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Il seme del dubbio
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E-book263 pagine3 ore

Il seme del dubbio

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Sullo sfondo di un Paese in ricostruzione, l’Italia degli anni Cinquanta, la routine dell’avvocato Renzo Vinsa viene scossa da un processo che lo coinvolge a livello professionale ed emotivo.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ott 2016
ISBN9788868811501
Il seme del dubbio

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    Il seme del dubbio - Claudio Sara

    DUBBIO

    CAPITOLO 1-10

    1

    «Quel delinquente travestito da soldato ritiene ormai di avere eluso la legge e deriso la giustizia con un piano diabolico, assicurandosi l’impunità del suo gravissimo delitto che ha irreparabilmente rovinato una fanciulla e ha distrutto un’onesta famiglia; ma la legge e la giustizia devono sventare la terribile manovra e ristabilire il loro imperio. Ciò le chiede uno sventurato padre, il sottoscritto Ranucci Guido, fu Michele. Avellino, 13 aprile 1958».

    La lettera stava lì, aperta sulla scrivania da ore, circondata e sovrastata da pile di fascicoli. Con il peso del suo contenuto, richiamava l’immagine di quelle piccole valli che si aprono all’improvviso tra montagne altissime, disegnando paesaggi straordinari che lasciano senza fiato e suscitano in chi li guarda suggestioni fortissime ed emozioni quasi incontrollabili.

    L’avvocato Renzo Vinsa ne era rimasto profondamente scosso. Non gli era mai accaduto che un cliente si rivolgesse a lui facendosi precedere da una lettera. O, forse, era la prima volta che si trovava di fronte una lettera così. Sì, perché a colpirlo non era stato il modo, per quanto insolito, con cui gli veniva richiesto di assumere un incarico professionale. A pungerlo sul vivo erano state le parole utilizzate da quell’uomo: parole che avevano toccato le corde giuste, suscitando in lui il fortissimo desiderio di conoscere nei particolari quella triste vicenda e di abbracciare quella causa. Sentiva, come forse mai gli era capitato prima, che il suo lavoro e la sua opera professionale sarebbero potuti essere utili per l’affermazione della Giustizia «con la G maiuscola» come lui amava ripetere, per la quale aveva sempre cercato di battersi. Non voleva tirarsi indietro. Anzi, non aveva provato la benché minima esitazione nell’accettare l’incarico.

    Da quando aveva ricevuto il signor Ranucci nel suo studio, Vinsa si sentiva ansioso, a tratti angustiato. All’inizio non era riuscito a capire perché. Ormai aveva accumulato una grandissima esperienza nei tanti anni di esercizio della sua professione. Si era cimentato in centinaia di cause, aveva preso la parola in processi di tutti i tipi, difeso povera gente incappata ingiustamente nelle maglie della legge, ma anche autori di delitti efferati dei quali aveva compreso, in qualche modo, i moventi. In tutte quelle vicende, in tutti quei processi, si era sempre orientato senza incertezze e titubanze di sorta, come fosse guidato dalla stella polare della giustizia e della verità, e aveva trovato ogni volta la molla per fare il suo lavoro con disinvoltura e con scrupolo.

    Stavolta, invece, tutto gli sembrava diverso. Si sentiva a disagio. Un processo per violenza carnale su una minorenne non sarebbe mai stato per lui un caso come gli altri, uno dei tanti. Già, perché Guido Ranucci, con quella lettera, gli chiedeva in tono accorato di studiare il suo caso spinoso e di trovare le armi per ottenere finalmente la condanna del tenente dell’esercito Giuseppe Achilli, che, anni prima, aveva violentato sua figlia Candida, allora poco più che quattordicenne. Da quel momento in poi, per quel povero padre di famiglia non esisteva altro che la sete di giustizia, il suo chiodo fisso trasformatosi, negli anni, in una vera e propria ossessione.

    Vinsa si era buttato in quella storia a capofitto. Aveva creduto a tutto quanto gli aveva riferito il suo cliente ed era orgoglioso di trovarsi dalla parte delle vittime, le quali nutrivano in lui una speranza di rivincita. Così l’avvocato stava nel suo studio a rimuginare. Fuori pioveva e dalla finestra, di tanto in tanto, penetravano i bagliori dei lampi che illuminavano la calda sera di maggio. Quasi disteso sulla sedia, dietro l’imponente scrivania di legno scuro, si accarezzava lentamente i baffetti. Rilesse ancora una volta le parole di Ranucci e si alzò per chiudere le pesanti tende nel tentativo di isolarsi ancora di più dal mondo esterno. Tornò a sedersi e iniziò a fissare il soffitto cercando a fatica di inseguire con lo sguardo gli stucchi che decoravano la stanza, ormai completamente avvolta dal fumo denso e acre delle sue sigarette.

    Quando era nervoso fumava tantissimo, una sigaretta dopo l’altra: ne accendeva in continuazione, ognuna con il mozzicone della precedente. Gli capitava soprattutto prima di affrontare i processi più delicati. Tentava di calmarsi con il fumo, di acquisire la concentrazione e di recuperare le energie necessarie a sostenere nelle aule dei tribunali le estenuanti discussioni dinanzi ai giudici, le battaglie verbali, in punta di fioretto e di diritto, con i colleghi avversari o con i pubblici ministeri.

    Quella sera, pur essendo da tempo passata l’ora di cena, non aveva alcuna intenzione di salire al piano superiore della sua villetta situata al centro della città. La moglie, Dora, conoscendo la sua abitudine di trattenersi fino a tardi nello studio, di sicuro gli aveva preparato un pasto freddo: insalata con poco olio per non far cuocere le foglie, almeno un paio di tipi di formaggio di cui era particolarmente ghiotto, un bicchiere di vino e l’indispensabile pezzo di pane cotto nel forno a legna. «Senza pane è come se non mangiassi» ripeteva Vinsa, e sua moglie faceva in modo che non ne mancasse mai almeno un tozzo a tavola, fosse anche del giorno precedente.

    Vinsa aveva lo stomaco chiuso e neanche un po’ di fame: avvertiva una tensione forte e intensa. Voleva trovare una soluzione a quel caso, doveva riuscire a tutti i costi a dare una risposta a quello «sventurato padre».

    Il magone e la smania che lo attanagliavano si rinvigorivano ogni volta che rileggeva le frasi di quella lettera. Frasi scritte in un corretto italiano, piuttosto formali, a tratti burocratiche e a tratti ridondanti, che puntualmente gli facevano tornare alla memoria gli occhi di quell’uomo. Un uomo di sessantacinque anni, che però ne mostrava almeno quindici di più, tanto era prostrato nel fisico e, soprattutto, nel morale.

    «Avvocato, mi aiuti. La prego» erano state le prime parole pronunciate il giorno precedente da Ranucci non appena si era seduto su una delle due sedie rivestite di pelle marrone, poste di fronte alla scrivania del suo studio. Il tono dell’uomo era dignitoso. Quella sua implorazione non voleva suscitare pietà, ma era comunque una disperata richiesta di aiuto. Richiamava alla mente la contrita richiesta di benedizione che i fedeli cristiani, composti sull’inginocchiatoio, rivolgono al prete all’inizio del sacramento della confessione. Ed era il condensato della sua insopprimibile voglia di giustizia, la prescrizione dell’unica medicina che avrebbe potuto sedare e alleviare il suo inguaribile dolore.

    Vinsa cercò di rammentare ogni particolare dell’incontro, durante il quale Ranucci aveva malinconicamente snocciolato il suo racconto cercando di ripercorrere le tappe che lo avevano portato fin lì.

    L’uomo si era presentato puntualissimo. Indossava una giacca di lana scura, troppo abbondante per la sua taglia, prova di un recente notevole dimagrimento. La cravatta era annodata senza particolare cura. Dopo aver educatamente chiesto il permesso, Ranucci si era accomodato sulla sedia tenendo lo sguardo basso. Con le mani tormentava le falde del cappello che quel pomeriggio, uscendo di casa, aveva indossato con un movimento meccanico, quasi come un riflesso condizionato, nonostante l’aria di maggio fosse già tiepida. Dimostrava di fare uno sforzo notevole nel ricordare certi episodi, ma comprendeva che quella sua sofferenza era l’ennesimo tributo da pagare nella speranza di rivedere la luce, di uscire dal tunnel che stava attraversando ormai da anni.

    «Giuseppe Achilli era tenente dell’esercito, venne da me nel marzo di sette anni fa» aveva esordito Ranucci. «Arrivava dalla Puglia e aveva trentotto anni. Era stato trasferito ad Avellino e così si era presentato a casa mia per chiedere in affitto la camera ammobiliata della mia abitazione, che avevo offerto con un annuncio lasciato nel bar di fronte casa».

    Ranucci aveva avvertito lo sguardo interrogativo e leggermente sorpreso dell’avvocato e quindi si era affrettato a precisare: «Non ho mai navigato nell’oro. E poi la guerra era finita da soli sei anni e i soldi erano pochi. I segni dei bombardamenti americani del settembre 1943 erano ancora evidenti. La città aveva ancora ferite profonde. Io mi sentivo fortunato a possedere una casa, di certo modesta, essenziale e con una stanza in più. Sì, in più, perché la mia abitazione era costituita da una piccola cucina, un salottino e tre camere da letto: quella matrimoniale, quella di mia figlia Candida e un’altra, completamente arredata ma disabitata da anni. Avvocato, io e mia moglie Ilde ci siamo sposati nel 1928. Sognavamo di avere una famiglia numerosa e volevamo almeno quattro bambini, due maschietti e due femminucce. Mia moglie era rimasta incinta tre volte ma non riusciva a portare avanti le gravidanze che si interrompevano ai primi mesi senza un motivo apparente. Quel fatto ci faceva stare male, era per noi un peso insopportabile. Ci affidammo al medico condotto. Non so quanto miele fummo costretti a mangiare io e la mia povera Ilde… il dottore diceva che il miele era utilizzato già dagli antichi egizi per curare la sterilità… Per molto tempo, tutto fu vano. Poi non so come, non so perché, sarà stato merito del miele o della nostra buona dose di preghiere quotidiane, ma sta di fatto che, nel marzo del 1937, accadde il miracolo. Il buon Dio decise di accogliere le nostre suppliche e di dare colore alla nostra esistenza, fino ad allora incompleta e grigia. Nacque mia figlia! Credo lei possa immaginare la gioia. La chiamammo Candida. La carnagione chiara e l’innocenza di quel fagotto appena nato ci fecero venire in mente quel nome che ritenemmo fatto su misura per lei».

    Quel ricordo aveva fatto luccicare gli occhi di Ranucci e, per la prima volta, Vinsa aveva potuto vedere il volto dell’uomo fare una piega e aprirsi in un debole sorriso, un sorriso che era scomparso subito, travolto dall’incedere di quel racconto: «Non abbiamo avuto altri figli» aveva continuato Ranucci «per via dell’età, ma soprattutto perché mia moglie era stata molto provata dalla gravidanza e dal parto, che non furono affatto semplici. Ci rendemmo conto che eravamo già stati fin troppo fortunati e decidemmo che non era il caso di sfidare il destino, ecco il motivo di quella stanza in più. Non sarebbe stata mai riempita dai giochi e dalla voce di un altro bambino e allora pensammo che, affittandola, avremmo potuto raggranellare qualche altro soldino che ci aiutasse a tirare avanti».

    Ranucci aveva proseguito senza fermarsi, cercando di arrivare al cuore della storia: «Il tenente Achilli si mostrò molto distinto. Era affabile, educato. Non fece nessuna questione sul prezzo dell’affitto. Sembrava un altro segno della benevolenza di Dio. Ci rifletta. Cos’altro avrei potuto chiedere? Un soldato, un servitore dello Stato proprio in casa mia. Che fortuna! Eh già. Deve sapere, caro avvocato, che in quel periodo lavoravo a Torino e stavo lontano da casa quasi tutto l’anno. Fino a pochi anni prima ero rimasto in città a fare i lavori più umili: il cameriere, il muratore, il pittore. Mi sono adattato a fare di tutto malgrado avessi un diploma. Quando mi è capitato di ottenere un posto in un’azienda dove avrei potuto finalmente mettere in pratica i miei studi, non ci ho pensato su e sono andato al Nord. Ecco perché ero assente da casa e perché ero così felice dell’arrivo di Achilli: pensavo che la sola presenza del tenente potesse tenere lontano dalla mia casa e dalle mie due femmine il diavolo e tutti i malintenzionati». L’uomo aveva fatto una breve pausa: «Non sapevo. Non potevo sapere che il diavolo lo avevo fatto entrare io. E dalla porta principale». La voce si era incrinata ma Ranucci aveva fatto un notevole sforzo cercando di controllare la commozione. Un colpetto di tosse, poi aveva ripreso: «Era da circa due mesi che il tenente alloggiava a casa mia». Ranucci aveva iniziato, in maniera inconsapevole, a usare un tono più solenne, a scandire le parole e a fare delle brevissime pause dopo ogni frase. L’avvocato Vinsa aveva capito che il racconto era giunto al momento cruciale e così si era proteso in avanti puntando i gomiti sulla scrivania e appoggiando il mento sulle mani. «Era il 9 maggio. Io ero a Torino e mia moglie era uscita di casa come ogni giorno per andare a svolgere il suo onesto lavoro di infermiera all’ospedale. Non so di preciso se il tenente decise di assentarsi dal lavoro quel giorno o se fosse rientrato all’improvviso. Non ricordo perché mia figlia non fosse andata a scuola. So solo che quell’essere immondo, quel mostro, che il cielo lo fulmini, aggredì Candida e fece scempio della sua innocenza!».

    L’avvocato Vinsa aveva provato un senso di tenerezza e al tempo stesso di ammirazione per Ranucci e per la sua capacità di trovare, nonostante lo strazio del ricordo e la concitazione del racconto, le parole meno crude per descrivere un’azione tremenda che gli aveva cambiato la vita.

    Ma il peggio del racconto doveva ancora venire: «Avvocato, non è finita qui! Quella bestia non si fermò, perché violentò la mia bambina, non so come dirglielo, anche contro natura!». Ranucci non aveva retto; aveva abbassato gli occhi pieni di lacrime, continuando a rigirare il cappello tra le mani. «Povera figlia mia. Si rende conto? Aveva da poco compiuto quattordici anni».

    Il tempo sembrava essersi fermato, il gelo era calato nella stanza. L’avvocato era rabbrividito e si era ritratto all’indietro quasi a voler schivare un colpo. Non era difficile prevedere quanto quella storia sarebbe stata terribile ma quest’ultimo particolare era stato un vero e proprio pugno nello stomaco. Per un po’ Vinsa aveva trattenuto il fiato perché temeva che anche un suo respiro in quel momento fosse inopportuno, fuori posto. Dopo qualche istante, comunque, aveva fatto appello a tutta la sua professionalità e, sperando di stemperare la tensione e di tirare fuori il Ranucci dal baratro del racconto in cui era caduto, si era affrettato a dire con modi forzatamente formali: «Continui, continui, Ranucci…». Ma poi, con tono dolcissimo, aveva aggiunto: «La prego».

    L’uomo aveva provato a darsi una piccola scossa: si era toccato il nodo della cravatta, quasi a volerlo allentare ulteriormente, aveva poi appoggiato le spalle allo schienale della sedia emettendo infine un profondo respiro: «Candida, qualche ora dopo, per giustificare il suo stato, quell’aria sconvolta, i suoi insoliti silenzi, raccontò tutto a mia moglie. Se la può immaginare quella povera donna sola. Dopo un primo momento di totale sconforto, Ilde si fece coraggio e, senza timore di affrontarlo, si recò disperata nella stanza del tenente per chiedergli spiegazioni. Poverina. In cuor suo coltivava la segreta speranza che si trattasse di un macabro scherzo o che la bambina si fosse, chissà poi perché, inventata tutto di sana pianta. Achilli non si scompose più di tanto e non si mostrò neanche sorpreso. Anzi, con una freddezza incredibile, sconcertante, non negò nulla. Confessò che Candida era stata la vittima inconsapevole della sua perversione. Mia moglie rimase senza parole. Trovò però la forza per ingiungere a quella specie di uomo, che il cielo lo fulmini, l’unica giusta via di riparazione, la sola azione possibile per ripagare mia figlia dell’assurda violenza che le aveva fatto perdere l’innocenza in quel modo: il matrimonio».

    Vinsa aveva storto la bocca. Credeva nella legge, nelle tradizioni e nei valori, ma aveva una mentalità molto aperta, certamente non in linea con il modo di pensare dell’epoca. Comprendeva perciò che, in quel caso, il rimedio sarebbe stato di gran lunga peggiore del male. Ovviamente si era guardato bene dal fare qualsiasi osservazione in tal senso e aveva nascosto il suo disappunto, rifugiandosi nella domanda più scontata che potesse porre in quel momento: «Che prove ha di quello che è successo?».

    «Mi creda, avvocato» aveva risposto Ranucci «è tutto vero! Quell’uomo è un mostro».

    «Le credo, le credo» lo aveva rassicurato Vinsa. «Ma capirà, dobbiamo portare prove al giudice. Altrimenti…».

    Ranucci non aveva atteso altre obiezioni da parte dell’avvocato e aveva aggiunto: «Le prove? Be’, io so per certo che, qualche giorno dopo, Achilli confidò ai suoi amici quello che aveva fatto. Poi confermò tutto dinanzi al vescovo, monsignor Mannini, che fu investito della vicenda e che gli parlò duramente. Credo che abbia raccontato l’accaduto anche ai suoi diretti superiori. E poi, mi scusi, accettò di sposare Candida. Quale altra prova può esserci della violenza che aveva commesso distruggendo la mia vita, quella di mia moglie e quella di mia figlia?».

    Vinsa non intervenne, né contraddisse Ranucci che aveva potuto così proseguire nel suo racconto. Il tono era sempre più affannato e la voce impastata dall’emozione: «Il tenente tentò, in un primo momento, di rinviare il matrimonio riparatore. Fece venire ad Avellino un suo avvocato per cercare, con l’inganno, di convincere mia moglie a non insistere. Pensi che arrivò persino a offrirle del denaro. Povera Ilde. Da sola lo aveva affrontato. Eh già. Perché io ero sempre a Torino a lavorare, lontano e ignaro della situazione della mia famiglia, all’oscuro di tutto. Non sapevo nulla, nulla! Maledetto lavoro!». Ranucci fece una pausa, poi, dopo aver scosso la testa e fatto un lungo sospiro, riprese il filo del discorso: «Achilli iniziò a tergiversare, a essere sfuggente. Poi, grazie anche all’intervento di un avvocato, finalmente accettò. Sì, aderì alla richiesta di matrimonio riparatore e mia figlia si sposò in chiesa il 21 luglio del 1951. Io non potei partecipare alle nozze. Sono sincero, non avevo i soldi per venire giù da Torino. Capirà che, per sostenere le spese del matrimonio, ero stato costretto a dare fondo a tutti i miei risparmi. Con mille sacrifici ero riuscito a farle cucire un bell’abito, sa? Comunque, come le dicevo, il matrimonio si svolse regolarmente. Ero preoccupato per la giovane età di mia figlia, certo, ma tutto sommato ero felice per lei. Nessuno mi aveva ancora detto che cosa era accaduto e quale fosse il vero motivo di tutta quella fretta. Solo per questo, diedi il mio consenso alle nozze». Ranucci aveva fatto nuovamente un lungo sospiro e aveva ripreso a parlare con fatica, consapevole di quanto fosse ancora lunga e dolorosa la storia da raccontare: «Celebrato il matrimonio, nel pomeriggio della stessa giornata, il tenente Achilli cominciò a mettere in pratica il suo piano diabolico, che sono sicuro avesse studiato da tempo fin nei minimi dettagli. Disse di essere stato chiamato via telegrafo, che doveva tornare al suo paese in Puglia dal padre, seriamente ammalato di cuore. Lasciò la piccola sposa con ancora indosso l’abito bianco, e se ne andò via. Da allora, in pratica, sparì. Per Candida iniziò l’attesa, lunga, snervante, penosa. Mia moglie pensò allora di rivolgersi ai superiori del tenente. Il generale Marconi si rese subito conto della situazione e fu gentilissimo. Fece in modo di ottenere il trasferimento del tenente a Lecce e riuscì a chiamarlo telegraficamente intimandogli di presentarsi dinanzi a lui. E fu così che marito e moglie si riunirono. Dall’alto della sua autorità, Marconi ordinò al tenente di raggiungere la nuova sede di Lecce e di portare con sé la giovane moglie. Era il 20 agosto del 1951. Stava per iniziare la seconda parte della tragedia. Quella sera stessa, infatti, gli sposi partirono in treno. Iniziò un viaggio allucinante. Mia figlia, tempo dopo, mi ha riferito che Achilli cercò ancora una volta di abusare di lei nello scompartimento, ma non riuscì nell’intento. Alla stazione di Carovigno, il tenente fece scendere Candida dal treno, la irretì con menzogne, promesse, chiacchiere e la affidò ad alcuni suoi parenti residenti in quella città. Dopo qualche ora, riprese da solo il viaggio

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