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Il diario di Elisa
Il diario di Elisa
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E-book233 pagine2 ore

Il diario di Elisa

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Info su questo ebook

In un bosco alla periferia di Milano viene ritrovato il corpo senza vita di un’adolescente. Si chiamava Elisa Cavesi ed aveva diciassette anni. Su di sé porta i segni della violenza del suo assassino. Ercole Ottaviani, commissario della squadra mobile, si troverà invischiato nel marcio di un’indagine complicata, dai contorni incerti. Toccherà a lui scandagliare la vita di Elisa e scontrarsi con un ambiente ostile in cui i genitori della ragazza paiono testimoni reticenti di un angosciante segreto. Passo dopo passo, tra indizi contraddittori e menzogne, il commissario riuscirà ad abbattere il muro di omertà fino a fare emergere la verità con il suo inimmaginabile orrore.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2014
ISBN9788875639723
Il diario di Elisa

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    Anteprima del libro

    Il diario di Elisa - Gianni Perticaroli

    1

    Milano, domenica 4 dicembre 2005

    La strada sterrata s’interrompeva bruscamente ed era impossibile riuscire a proseguire in auto. Sterpaglie, rami caduti e una buca profonda almeno un metro erano un deterrente sufficiente. Non sarebbe stato possibile oltrepassare quegli ostacoli nemmeno con un fuoristrada. Figurarsi con la sua berlina!

    Ercole Ottaviani parcheggiò accanto ad una volante e scese dall’auto. Dal bagagliaio prese un paio di stivali di gomma che non esitò ad indossare. La pioggia degli ultimi giorni di novembre aveva reso quella strada una distesa di fango. Chiuse la macchina e si avviò a piedi. Dopo pochi passi ebbe la sensazione di camminare sulle sabbie mobili.

    Percorse un breve tratto, evitò la buca e poi scorse un agente in divisa che gli si stava facendo incontro. Via radio aveva avvertito del suo arrivo.

    L’agente indossava un paio di guanti di lattice. Precauzione indispensabile, per chi si trova sulla scena di un crimine.

    «Buongiorno commissario. È di qua» disse indicando un luogo da qualche parte alle sue spalle.

    «È arrivato qualcun altro della mobile?» chiese. Ottaviani era a capo della sezione omicidi all’interno della squadra mobile della questura di Milano.

    «No, lei è il primo» rispose.

    Ci aveva impiegato meno tempo lui partendo da casa che i colleghi di turno dalla questura. Se la stavano prendendo comoda. Guardò l’orologio. Erano le tre e quaranta. Si chiese quale potesse essere il motivo del loro ritardo.

    Stava per chiamare per sapere dove si trovassero quando Ferrario e Mazzucchelli giunsero arrancando dietro di lui.

    Sentì Mazzucchelli bestemmiare perché era affondato per un palmo nel fango. Ferrario, invece, camminava goffamente sulle punte senza però ottenere risultati migliori del collega. Quando lo raggiunsero, le loro scarpe erano da buttare ed il fondo dei pantaloni aveva raccolto talmente tanto fango da pesare qualche chilo.

    «Abbiamo sbagliato strada» cercò di giustificarsi per il ritardo Ferrario.

    Ottaviani non vi badò e chiese all’agente di condurli sul luogo del ritrovamento.

    «Avete chiamato la scientifica e il medico legale?» gli chiese.

    «Il medico legale sì. La scientifica non ancora. È meglio se la richiesta la fate voi» rispose.

    Il percorso non pareva migliorare molto mentre si inoltravano nella boscaglia. Il sentiero si restringeva leggermente, ma consentiva il passaggio di due uomini affiancati. Il suolo, tuttavia, restava scivoloso e coperto da uno strato di fanghiglia che avrebbe impiegato secoli a seccarsi dato che il sole faticava ad infiltrarsi tra le fronde spoglie degli alberi.

    Percorsero circa quattrocento metri, finché videro l’altro agente in piedi dinanzi ad un cumulo di terra. Con lui c’era un uomo un po’ in là con gli anni che teneva un pastore tedesco al guinzaglio. Il cane sembrava piuttosto agitato.

    «Andate là» disse l’agente che li aveva accompagnati. «Io torno indietro ad aspettare il medico legale» continuò, e poi tornò sui suoi passi.

    I tre uomini della squadra mobile raggiunsero l’altro agente della volante. Anche lui indossava dei guanti di lattice. Erano giunti dove non avrebbero mai voluto trovarsi in una domenica pomeriggio. In più il cielo era del colore dell’acciaio e l’aria di quei primi giorni di dicembre era gelida e tagliente come una lama. Una giornataccia, in tutti i sensi.

    Il cumulo di terra era stato smosso di recente, probabilmente era stato il cane, ed aveva portato alla luce un’orribile scoperta. Il viso sfigurato di una donna era emerso da sotto il mucchio di terra.

    «Chi è questo signore?» chiese poi Ottaviani all’agente, indicando l’uomo con il cane.

    «È lui che ci ha chiamato» rispose.

    «Fammi il piacere, accompagnalo dove abbiamo lasciato le macchine. Parlerò con lui più tardi. Oppure preferisce raggiungerci in questura?» chiese poi rivolgendosi direttamente all’uomo.

    «Sì, è meglio. Così potrò portare a casa Tom. È abbastanza agitato per quello che ha scoperto» disse accarezzando il muso del cane.

    «A più tardi, allora» concluse liquidandolo.

    «Ferrario, chiama la scientifica» ordinò e poi si avvicinò al cumulo di terra.

    Vi si accosciò accanto. Quel viso apparteneva ad una giovane, un’adolescente, forse. Ne era certo, benché i lineamenti fossero stati deturpati dall’orrore della morte. La pelle era leggermente avvizzita ed aveva il colore dell’avorio. Gli occhi erano chiusi ed erano stati sospinti entro le orbite dal peso della terra con cui era stata seppellita. Le labbra regolari erano socchiuse, come se fossero intente a proferire un ultimo sussurro. I capelli erano castani e tagliati all’altezza del collo. Un paio di cerchietti d’argento erano rimasti saldamente attaccati ai lobi delle orecchie.

    Si rialzò. Non c’era più niente che potesse fare per lei. Nessuno avrebbe più potuto fare nulla per lei.

    «Mazzucchelli, scatta qualche fotografia. Ferrario, vieni con me. Cominciamo a dare un’occhiata qua intorno mentre aspettiamo la scientifica».

    Nell’allontanarsi Ottaviani tirò fuori dalla tasca interna del giaccone invernale un foglio ripiegato in quattro. Lo aprì e lesse il numero di telefono del magistrato di turno. Il numero era vagamente familiare. Si disse che doveva averlo chiamato durante indagini precedenti. Prese il cellulare e chiamò. Doveva avvertirlo di ciò che era stato portato alla luce. Il corpo di una ragazza ed un possibile caso d’omicidio. Avrebbe lasciato a lui la scelta se raggiungere il luogo oppure limitarsi ad essere informato sugli sviluppi.

    Ottaviani compose il numero sul cellulare. Contò sette squilli prima che qualcuno rispondesse. Era domenica pomeriggio per tutti.

    «Pronto?» rispose una voce femminile.

    Ottaviani riconobbe la voce di Patrizia e capì perché il numero fosse familiare. Non sapeva che fosse entrata nella turnazione dei magistrati del tribunale. A dire il vero, ormai, non conosceva più molte cose di lei.

    «Sono Ottaviani... Ercole» aggiunse. Di solito avrebbe specificato grado e ruolo, ma con lei non ce ne sarebbe stato bisogno.

    «Ciao» rispose. Nella voce della donna risuonò una nota di sorpresa.

    «Sei il magistrato di turno, vero?» domandò come se volesse mettere in chiaro il motivo della sua chiamata.

    «Sì, certo. Cosa è accaduto?» domandò. La sorpresa era svanita ed aveva lasciato spazio ad un’insolita durezza.

    Ottaviani le riferì brevemente il motivo della telefonata. Le spiegò cosa era stato scoperto e come intendevano procedere.

    «Mi consigli di raggiungervi?» gli chiese. Un secondo dopo si era già pentita d’averlo fatto. Aveva già dimostrato di non aver più bisogno di lui.

    «Non credo sia necessario. Ti terrò comunque aggiornata sugli sviluppi della situazione».

    «D’accordo».

    «Ci sentiamo presto» la salutò.

    Il medico legale giunse verso le quattro e dieci, diede un’occhiata al viso della giovane donna, sentenziò che non poteva essere più morta di così e poi se ne andò. La sua visita durò un quarto d’ora in tutto, compreso il tragitto dall’auto alla scena del ritrovamento e ritorno. In effetti, non avrebbe potuto fare molto altro. Soltanto dopo l’intervento della scientifica avrebbe potuto aggiungere qualcosa.

    Il lavoro della scientifica, invece, durò a lungo e proseguì anche ben oltre il tramonto, alla luce artificiale di alcune potenti lampade portate per evitare di dover interrompere la lunga operazione di disseppellimento. Era importante che gli agenti facessero le cose con la dovuta calma e cautela per evitare di danneggiare il corpo e cancellare eventuali tracce lasciate da chi l’aveva sepolta lì. Il suo assassino, probabilmente.

    Era fuori discussione, infatti, che qualcuno l’avesse uccisa e poi l’avesse sepolta in quel luogo.

    Alle sette e dieci, il corpo della giovane fu riportato alla luce. Ottaviani era nei pressi quando gli operatori della scientifica deposero i loro attrezzi di scavo.

    In quelle ore non si era allontanato dalla zona. Aveva compiuto lunghe ed attente perlustrazioni in tutta l’area circostante, ma aveva soltanto potuto concludere che la pioggia aveva cancellato ogni traccia.

    «Cosa ne pensi?» chiese ad uno degli agenti della scientifica che aveva appena cominciato a scattare alcune fotografie.

    «Che era troppo giovane per morire» sentenziò in tono grave una voce alle sue spalle. Era quella di Paolo Arditi, uno degli ispettori della scientifica. Ottaviani l’aveva visto arrivare, ma ancora non avevano parlato.

    Il commissario della squadra mobile annuì e poi si accosciò accanto al corpo. Era ancora vestita. Indossava gli abiti tanto comuni tra gli adolescenti. Un giubbotto rosa ancora allacciato sopra un paio di blue jeans sbiaditi. Ai piedi calzava un paio di scarpe da ginnastica. Le gambe affusolate ben allungate e le braccia sistemate lungo i fianchi lasciavano intendere che il corpo era stato deposto nella buca con attenzione. Forse nelle intenzioni di chi l’aveva fatto doveva essere un ultimo gesto d’affetto.

    «Chi l’ha portata qui deve aver seguito il nostro identico percorso» riprese Arditi. Era un uomo di media corporatura, con i capelli corti color argento. Aveva quarantacinque anni, e da venticinque prestava servizio per la polizia. Da quindici anni lavorava al dipartimento della polizia scientifica di Milano.

    «È così. Non ci sono altre strade per giungere sin qui» confermò Ottaviani. «Hai idea di come sia morta?».

    Arditi si chinò accanto a lui e scostò il colletto del giubbotto allacciato sin sotto il mento. «Giudica tu» disse.

    Una linea bluastra correva irregolarmente intorno al collo, come fosse una collana tatuata sulla pelle. Ecchimosi causate da strangolamento.

    «È stata strangolata» esclamò. «Con una corda o un laccio» aggiunse.

    Arditi annuì. «Credo che sia stata sorpresa e aggredita alle spalle».

    Ottaviani annuì. «Hai già controllato se ha dei documenti con sé?» chiese poi.

    «Intorno al corpo non c’è nulla. Né borsa, né zainetto. E non c’è niente nelle tasche esterne, a parte un lucidalabbra. Non ho controllato all’interno del giubbotto» rispose. Poi fece scorrere la cerniera e frugò tra le tasche interne. «Niente» disse.

    «Niente cellulare, né chiavi?».

    Arditi scosse la testa.

    «Sono sicuro che le tasche siano state ben ripulite prima che fosse seppellita».

    «No, aspetta, qui c’è qualcosa!» esclamò. «Era ben nascosta nella tasca interna».

    Era una piccola chiave color oro. Era lunga circa tre centimetri ed era sottile, dello spessore di pochi millimetri. La testa simile ad un fiore stilizzato.

    «La chiave di un lucchetto» disse Arditi.

    «Di questo colore e con questa forma non ne ho mai visti. Secondo me è la chiave di un diario».

    «Hai ragione» convenne l’ispettore della scientifica.

    12 luglio 2005

    Mio caro amico Jolly, eccomi di nuovo con te.

    Oggi è successa una cosa che ti devo assolutamente raccontare.

    Ti avevo parlato nei giorni scorsi di Luca...

    Ebbene sì: finalmente ci siamo messi insieme! Ti avevo scritto ieri che ero sicura che oggi me l’avrebbe chiesto, e così è stato.

    Naturalmente gli ho risposto di sì.

    Finalmente ho un nuovo ragazzo dopo quel pasticcione di Alfredo.

    Ora ti racconto qualcosa di Luca.

    Ha tre anni più di me, ha i capelli neri, lunghi come i miei, e gli occhi castani. È alto perché oggi, per baciarlo, mi sono dovuta sollevare sulle punte. Porta un orecchino e ha un anello d’argento al pollice destro. Lavora come operaio in una fabbrica, anche se non so bene cosa faccia. Che importa, avrà tempo per raccontarmelo.

    Tu sei il primo a saperlo, perché ancora non l’ho detto alle mie amiche. Chissà che faccia faranno! Loro sono ancora in cerca di un ragazzo, ma penso che passeranno l’estate in bianco a meno che non riescano a trovare qualcuno quando andranno in vacanza.

    A proposito di vacanze.

    Mamma mi ha confermato che andremo al mare con i nostri vicini, i Rambaldi. Da quel che ho capito, hanno preso in affitto a Milano Marittima una casa un po’ distante dal mare, ma con cinque camere da letto. Così staremo tutti insieme sotto lo stesso tetto per tre settimane. Che palle! Non sono molto contenta, perché vuol dire che Giampaolo mi starà appiccicato tutto il tempo.

    Ha una cotta per me da un sacco di tempo, e ci ha provato già due volte. A me non piace, e gliel’ho già detto chiaramente, ma lui insiste. Trovo che sia un po’ strano, e quando mi guarda delle volte mi mette i brividi. Da due mesi ha preso la patente e mi ha invitato a fare un giro con lui. Ancora che palle! Tra l’altro, da alcuni mesi ha cominciato ad andare in palestra e fa un po’ lo sbruffone perché si veste con le magliette senza maniche per mostrare i muscoli che non ha. Spero non faccia di tutto per rovinarmi le vacanze.

    Tra l’altro, adesso che sto con Luca non ho proprio voglia di andare via.

    Va beh, adesso non voglio rovinarmi la giornata con questi pensieri. Oggi ho un vero motivo per essere felice!

    A domani.

    2

    Milano, lunedì 5 dicembre 2005

    «Senta signor Taddei, rifletta con calma ma mi ripeta senza incertezze come è giunto sino al luogo del ritrovamento del corpo della giovane» lo esortò Ottaviani. Stava disperatamente tentando di mantenere la calma. Era la quarta versione che quell’uomo si stava approssimando a propinargli. Ogni volta cambiava qualcosa, oppure gli si affacciavano alla memoria particolari che riteneva importanti. Peccato che non fossero altro che cazzate.

    «È stato Tom. Sa, il mio cane ha un fiuto eccezionale».

    «Questo me l’ha già detto e l’ho capito. Ora, per piacere, mi vuole raccontare come è giunto sin lì?».

    «Ogni tanto ci vado per fare correre un po’ il mio cane. Diciamo che almeno un paio di volte alla settimana lo porto a scorrazzare in quei prati. Però era da un pezzo che non ci andavo, per via del tempaccio. Se il pelo di Tom si infanga, poi devo fargli il bagno prima di farlo entrare in casa».

    Ottaviani si massaggiò le tempie mentre ascoltava. Sapeva tutto di Tom e, benché gli piacessero gli animali, stava cominciando ad odiarlo.

    «Così ha cominciato a correre, e ho fatto una fatica boia a stargli dietro. Credevo mi scoppiasse il cuore».

    «E si è così inoltrato nella stradina sterrata» lo imbeccò il commissario.

    «Sì, esatto. Quando ho raggiunto Tom, stava scavando come un disperato. Scavava e guaiva. Quando mi sono avvicinato ho notato cosa aveva portato alla luce e così ho chiamato il centotredici» concluse.

    «Non ha notato nient’altro?».

    «No, nient’altro».

    «Grazie, signor Taddei. Se avremo bisogno di lei, la contatteremo. Ora la farò accompagnare all’uscita».

    «Abbiamo finito, allora» disse con una punta di dispiacere.

    Ottaviani era certo che stesse per ricominciare daccapo.

    Si alzò di scatto senza dargli il tempo di dire che gli stava venendo in mente qualcos’altro. Non ce l’avrebbe fatta ad ascoltarlo ancora.

    Lasciò di corsa l’ufficio.

    Ottaviani camminava a passo spedito nei corridoi della questura con un peso enorme che gli opprimeva il petto. Era abituato alla morte, al suo odore, alla visione degli effetti devastanti che lasciava sui corpi delle vittime, eppure ogni volta era come fosse la prima. Ma abitudine non voleva dire rassegnazione. Molti suoi colleghi vivevano quel lavoro con distacco, come se morire accoltellati davanti a un bar o fuori da uno stadio, oppure con la testa spaccata da un martello dopo un litigio tra le mura domestiche, fosse normale. Erano rassegnati al fatto che certe cose accadevano. Punto e basta.

    Per lui non era così, invece. Non ci si poteva rassegnare

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