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60 milioni di carezze
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E-book115 pagine1 ora

60 milioni di carezze

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Info su questo ebook

Opera prima di Norine Mc Parloth, questi racconti propongono le vicende pandemiche in un non meglio identificato borgo ligure nel 1657, nel 2019/20 e nel 3016.

Protagonisti e antagonisti sono gli uomini e i virus che riconoscono le colpe della loro specie e tentano di opporsi al destino nefasto praticando amore, ribellione ed eresia.

Il finale sorprende e commuove.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2020
ISBN9791220308663
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    60 milioni di carezze - Norine Mcparloth

    carezze.

    Vitis vinifera

    ¹.

    I luoghi hanno senso, destino e voce, sono intrisi di odori e luce, partoriscono donne, uomini, piante e insetti.

    Essi nascono quando terra, sassi, fiori e alberi sono in attesa che il nastro si srotoli in esistenze, gioie, sofferenze con lo stesso sapore dell’aria che le avvolge e protegge.

    Come ogni vivente è irripetibile incastro di occhi, cervello, pelle e carattere, tutti gli angoli della terra possiedono un marchio di fabbrica, un puzzle di vento, pietre, piante, orizzonti unici.

    In un lembo di Liguria assemblato con tessere perfette e lucenti di sole, salmastro, ulivo, alloro ed erica è addossato al muretto a secco della cadente torre saracena un antico ceppo di Vitis vinifera, in attesa.

    Primordiale archetipo di storie singolari di lotta, malattia e resistenza è pronto a raccontarle in queste pagine.

    ___________________

    ¹ Vite comune o vite euroasiatica, arbusto rampicante della famiglia Vitaceae.

    I°ANNO 1657

    Parole vegetali di peste.

    L’acqua nella fontana di pietra era ferma, in attesa, anche l’aria lo era, nel silenzio scuro che non conosceva alito di vento né voce.

    Dal mare saliva un fremito che faceva paura e seccava il pensiero in cupo presentimento.

    Sentivo lo stesso tremore nei miei pampini e nei secchi filamenti della corteccia, s’insinuava nelle fessure tra le pietre del torrione saraceno eretto sul costone di ponente alle spalle della baia, con me i sassi osservano e vigilano la vita in basso, ai nostri piedi: il rio che si sfoga in cascata marina, i contorti vigneti miei figli ricchi di umori alcolici e produttivi, le colture, gli olivi, le cinciallegre e le lucertole.

    Mi chiamo Vitis viniferae, l’animo mio ha la struttura legnosa e fibrosa del ceppo antico, ma non è freddo e, travagliato da acuto dolore, sente il bisogno di raccontare ciò che accadde in tempi lontani.

    In queste pagine leggerete la mia voce vegetale.

    Povero il borgo e povere le persone che lo abitavano, ricche delle loro mani industriose di pesca oltre la scogliera e vitigni sopra il dirupo.

    Nei mesi precedenti avevo visto gli annunci e i segni premonitori della peste: un terremoto, un’eclissi e una cometa così come l’aumento dei topi e delle rane per le strade del paese. Poi ho osservato i giochi dei bambini che avevano messo in scena un funerale, era un macabro presagio che annunciava l’avvicinarsi dell’epidemia.

    L’ala funesta della morte sfiorava gli uomini da giorni, essi ruminavano pensieri piccoli e cattivi, schivavano ogni incontro, additavano sospetti. Gli sguardi dietro alle finestre sprangate scambiavano i disgraziati di passaggio per untori malvagi.

    «Mala tempora currunt - cantilenava il frate nel vicolo stretto e lastricato – Curruuunt. Non abbandonate la vostra dimoraaaaaa!».

    Sulle pietre della piazza protesa sullo strapiombo costiero rotolavano insolenti e aggressive le ruote dei carri dei morti in mostra sfacciata e puzzolente.

    Lo scampanio tagliente anticipava il grido dei monatti, le porte svelavano il buio interno e sputavano cadaveri.

    Ferite di bubboni e croste spaccavano la vita, s’aprivano alla fine.

    Nello spazio vuoto dello slargo in cima al borgo, l’oscurità della sera novembrina era interrotta da lumi e balenii in cammino, accompagnata da cupi versi di gabbiani reali.

    Il silenzio denso di macaia² e peste accoglieva strascicati echi, il vuoto si allargava in tonfi cadenzati di passi sincroni e faticosi.

    Lentamente la processione trovava la sua strada e saliva alla pieve di San Francesco, a ponente i ruderi del tor-rione saraceno erano ombre informi che facevano rabbrividire.

    «Requiem aeternam dona eis Domineeeeeee».

    Era la preghiera sussurrata dentro allo scialle nero di Felicina, le spalle curve erano testimoni di quarant’anni nei campi e tra i filari di Vigna del mare, dei cinque figli messi al mondo, due già rubati dall’epidemia, così come il marito.

    Nel giro di pochi giorni la povera donna aveva visto il morbo insorgere violento con febbre alta, grave debolezza e vomito, aveva curato i suoi cari finché il delirio e la morte avevano vinto.

    «Requiem aeternam dona eis Domineeee».

    Le rispondeva la voce tremante della piccola Romilda, la caganio³ che teneva per mano.

    «Requiem aeternam dona eis Domine».

    Il rimpallo di implorazioni era regolare e piangente.

    «Et lux perpetua luceat eis eissss».

    «Et lux perpetua luceat eis eiii».

    La bambina non aveva bisogno di ascoltare, tanto la madre aveva recitato e fatto ripetere l’implorazione per i suoi due fratelli e per il padre che se n’erano andati in cielo.

    «Requiescant in pace».

    I piedi nudi della piccola rubavano il gelo della terra, i suoi occhi quello dei cuori intorno a lei.

    «Paceeee».

    «Paceee».

    «Pacee».

    «Pace».

    «Ameeeeeen».

    «Ameeeen».

    «Ameeen».

    «Amen».

    Per volontà del cardinale eccellentissimo la processione solenne portava per via l’effige di San Francesco che saliva verso la Pieve, costeggiando il torrente omonimo.

    I canti, le suppliche di donne, beghine e contadini riempivano la valle scavata nell’ardesia, ma il raduno di tanta gente non poteva che aggravare il contagio e il pericolo delle unzioni.

    «Te lo dico io: la muraglia del borgo oltre l’osteria è unta».

    «Ho sentito che il parroco s’è accorto che anche la porta della chiesa … È vero ?».

    «E come no, persino gli usci e i martelli delle case».

    Di bocca in bocca passavano l’amarezza e le paure, le parole risultavano potenti come e più del morbo.

    «Madre di Dio, poveri noi!».

    «Liberaci dal maleficio! ».

    «Il veleno è fatto di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati e peggio, è sozzo e atroce».

    «Liberaci beata vergine».

    «L’ho visto con questi occhi».

    «Cosa? Di me ti puoi fidare».

    «L’altra mattina in chiesa un vecchio, dopo aver pregato in ginocchioni, volle mettersi a sedere, prima, con la cappa, spolverò la panca:

    «Quel vecchio unge le panche! - ho gridato - ma la navata era vuota e quel vigliacco è scappato in un battibaleno».

    «Ah se tu fossi stata un giovanotto! L’avresti preso per i capelli, bianchi com’erano, e l’avresti caricato di pugni e di calci».

    «Poveri noi, poveri noi».

    «Dio proteggici».

    «Amen».

    «Proteggici».

    «Pare che i ragazzi più piccoli abbiano visto alcuni foresti ch’erano venuti in paese con brutte intenzioni».

    «Quei vigliacchi, tempestati di pietre, son fuggiti rubando una barca delle nostre giù sulla spiaggia».

    «Ai ferri! Altroché».

    «Preghiamo: Pater noster …».

    «Preghiamo:

    Dies irae, dies illa

    solvet saeclum in favilla:

    teste David cum Sibylla.

    Quantus tremor est futurus,

    quando iudex est venturus,

    cuncta stricte discussurus!⁴…»

    «Madonna santa! Guarda, hanno inchiodato gli usci delle case sequestrate».

    La processione uscì, sull’imbrunire: una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze e vestite di sacco. Salivano alla Pieve. Venivano poi artigiani con i gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori, poi i frati e i sacerdoti.

    Nel mezzo il chiarore di lumi più fitti si univa a un rumore più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto.

    Alle finestre erano stesi copriletti ricamati da corredo e messi in mostra vasi

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