indagine del boia papalino

Leggi altro di Nicola Verde

Correlato a Mastro Titta e l'accusa del sangue

Ebook correlati

Narrativa religiosa per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Mastro Titta e l'accusa del sangue

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Mastro Titta e l'accusa del sangue - Nicola Verde

    1

    MASSIMO TAPARELLI MARCHESE D’AZEGLIO È A ROMA INVIATO DAL RE VITTORIO EMANUELE

    Roma, 6 marzo 1859

    Non mi aspettavo di doverti scrivere da Roma e neppur tu, di certo, l’aspettavi. Tant’è siamo in tempi ove a sapere dove si sarà l’indomani non è facile.

    Sono dunque venuto qui a portare l’Ordine dell’Annunziata al principe di Galles. Mi ricevette ieri; gli feci il mio speech: me ne rispose un altro, tutto di complimenti, da sovrano a sovrano, com’era stato il mio, e niente politica...

    Niente politica... Massimo Taparelli marchese d’Azeglio rimase con il lapis sollevato: niente politica specialmente in una lettera, con il rischio che la polizia pontificia la intercettasse. Scrollò la testa. Poi tornò a ripiegarla.

    Il lapis riprese a stridere sul foglio.

    Di politica non ti parlo, perché non ci capisco più niente. Je me fais vieux, e dico come don Bartolo: «La musica ai miei tempi era un’altra cosa!». Qualche gran buscherio vuol succedere: ecco tutto quello che so vedere.

    Qui si vive al solito modo della città eterna; e chi ha visto Roma vent’anni fa, la trova tal e quale.

    Tornò a riflettere su quanto aveva appena scritto: considerò se proseguire su quel tono e quanto la polizia, nel caso fosse venuta in possesso di quello scritto – e di questo non dubitava – avrebbe avuto da ridire. Riprese il filo dei suoi pensieri, metterli sulla carta lo avrebbe quantomeno scaricato della tensione di quei giorni. Quindi proseguì:

    Neppure il rapimento del piccolo Edgardo Mortara da parte dei gendarmi pontifici è sembrato scuoterla, ma è accaduto a Bologna, una città lontana, e forse al popolo romano ne sarà giunta una eco sbiadita, chissà, però, se un fatto simile accadesse all’interno di queste mura i romani magari ne prenderebbero altra coscienza...

    Ancora una volta s’interruppe. Forse stava andando al di là di quanto gli era concesso. Posò il lapis. Che poteva scrivere a una moglie in apprensione? Sarebbe bastato dirle che era stato inviato a Roma dal re soltanto per consegnare una onorificenza? Conoscendolo non gli avrebbe creduto. Avrebbe supposto chissà quali incarichi. E lui, in effetti, un incarico ufficioso ce lo aveva: quello di sondare gli umori dei romani. E non solo. Scoprire se c’erano iniziative del Comitato Nazionale Romano che avrebbero potuto danneggiare le politiche del sovrano piemontese: Roma doveva starsene tranquilla ancora per un po’.

    Nei giorni precedenti aveva incontrato appartenenti alle fazioni pro e contro il papa, Guelfi e Ghibellini, e di entrambe aveva raccolto gli umori e le speranze.

    Appena arrivato a Roma, era stato invitato in una casa che si diceva appartenesse al partito antipapista, dove s’erano fatti discorsi che potevano considerarsi pericolosi. Ma non c’era da fidarsi troppo, aveva imparato che a volte ci si dichiarava tali soltanto per snidare chi lo era per davvero. Giochi e contro-giochi in una partita a scacchi tra spie e contro-spie: Roma, d’altronde, era risaputo quanto fosse piena di soffioni, come nella città eterna venivano chiamate le spie.

    E di voltagabbana.

    Banderuole capaci d’invertire rotta al primo alito di vento. Come quando nel ’48 Pio IX lasciò la città in fretta e furia vestito da prete di campagna. Allora molte finestre e porte di case patrizie s’erano spalancate alla novità che si profilava, salvo richiudersi prontamente, con sospetta, quanto provvida, tempestività, quando le voci di un possibile ritorno del papa s’erano fatte consistenti. Magicamente tornati fervidi papalini all’improvviso.

    Quanto al segretario di Stato, cardinale Antonelli, che aveva più volte incontrato, lo considerava un uomo rozzo, gretto, rapace, amante del lusso, non troppo intelligente, forse persino in combutta con certi banditi di Sonnino (con i quali, per altro, si diceva fosse imparentato). Ma di sicuro furbo. Qualcuno gli aveva addirittura confidato che avesse delle responsabilità nei disordini del ’48 che sfociarono con la fuga di Pio IX. Ma su questo non ci avrebbe giurato. Lo considerava, comunque, dotato di una strana lungimiranza che lo rendeva cauto nelle decisioni, conscio della fine ineluttabile del potere temporale della Chiesa, aveva affinato le sue tecniche dilatorie fino ad apparire un uomo scaltro e prudente.

    E il popolo? Il popolo aspettava. Disilluso. Per non rischiare di trovarsi un’altra volta con porte e finestre sprangate.

    Roma e i romani non erano ancora pronti.

    Questo avrebbe detto al conte Cavour e al re Vittorio Emanuele quando sarebbe rientrato a Torino.

    Ma non adesso, non per iscritto. No. Non a sua moglie, comunque. Troppo grosso il rischio di un controllo poliziesco.

    Si alzò dallo scrittoio con un movimento brusco, tanto che la ferita al ginocchio destro – una palla di fucile austriaca rimediata durante l’assedio di Vicenza del ’48 – si risvegliò con una fitta; barcollò e si aggrappò alla spalliera della sedia, si massaggiò la parte sofferente fin quando il dolore non si attenuò: aveva voglia di fumare un sigaro. Cercò nei cassetti dello scrittoio, ma non ne trovò: si consolò pensando che sarebbe stata un’ottima scusa per uscire.

    Appallottolò il foglio che stava scrivendo e lo gettò nel cestino sotto la scrivania. Sciolse il nodo della vestaglia da camera e finì di vestirsi. S’affacciò alla finestra che dava su via de’ Condotti: non sembrava esserci molto movimento, ma la cosa non gli dispiaceva, anzi, il fatto che il carnevale fosse finalmente finito, (le strade erano ancora ingombre di ciarpame: trombette, maschere, stracci di ogni tipo, ricoperte di coriandoli, di polvere di gesso, di euforbio e farina di mughetto e, soprattutto, di sterco di cavalli) la fine del periodo carnevalesco, insomma, con tutta la sua confusione, gli scherzi e le battute triviali, lo rasserenava. Del carnevale romano, infatti, non aveva buoni ricordi che risalivano al tempo della Repubblica romana, l’ultima volta che era venuto a Roma.

    Scese in strada e prese per il corso, meravigliandosi che all’ingresso non ci fossero in agguato i soliti famigli per la busca, la mancia regolata persino dalle leggi e che gli faceva considerare quanto davvero in quella città tutto si risolvesse in papetti e scudi, così come aveva dichiarato padre Antonio Bresciani, il quale, essendo gesuita, di quel malcostume doveva saperne molto.

    Il tempo era umido, anche se non troppo freddo, e la leggera zoppia gli s’era accentuata facendogli attardare il passo, questo gli permise di notare l’uomo, vestito da becchino che, non appena era uscito dal portone di palazzo Lepri, gli si era messo alle calcagna con una disinvoltura così studiata da farlo sorridere: sapeva bene come gli sbirri papalini non lo mollassero di un passo da quando aveva messo piede in città. Quello che non aveva notato erano le due ombre che, uscite da un androne dove parevano aspettarlo, erano subito scivolate all’interno del palazzo.

    All’angolo con il corso, un foglio affisso su un muro attirò la sua attenzione.

    Chi fuma prende tabacco

    e gioca al lotto

    la mattina è vivo

    la sera è morto.

    Sul momento gli venne da pensare che si trattasse di una pasquinata, ma poi considerò che non era quello il luogo deputato e neppure i toni corrispondevano; di solito quei libelli erano indirizzati al governo, in questo caso, invece, quel verso mirava a incutere timore nella popolazione. Poi si ricordò del cosiddetto sciopero del fumo. Non era la prima volta che si ricorreva a esso per minacciare il potere, andandogli a toccare gli introiti delle tasse: a Milano, nel ‘48, la repressione era stata sanguinosa; a Roma, nel ’51, si era svolta in modo piuttosto tranquillo, ma non si poteva mai sapere.

    Comunque il tono minaccioso dell’avviso, di sicuro del Comitato Nazionale Romano, sembrava aver ottenuto il suo risultato: in giro non si vedevano fumatori né venditori ambulanti di sigari. Un contrattempo piuttosto seccante che gli impediva la solita fumatina preparatoria al pranzo, anche se, stavolta, doveva riconoscerlo, le pietanze della locanda Spillmann non avevano bisogno di riti preparatori.

    Tornò indietro. In fondo alla via s’intravedeva la scalinata di Trinità dei Monti, si chiese se non fosse il caso di fare una scappata da quelle parti alla ricerca di un modello che andasse bene per quel quadro che aveva intenzione di dipingere: il dio Pan che insidiava alcune ninfe. L’idea gli era venuta nell’attraversare la campagna romana, malarica e pervasa di una solitudine struggente. L’inferno in Terra. Un inferno pagano.

    Bighellonò per un po’ ai piedi della scalinata, senza che una sola delle figure che gli si avvicinarono sollecitasse la sua ispirazione: né il dio Pan, insomma, né le ninfe tentatrici; di contro riconobbe un vecchio ritratto in troppi quadri, dal pellegrino al mendicante: se ne stava in posa come aspettasse la convocazione del prossimo pittore.

    Scansò con educazione le avances delle curiali (alcune delle quali ebbero la sfacciataggine di proporgli foto di sé completamente nude). Poi fece una capatina nella libreria Spithover per acquistare un libro che aveva intravisto in vetrina. Al caffè Alla Barcaccia c’era parecchia gente per il caffè di mezza mattinata: per quanto lo riguardava, avendo provato la novità della vacuum, già in uso presso alcune caffetterie di Torino, (una specie di alambicco che trasudava un caffè senza fondi), e quello prodotto in via sperimentale da una strana macchina a vapore dalle molte serpentine, alquanto complicata e pericolosa, ma che produceva un ottimo distillato di caffè, e in casa quello della cuccumella, cominciava a trovare disgustosa quella bevanda ottenuta per semplice infusione.

    Quando si decise a tornare indietro, era quasi l’ora di pranzo, quindi, con gran fatica, cercò di affrettare il passo. E poi gli era tornato in mente dove avrebbe trovato un mezzo sigaro, acceso durante il viaggio e non fumato per intero.

    Giunto davanti a palazzo Lepri, non badò alle due figure che toccandosi la punta della bombetta lo salutarono sul portone; mentre, invece, lanciò un’occhiata divertita all’uomo vestito da becchino che continuava a tallonarlo.

    In camera frugò nelle tasche del paletot usato per il viaggio e vi trovò, come sperava, una scatolina di sigari con un solo fermentato forte bruciacchiato: sfregò uno zolfanello, lo accese e lo accostò alla punta del sigaro cominciando a scaldarla con cauta progressione, facendo roteare il tubo e aspirando qualche boccata: aveva un’espressione di grande soddisfazione dipinta in volto.

    Si ricordò della lettera indirizzata alla moglie che aveva cominciato a scrivere e la cercò con gli occhi: ma il cestino dove l’aveva gettata era vuoto. Non se ne preoccupò, convinto che la cameriera fosse già passata per le pulizie giornaliere: d’altronde la locanda Spillmann, era una delle più rinomate di Roma. E tra le più costose: il suo governo, per quella sistemazione, pagava ben 180 scudi al mese, che a Roma equivalevano più o meno allo stipendio di un anno di un medio impiegato.

    Avrebbe ripreso a scrivere quella lettera più tardi, subito dopo aver pranzato, in fondo i concetti li aveva tutti ben in testa, persino più chiari.

    Con tranquillità finì il sigaro, poi si decise a scendere per raggiungere la sala dove sarebbe stato servito il pranzo.

    2

    AMELIA CORVARO SI PREPARA ALLA FUGA

    Amelia sollevò il bambino da quella specie di bigoncio da frutta che usava per portarlo a spasso, e con gesti misurati cominciò a prepararlo come se dovesse uscire per la solita passeggiata mattutina: lo avvoltolò stretto stretto in fasce di lino, acconciandolo come una pupattola, o una mummia, lasciandogli scoperta la sola faccia. In testa una cuffia di lana; poi una copertina a coprirlo perché non prendesse freddo; al collo gli pose un fascio di catenelle d’argento con una ciambelletta d’avorio da potergli prontamente ficcare in bocca al primo segnale di pianto. A quel punto si girò verso l’altra donna, come a chiedere l’autorizzazione a proseguire, ma quella era rimasta impassibile, abulica, quasi che la cosa non la riguardasse. Amelia, per niente scoraggiata, sollevò le spalle in un gesto di indifferenza e alle catenelle legò un cornetto di corallo e un campanellino d’argento, oggetti che avrebbero dovuto difendere il bambino dal malocchio e, per finire, un ciuffo di peli di tasso per tenere lontane le streghe.

    Disse all’altra donna che quel giorno sarebbero andati al Pincio con una carrozza pubblica e che perciò aveva bisogno di un po’ di denaro. L’altra non replicò, mentre guardava quel suo operare con fare distratto, come se Amelia stesse fasciando un bambino estraneo e non suo figlio. Gesti rapidi, esperti che lei non avrebbe saputo imitare; nell’osservarli teneva la testa leggermente reclinata su una spalla, senza sorridere.

    Amelia si girò verso di lei.

    «Mi avete compreso?», la voce aspra. «Ho bisogno che mi diate un po’ di denaro».

    L’altra si riprese con un gesto secco della testa. Borbottò qualcosa nella sua lingua e Amelia le rispose nella sua che le bastavano pochi spiccioli: non voleva allarmarla. Quella finalmente si mosse e andò nell’altra stanza, quando ritornò aveva in mano un borsellino da cui trasse alcuni baiocchi che le consegnò: erano più di quelli che ad Amelia sarebbero serviti per un semplice giro in carrozza, pochi per quello che aveva in mente di fare, ma li intascò senza battere ciglio sotto lo sguardo vigile dell’altra donna: si chiedeva se avesse compreso le sue intenzioni. Nel caso, perché la lasciava andare senza opporsi? Di quel bambino, dunque, non le importava proprio nulla?

    Se lo portò al petto cullandolo.

    «Povero bambino... povero Charles!», mormorò, trattenendo a fatica le lacrime, mentre l’altra continuava a rimanersene in disparte senza intervenire.

    Amelia le avvicinò il bambino con l’intenzione di farglielo baciare. Ma quella sembrava non comprendere l’invito e, impassibile, tirò indietro la testa, come se quella faccina, grande poco più di un pugno, le facesse ribrezzo.

    Amelia non si scompose: ritrasse il bambino riportandoselo al petto.

    Era un neonato di poche settimane, non più di un paio di mesi. Aveva sofferto molto nel venire al mondo, era già abituato al dolore per questo adesso non piangeva, quasi fosse conscio della situazione: teneva soltanto gli occhioni spalancati che Amelia baciò con dolcezza.

    Doveva muoversi in fretta, prima che il marito dell’altra donna rientrasse, altrimenti non avrebbe avuto scampo. S’era informata, seppure vagamente, su dove e come imbarcarsi: i porti di Ripa Grande e Ripetta rappresentavano l’unica via di fuga, quanto a come sfuggire alle maglie degli inevitabili controlli, sapeva a chi rivolgersi ed era proprio da lui che adesso aveva intenzione di andare.

    Quando stava per uscire di casa, si ricordò dell’anellino che conservava in una scatolina di cioccolatini; era un semplice cerchietto con un pezzetto di vetro incastonato, non aveva nessun valore, ma considerò che per quello che avrebbe dovuto fare le sarebbe tornato utile. Lo prese, lo rimirò per un momento provando una strana sensazione di vuoto; se lo infilò rapidamente, prima che quell’emozione rischiasse di travolgerla.

    Uscì col bambino in braccio e si diresse con passo sicuro verso via del Campanile: la bottega da ombrellaio di Giambattista Bugatti era proprio all’angolo con Borgo Nuovo.

    Benché abitasse a pochi passi, Bugatti non lo conosceva personalmente, anche se le era capitato spesso di assistere alle sue esecuzioni. Era uno spettacolo a cui, come tutti, partecipava volentieri, con un sottile e perverso piacere di cui inizialmente s’era vergognata, ma al quale s’era presto abituata, perché a tutto si fa l’abitudine, persino alla morte. E poi c’era quello spasmo che ogni volta le contraeva lo stomaco al fruscio della lama che scendeva e che la faceva sentire viva e, soprattutto, benedetta, toccata dalla grazia dello Spirito Santo che l’aveva preservata dalla cattiva sorte. Sapeva che era così per tutti e questo mitigava in qualche modo il suo senso di colpa.

    Il boia, in quei frangenti, le appariva come una antica divinità pagana, un gigante simile a un Golia di sei cubiti e un palmo, sebbene superasse a malapena i tre bracci. Tutt’attorno calava un silenzio sacrale: il pubblico si zittiva e in quelle teste arruffate, sporche e pidocchiose, il fiato freddo e fetido della morte sembrava scompigliarne i pensieri, mentre le bocche si chiudevano al respiro. Soltanto quando quel macabro spettacolo raggiungeva il suo apice con l’esposizione delle teste mozzate, l’aria tornava a fremere, a riempire i polmoni dei presenti, dopo una sospensione di respiro troppo a lungo trattenuto, e le bocche a macinar parole e i cuori a battere, così che quel fremito, piano piano, tornava a essere il ritmo normale della vita, come se l’incanto di una magia maligna si fosse d’improvviso rotto. E la piazza tornava ad animarsi: i sigarai a offrire sigari e tabacco, i nummerattari e i riffaroli a proporre numeri vincenti al lotto, coi ladruncoli che saltabeccavano da una saccoccia a un’altra, tutti a sgomitare e a strillare, mentre gli spettatori sfollavano soddisfatti, mangiando bruscolini e fusaje, sputacchiandone le cocce, coi loro commenti che si perdevano nell’affievolirsi delle voci.

    Soltanto a quel punto lo spettacolo era davvero finito!

    E il Maestro di giustizia, il dio pagano che governava la morte, riprendeva le sue sembianze umane: con umiltà si piegava sulle ginocchia e con un secchio d’acqua ripuliva il palco, per poi smontarlo pezzo dopo pezzo sotto l’attenta sorveglianza dei dragoni

    Nell’aria ristagnava un disgustoso odore di mattanza, denso e appiccicoso.

    E il sipario, finalmente, calava malinconico.

    L’ultima esecuzione a cui Amelia aveva assistito risaliva al 2 marzo precedente; il condannato era un certo Giovanni Cosinia, reo di aver massacrato a colpi di bastone una donna. Quella volta, quando aveva visto quell’uomo tremare e implorare il perdono, mentre sulla patta dei pantaloni gli si allargava una macchia di piscio, aveva provato una piacevole sensazione di vendetta; si diceva che persino Mastro Titta nell’occasione avesse compiuto la sua opera con particolare soddisfazione e, per la prima volta, non aveva offerto al condannato la solita presa di tabacco.

    Quando si ritrovò davanti alla bottega dell’ombrellaio, Amelia aveva ancora l’immagine della testa di Cosinia conficcata nella picca.

    3

    GIAMBATTISTA BUGATTI VEDE DAVANTI ALLA SUA BOTTEGA UNA GIOVANE DONNA CON IN BRACCIO UN BAMBINO IN FASCE

    Quando emerse dal buco del pavimento dove teneva il bugliolo, Giambattista Bugatti ebbe appena il tempo d’intravedere sulla soglia la ragazza con un fagottino in braccio: la luce la investiva da dietro illuminandola e stagliandola contro l’ingresso come una figura a sbalzo della Madonna col bambino, ma non appena ritirò su gli occhi, dopo aver riabbassato il coperchio della botola, Titta si accorse che la ragazza era scomparsa.

    Scosse la testa sorpreso, per un momento ebbe addirittura il sospetto di essersela immaginata. «Tutta colpa delle trippe mangiate ieri sera», si lamentò.

    Quella giovane la conosceva di vista: era la fantesca di un ufficiale francese che prestava servizio nella caserma Serristori, dove alloggiava assieme alla famiglia, e il frugoletto che la ragazza teneva in braccio doveva essere il figlio dell’ufficiale. Si chiese se in bottega avesse ombrelli da riparare che appartenessero a quella ragazza oppure al francese, ma non gli pareva di ricordarne.

    L’irrompere improvviso di Giuseppe Marocco d’Imola lo riportò bruscamente alla realtà facendolo sobbalzare: l’amico, nell’entrare, aveva inciampato con gran fragore in uno sgabello.

    «Avete colpe da farvi perdonare?», fece Giuseppe celiando con un mezzo sorriso, mentre riprendeva l’equilibrio con un saltello.

    «Io?», abbozzò Titta sorpreso.

    «Voi, voi», ribatté Giuseppe indicandolo con un dito, mentre si assestava su una piccola seggiola impagliata, la solita dove prendevano posto gli ospiti dell’ombrellaio. «Vi tenete i calzoni con una faccia che sembra ve li siate appena calati davanti a una donna, cosa che, in confidenza, non credo sia possibile», ridendo forte.

    Tra i due esisteva un’amicizia che risaliva al 1804, l’anno in cui Pio VII incoronava imperatore Napoleone: Giuseppe Marocco d’Imola aveva allora ventun anni e la presunzione di essere un poeta e memorialista; Giambattista Bugatti ventiquattro e poca propensione a essere già oggetto di memorie. Poi erano invecchiati insieme ed era soltanto in virtù di questo che Giuseppe poteva permettersi libertà che ad altri non erano concesse.

    «Trippe e lavoro», ribatté serio Bugatti, nel portarsi dietro al deschetto; con fare svagato prese a giocherellare con alcuni arnesi da lavoro.

    «È per il troppo lavoro che continuate a sistemare i vostri attrezzi spostandoli da un angolo all’altro del tavolo?», lo canzonò Giuseppe notando quel suo trafficare senza strutto. «Vi vedo troppo distratto».

    Mastro Titta sembrò accusare il colpo e interruppe di botto quel suo vuoto affaccendarsi. Non s’era ancora seduto e continuava a lanciare occhiate aggrottate in direzione dell’ingresso.

    «Qualcosa non va?», fece l’amico intercettando quegli sguardi.

    L’altro scrollò le spalle.

    «Niente», disse, sistemandosi finalmente anche lui sullo sgabello dove lavorava. Poi prese un ombrello e parve volerne saggiare il manico; allungò una mano verso il barattolo della cera con l’intenzione, forse, di intingervi un pennello. Ma sembrava svogliato. Riposò tutto.

    «Mi preoccupate», interloquì Giuseppe, tornato finalmente serio, «non è che di solito facciate salti di gioia nel vedermi, ma stavolta...».

    Lui non rispose: poggiò le mani sulle ginocchia e fece l’atto di alzarsi; ma l’indolenza lo fece rinunciare.

    «È per quella ragazza», si decise alla fine, mentre ricadeva seduto.

    «Quale ragazza?».

    «Quella che è uscita poco prima che entraste voi... anzi, che non è entrata, ma che sembrava volesse farlo, ha dato un’occhiata dentro, come se cercasse qualcosa... o qualcuno, poi è andata via. Aveva un bambino in braccio, non l’avete vista?».

    «No», fece l’amico, e poi ridacchiando: «Forse cercava me».

    «Non illudetevi, io e voi siamo ormai fuori gioco».

    «Voi di sicuro...», ma, poi, osservando lo sguardo in tralice dell’amico, abbandonò il tono scherzoso e continuò: «Se non voi o... me, chi? Ne avete idea?».

    L’ombrellaio sospirò con un attimo di ritardo, come se avesse voluto recuperare la calma che per un momento lo aveva abbandonato. Si passò una mano sulla faccia, che sebbene possedesse lineamenti grossolani, era ben rasata (tant’è che in giro si diceva che ce l’avesse liscia come il culetto di un bambino) con le fedine, folte e ricciute che gli attraversavano le guance ben curate.

    «Una mezza idea ce l’avrei», proruppe alla fine, alzandosi di nuovo in piedi.

    «Ah! E chi sarebbe?».

    «Il nostro amico comune: Amilcare Laudadio. È un giovane dalle... ehm... molte frequentazioni femminili...»

    «Voi pensate...»

    «Sinceramente non so che pensare, ma quella ragazza m’è sembrata preoccupata».

    «La conoscete?».

    «Sì, si chiama Amelia Corvaro e lavora come domestica presso un ufficiale francese».

    «Magari pure ebreo», borbottò Giuseppe con un pizzico di amara ironia.

    «Sì, credo di sì... ma lo sapete bene, certi divieti qui a Roma lasciano il tempo che trovano: quante servette cristiane per fame lavorano presso famiglie ebree benestanti».

    «Non molte a dire il vero, che di ebrei benestanti...», constatò l’amico, «ma vi do ragione, qualcuna c’è, se non altro per accendergli il fuoco il sabato, quando a loro non è permesso... dicevate che aveva un’aria che vi sembrava preoccupata».

    «È vero, era come se...»

    «Come se?»

    Mastro Titta scrollò la testa.

    «Avete detto che aveva in braccio un bambino», riprese Giuseppe Marocco, «non è che cercasse Amilcare proprio per quel regalino?».

    Titta tornò a scrollare la testa.

    «No, quel bambino è il figlio dell’ufficiale francese».

    «E allora? Non è che vi state preoccupando per niente?».

    Il vecchio boia sollevò lo sguardo e lo puntò sull’amico, rimase in silenzio per qualche secondo, poi, dandosi un colpetto sulla coscia, proruppe, «Ma sì, forse avete ragione, mi sto immaginando tutto».

    Giuseppe Marocco non rispose subito, poi, ridendo, esclamò:

    «Certo che ne avete di fantasia. Vabbè», concluse dopo un po’, alzandosi dalla seggiola, «sia quel che sia, io ero venuto perché si andasse assieme a mangiare un boccone. Se non avete particolari pregiudizi, potremmo andare alla locanda di un giudìo, una brava persona, uno dei pochi che ha avuto il coraggio di rimanere fuori dalla recinzione del Ghetto, dietro regolare autorizzazione, con una sua attività dopo che la segregazione è stata ripristinata: carciofi fritti e baccalà e, se vi va, pure un’ottima amatriciana!».

    Mastro Titta storse la bocca.

    «Voi mi scuserete, ma oggi proprio non mi sento», strofinandosi la pancia che aveva piuttosto prominente.

    «E che fa», propose tutto allegro Giuseppe, «vorrà dire che voi mangerete alla milanese!».

    «E cioè?», fece Titta incuriosito.

    «Maccheroni con un filo d’olio e una buona grattata di parmigiano e pepe, sanno fare buoni pure quelli!».

    In verità sarebbe stato come mangiare dai maccheronari agli angoli delle strade, ma questo Giuseppe non glielo disse.

    4

    AMELIA CORVARO DECIDE DI RECARSI AL PORTO DI RIPETTA

    Le era bastata un’occhiata per rendersi conto che nella bottega dell’ombrellaio non c’era nessuno e quando aveva visto sollevarsi la botola dove sapeva che Bugatti teneva il bugliolo, Amelia aveva preferito andarsene. Non voleva incontrare quell’uomo basso e tarchiato che, tutto sommato, le faceva paura, non era di lui che aveva bisogno, ma del suo amico che, purtroppo, non c’era benché sapesse che in quella bottega ci andasse quasi ogni giorno. Pazienza, s’era detta, ne avrebbe fatto a meno, oppure, aveva considerato, avrebbe provato a cercarlo in un altro momento, anche se era perfettamente consapevole che, quasi sicuramente, non ce ne sarebbero stati altri.

    All’incrocio con Borgo Nuovo, rimase per un momento indecisa: da una parte c’era piazza Scossacavalli con la caserma Serristori, dall’altra, in fondo allo stradone, s’intravedeva in tutta la sua possanza il Mausoleo di Adriano.

    Madonna mia, disse fra sé, dammi la forza. So di non meritare la Tua misericordia, ma aiuta questo bambino che stringo fra le braccia, è un’anima innocente che, adesso, Ti appartiene pienamente, baciandolo sulla fronte.

    Poi, come prendendo coscienza di quanto fosse sconveniente la richiesta che aveva appena formulato, con un segno di croce cercò di scacciare il pensiero: poteva la Madonna aiutarla in quella fuga che avrebbe portato Charles lontano dalle amorevoli braccia della Chiesa?... amorevoli...? Quelle della Chiesa senz’altro, ma dubitava che lo fossero quelle dei suoi ministri, ed era da loro che fuggiva e questo la Madonna, ne era sicura, lo avrebbe compreso.

    Tornò a segnarsi e con un sospiro s’avviò in direzione di Castel Sant’Angelo; superato il ponte omonimo, imboccò risoluta via di Tor di Nona. Ma era una risolutezza che, in realtà, non provava, in preda com’era a mille dubbi, mille paure e mille tormenti.

    Per ottenere il passaporto aveva bisogno che il suo parroco le rilasciasse il certificato di buona condotta che, però, considerato il suo comportamento non proprio cristallino, sarebbe stato quasi impossibile ottenere; così aveva cercato di aggirare l’ostacolo approcciando il curato per via indiretta, attraverso un altro prete a sua volta sollecitato da qualcuno che gli era vicino e che lei conosceva abbastanza bene. Una specie di catena mediatrice che faceva affidamento su una vagheggiata mutua assistenza tra parroci. Ma l’uomo a cui si era rivolta si era rifiutato di aiutarla, costringendola a rivedere i propri piani.

    Sconfortata

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1