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I bambini non ci vogliono stare
I bambini non ci vogliono stare
I bambini non ci vogliono stare
E-book479 pagine6 ore

I bambini non ci vogliono stare

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Info su questo ebook

Thriller - romanzo (346 pagine) - Tutto è cambiato, ma alcune catene sembrano perpetue. Gli occhi fissano lo specchietto retrovisore, tra ricordi e speranze, mentre un’ombra impietosa non vuole fermarsi.


La sua vita è diversa, e i ricordi più gloriosi sono nascosti con astuzia da nuove ambizioni. Ma il talento non è un regalo, è un pegno. Fulvio non può fingere di non sapere, non può limitarsi a fare da spettatore. Il volto scuro che insegue è il più spietato con cui si sia mai confrontato.

“Stai a casa, Fulvio Negri.”

Il terzo romanzo della trilogia scritta da un funzionario di polizia che sa bene come si costruisce un'indagine. Gli altri due romanzi del ciclo sono Nessun respiro e Le infradito nel fango, collana Odissea Digital.


Eduard Orselli è nato in Veneto nel 1982. Laureato in scienze politiche, da un decennio si occupa di attività investigative lavorando in una delle forze di polizia italiane.

Autore esordiente, è stato mosso dalla voglia di riportare in lettere le sensazioni che provano i professionisti durante le indagini condotte, mettendone a nudo i limiti e la reale umanità.

La trilogia su Fulvio Negri è il suo primo lavoro.

LinguaItaliano
Data di uscita29 mag 2018
ISBN9788825406115
I bambini non ci vogliono stare

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    Anteprima del libro

    I bambini non ci vogliono stare - Eduard Orselli

    9788825405873

    All’amore e a Sveva, quella vera

    Zero

    Le guardai, sorridendo.

    E l’unica cosa che non capivo era come fosse possibile che lei si trovasse lì, in quel momento.

    Uno

    – Pronto… Sì, sono io. Sì, Negri. Scusa, non ti avevo riconosciuto. Dimmi tutto.

    – Negri, ti ricordi quell’incidente stradale, quando mi avevi chiamato per fare i rilievi lì, che non ti suonava giusto no? Ti ricordi?

    Ci pensai, lasciando in sospeso il mio interlocutore per qualche secondo. Era il capo dell’ufficio investigativo di zona.

    – Sì, sì. Ricordo. Quella storiaccia. Successo qualcosa? Com’è che dagli uffici investigativi andate a cercare gli incidenti stradali?

    La mia domanda era retorica, addirittura canzonatoria. Quando c’era stato quell’incidente io stesso avevo avuto delle perplessità.

    Terminai la conversazione con il collega e riagganciai. Seduto nel mio ufficio da comandante mi strofinai gli occhi. La vista stava calando, probabilmente già da un po’. Pensai alla telefonata appena conclusa, ritenendo assodato che la gente fosse avvezza a svegliarsi sempre tardi. Troppo tardi.

    – Mozzetti? Dove sei? Fammi una cortesia, recupera la pratica dell’incidente della bambina. Cos’era? Inizio anno giusto? Dai che sti rincoglioniti si svegliano quando gli fa comodo.

    Il mio sottoposto mi portò quanto gli avevo richiesto.

    È brutto dire sottoposto, almeno in un momento storico in cui ogni sostantivo deve essere sussurrato senza turbare la sensibilità altrui. Eppure un tempo, non molto lontano, queste accortezze erano solo un miraggio, e nemmeno tanto ambito.

    In ogni caso, il mio sottoposto mi portò il fascicolo.

    Prima di aprirlo tirai un grosso respiro, ricordando bene ciò che conteneva. La tristezza straziante che conteneva.

    Andai a leggere la comunicazione fatta all’autorità giudiziaria, saltando con determinazione tutti i fascicoli fotografici che c’erano.

    Era un sinistro stradale, un incidente. Uno di quelli che la gente stupidamente curiosa rallenta per vedere, lenzuolo bianco e annessi vari.

    Quella volta la centrale ci aveva inviato sul posto parlandoci di una fuoriuscita stradale in una strada di campagna. Un tizio era passato in macchina e aveva notato la vettura, senza avvicinarsi.

    Per fuoriuscita stradale si intende che una vettura, per qualche motivo e apparentemente non urtando altri veicoli, esce dalla sede stradale. Facile.

    E invece, puntualmente, facile un cazzo.

    Era buio, faceva freddo, e noi eravamo a fine turno. Vale a dire che non avevamo molta voglia di perdere un paio d’ore per rilevare un incidente. Ma del resto, le cose vanno semplicemente come devono andare.

    Il tizio della macchina, passato poco prima di lì per caso, era fermo ad attenderci, con le quattro frecce accese e il gilet catarifrangente indossato. Il collega lo identificò, facendosi spiegare quello che aveva visto.

    Guardai verso la macchina, una familiare blu cappottata su un lato a dieci metri da noi che, da quella posizione, ne vedevamo chiaramente il fondo. Sembrava una macchina giocattolo gettata nell'erba.

    Avevo chiesto al tizio se avesse notato qualcosa di strano nella macchina e lui, con una disarmante naturalezza, aveva risposto di non essersi avvicinato, di aver semplicemente atteso il nostro arrivo. Aveva preferito rimanere a guardare da lato strada.

    Di certo, per lui, era preferibile evitare di sporcarsi le scarpe.

    Mi ero messo a correre, saltando il piccolo fosso irriguo, sprofondando con le scarpe lucide nel fango del campo brullo. Avevo raggiunto la macchina, guardato dal vetro anteriore, frantumato.

    Non ricordo le mie parole, ma avevo urlato al collega di raggiungermi con una torcia e avevo telefonato alla centrale: ci servivano paramedici e pompieri.

    La donna, alla guida della vettura, era riversa sul finestrino, la cintura ancora agganciata. Non capivo se fosse viva. Iniziai a urlare, a cercare di svegliarla dallo stato in cui si trovava. Vidi un leggero movimento delle palpebre, e le dissi di non preoccuparsi. Le dissi che a breve l’avremmo tirata fuori da quel groviglio di lamiere schiacciate.

    Solo a quel punto, accanto a lei, notai un orsetto di peluche. Mi venne un dubbio. Girai attorno alla macchina e puntai la torcia dal retro, attraverso il cristallo frantumato.

    La vidi. Non bene, ma abbastanza per capire che era una bambina.

    Levai la giacca ed entrai, da lì dietro, verso i sedili posteriori. Strisciando mentre il mio corpo si lacerava sui cristalli.

    Era lì, incastrata tra il finestrino infranto e la nuda terra. Sangue, su tutta quella parte di veicolo. I suoi occhi erano aperti, ormai vitrei.

    Strisciai indietro, mentre le emozioni stridevano contro la mia freddezza, contro la mia esperienza. Sapevo che sarebbe stata una nottata lunga e dolorosa.

    Resoconto del sinistro:

    La conducente Resco Mariella, alla guida del veicolo, mentre percorreva la via Rivafredda ha effettuato, per motivi sconosciuti, una brusca sterzata verso sinistra che ha provocato l’intraversamento della vettura e la fuoriuscita della stessa dalla sede stradale, con successivo ribaltamento. Il veicolo, fuori-controllo, ha terminato la sua corsa nel campo attiguo alla sede stradale dopo aver superato il canale irriguo laterale. Il veicolo, in quiete, è risultato capovolto sul fianco sinistro, in direzione opposta a quella del senso di marcia. Non vi è traccia alcuna di frenata né di collisione con altri veicoli od oggetti. Il sinistro ha causato il ferimento della conducente, lussazione clavicola sinistra e frattura polso destro, e il decesso della di lei figlia, causato da trauma cranico e dissanguamento dovuto ad amputazione completa arto superiore sinistro.

    Rilessi quel piccolo sunto, senza curarmi troppo di tutto il resto. Cercando di passare oltre. Ricordavo ogni cosa di quella notte, abbastanza nitidamente. Avevo fatto tutto secondo le procedure standard, chiamando il magistrato di turno e tutte le menate varie. Dopo un paio di giorni, dopo essere stato sul posto con la luce del sole per cercare di capire meglio la dinamica, o meglio il motivo che aveva spinto la donna a quella brusca sterzata, avevo chiamato un collega del reparto investigativo di zona.

    Gli avevo detto che ero perplesso, che i conti non mi tornavano. Gli avevo detto che la donna, sebbene in stato di shock, non ricordava di aver sterzato né un motivo che potesse averla spinta a farlo. Gli avevo detto che non c’era nessun segno indicativo, sembrava un semplice e insensato cambio di rotta repentino.

    Gli avevo detto.

    E lui mi aveva risposto che l’investigativo non si occupava di sinistri stradali. Che la squadra rilievi non lavorava per quel tipo di fatti.

    Afferrai il telefono e chiamai il numero che avevo annotato sul block notes qualche minuto prima. Il numero di quello stesso collega dell’investigativo a cui un mese prima avevo esternato le mie perplessità.

    – Collega, sono Negri. Ho il fascicolo sotto mano, ti faccio le copie di tutto, e ti metto le foto in una chiavetta. Un’ora circa e uno dei miei ti porta tutto.

    Due

    Dopo mangiato rientrai in ufficio, mentre poco lontano sentivo ticchettare uno dei ragazzi più giovani sulla tastiera, replicando meccanicamente alle parole di una signora anziana. Le avevano rubato la bicicletta mentre era dal panettiere.

    Capita.

    Presi in mano una delle pratiche che dovevo evadere.

    Dopo un anno e mezzo mi ero abituato molto bene a quella dimensione, sebbene avessi spesso nostalgia dei miei precedenti incarichi.

    Se guardavo la parete del mio ufficio, dietro di me, vedevo i ritratti di qualche avventura. Avevo lavorato nell’universo delle indagini per circa quindici anni, avevo fatto anche l’infiltrato. Più volte.

    Poi, c’è stato un poi.

    Una donna che mi ha fatto smettere, come spesso accade in queste storie da duri. C’è stato un giorno in cui, tornando da un’ennesima situazione di merda, le avevo sentito dire la parola papà guardandomi. Il giorno dopo avevo chiesto di venire trasferito ad altro incarico. Dopo aver cercato invano di farmi desistere, mi avevano accontentato, mandandomi a comandare un piccolo avamposto. Una piccola casermetta. Qualche contravvenzione per le cinture, qualche furto di bicicletta o in abitazione. Qualche piccolo fattaccio tipo stalking, genitori menati dai figli tossici, cose così. La chiamano ordinaria amministrazione, anche se di ordinario c’è ben poco.

    Quel giorno dovevo scrivere il resoconto di un'attività di indagine recente: due famiglie di vicini si erano denunciate reciprocamente, e i fatti erano gravi. Una parte aveva il cane che pisciava sul muro dell’altra, che aveva il ciliegio che sconfinava sulla rampa del garage dell’altra. Il caso dell'anno.

    Avevo inseguito criminali di alto livello, mi ero infiltrato in pericolose cosche. Eppure le cattiverie tra vicini sembravano toccare livelli di ingiustizia assurdi, almeno a sentire le dichiarazioni dei denuncianti.

    Anche se il tenore di queste situazioni appare lieve, il lavoro che c’è dietro non lo è, assolutamente. Cosa che mi aveva fatto capire ben presto come, anche se su piccola scala, gli addetti a quel genere di incarico fossero spesso più oberati della categoria degli investigatori, a cui per anni ero appartenuto.

    Il telefonò squillò.

    – Sì, sì, sono io, Negri. Comandi, dica.

    Il procuratore capo che chiamava. Strano. E per strano intendo preoccupante.

    – La chiamo per un fatto piuttosto sgradevole, se mi consente. Lei ha inoltrato una notizia di reato, dagli atti che ho sotto mano l’ha deposita il dodici gennaio, in merito un sinistro stradale mortale. Leggendo mi chiedo come possa un addetto ai lavori sorvolare un accadimento così anomalo, me lo consenta. Insomma, un’auto che così, dal nulla, esce di strada. Non ha pensato fosse opportuno approfondire, magari con dei rilievi tecnici?

    Deglutii.

    Prima la telefonata del collega, poi del magistrato. Entrambe sullo stesso argomento. Tipico segnale che stava per piovere merda, e io non sapevo se avevo un ombrello.

    Avrei voluto rispondere a tono, dire che in realtà qualche domanda me l’ero fatta. Dire che in realtà avevo avvisato quel cazzone di collega ma se ne era sbattuto. Avrei voluto, ma non era il mio genere. Risposi vagamente, dicendo che avevo fatto quanto previsto per situazioni di quel genere.

    – Sì, Negri, ma mi consenta di affermare che ci vuole flessibilità. Adattamento. Purtroppo sembra che questa vicenda sia collegata a un’altra situazione, e a questo punto immaginerà anche di cosa parlo. a ogni modo, c’è un’indagine che ho delegato personalmente a Ruggeri, mi aspetto che cerchiate di chiarire qualche punto. Sa Negri, un procuratore più rigido l’avrebbe censurata, ma non è mia intenzione, sebbene dovrò di certo parlare di questa situazione con i suoi superiori. Per il futuro, ne rammenti.

    Tirai un bel respiro, la mia prostrazione da sbirro diligente stava arrivando al culmine. Quell’uomo non sapeva nulla di me, eppure mi giudicava alla stregua di un cazzone incompetente e superficiale. Non dovevo rispondere a quella sua velata provocazione, i miei superiori non avrebbero gradito.

    – Signor procuratore, ha tutte le ragioni del mondo. Uno sbirro più infame avrebbe detto di aver fatto tutto il possibile, e magari avrebbe distribuito le colpe a chi di dovere, ma non è mia intenzione. Mi spiace per l’inconveniente, mi metterò a disposizione di Ruggeri. La saluto.

    Attesi il suo saluto, poi agganciai.

    Sicuramente avrebbe chiamato il mio superiore diretto, quello che comandava l’area. Anzi, probabilmente avrebbe chiamato il capoccia che comandava l’intera provincia. A breve ne avrei avuto riscontro, sicuro che ben presto il telefono si sarebbe messo a suonare.

    Respirai a fondo.

    Avrei preso a schiaffi quel coglione di Ruggeri. Gli avevo detto a suo tempo che era meglio farsi qualche domanda, ma abituato com’era a indagare su falsi invalidi e ragazzini che spacciavano il fumo non aveva ben compreso.

    Pensai alle parole del magistrato. Aveva detto che potevo immaginare quello di cui stava parlando, l’argomento dell’indagine. Eppure, pensando a quella drammatica sciagura, non mi veniva in mente nulla.

    Dopo qualche minuto, trascorso fissando il soffitto bianco, pensai di esserci arrivato.

    Squilli continui.

    – Cazzo.

    Sapevo già che dall’altro capo del telefono c’era un mio superiore.

    – Sì, pronto.

    – Negri, mi devi spiegare come fa uno con la tua esperienza a non approfondire una situazione così dubbia. E mi devi anche spiegare come si fa a parlare in quel modo al procuratore capo. Mi ha assicurato che non chiama i piani alti, ma dico io, diamine. Se per caso scappa la notizia devo relazionare su di te, non ci sono santi. Mi spieghi questa cosa?

    Il mio superiore era bravo, nulla da dire. Mi aveva accolto con entusiasmo, e mi aveva sempre apprezzato.

    Eppure, quando non ci sono santi.

    – Senta, quattro mesi fa, fuoriuscita stradale con una donna, conducente, ferita. La bambina sul sedile dietro morta. Il giorno dopo, se non mi sbaglio, o forse due giorni dopo, sono stato là a cercare di farmi un’idea e mentre ero lì a vaneggiare ho chiamato Ruggeri chiedendo se mi mandava la rilievi. Vuole che le dica cosa mi ha risposto? Non credo. Mi spiace comandante, anche di aver risposto al procuratore. Ma che cazzo, mi ha parlato come a un interdetto. Non credo di aver fatto omissioni comunque, gli atti dell’incidente li ho depositati regolarmente, tutto secondo protocolli.

    – Va bene, Negri. Che non succeda più una cosa del genere, con Ruggeri ci parlo io. Robe da matti. Che poi non ho ancora capito quale sia il nesso tra i due fatti, o se ci sia un nesso. Il procuratore ha delegato un’indagine.

    Mi morsi le labbra, mi ero già fatto un’idea sul motivo di queste chiacchiere, di questo improvviso interessamento. E non perché fossi un genio, ma perché i giornali ne avevano parlato per giorni.

    – Comandante, posso chiederle di che parliamo? Se posso, altrimenti non importa. Peraltro stamattina ho già fatto recapitare a Ruggeri la copia di tutto quello che avevo.

    – Dai Negri, uno come te. Queste cose le dovresti capire subito. L’incidente di gennaio, quello che hai rilevato, una bambina morta. Poi c’è la bambina che hanno trovato morta qualche giorno fa in quella vecchia fabbrica. Indovina un po’, entrambe quattro anni, a entrambe manca il braccio sinistro. Non è granché, ma nemmeno poco.

    Non dissi nulla, nessuna risposta. Lasciai che i convenevoli e i modi standard di rapportarsi a un comandante mi permettessero di chiudere la telefonata.

    Quattro anni. Quattro. Come la mia bambina.

    Tre

    Era sera, ed era ora di andare a casa. Scaricai per l’ultima volta la posta elettronica dell’ufficio, giusto per essere sicuro che non ci fosse nulla di urgente da leggere.

    Il telefono squillò ancora. Ero indeciso se far rispondere a uno dei ragazzi di turno, ma evitai.

    – Pronto, sì. Ciao Ruggeri. Dimmi.

    – Ciao Negri, scusa per la fretta di oggi. Mi ha chiamato il tuo capo, ma senti, io… Insomma, non è che volevo darti la colpa, ma ho pensato che era inutile no, dire al procuratore tutta la storia no? Che poi quello si è fissato, insomma, guarda, lasciale fare a chi le fa sempre le indagini no? Comunque, scusa per l’incomprensione. Hai saputo vero cosa pensa quello? Praticamente la bambina della fabbrica, quella trovata morta…

    Lo interruppi.

    – Ruggeri, per la storia del procuratore non importa, ma se mi censurava o faceva casino non ti avrei coperto. Te lo dico sinceramente, se sbaglio abbasso la testa, ma non mi prendo bastonate per gli altri. Se hai risolto col mio capo, per me va bene. Per il resto, per la storia, io indagini non ne faccio e non ne voglio fare. Non prendertela, ma non voglio saperne niente di quelle storie.

    Ruggeri rimase leggermente spiazzato, come se fosse implicito essere curiosi e desiderosi di sapere i dettagli della vicenda.

    Ci salutammo.

    Un investigatore professionale non avrebbe voluto condividere alcuna informazione sul suo lavoro e questo particolare, sommato alla maniera di parlare del collega, lo classificava senza dubbio nel sottoinsieme degli investigatori del cazzo.

    Salutai i ragazzi e uscii dall’ufficio. Accesi la macchina e partii.

    A casa era come sempre tutto sotto sopra. Quando da giovane sbirro avevo avuto occasione di eseguire dei sopralluoghi in case depredate dai ladri, mi ero sempre meravigliato, quasi disgustato, del disordine delle famiglie con bambini piccoli. A qualche anno di distanza la mia casa ne era un lampante esempio.

    La vita moderna, e i suoi folli costi, avevano imposto che sia io che la mia compagna lavorassimo. I rispettivi genitori facevano da baby-sitter a tempo indeterminato, soprattutto mio padre, che con l’arrivo della nipotina era improvvisamente ringiovanito.

    La piccola Francesca mi corse incontro, come sempre. Aveva in mano dei pennarelli, con cui come al solito si era imbrattata anche la faccia.

    Sveva, la mia compagna, era ai fornelli. La salutai, mentre critico analizzavo come un giurato quello che stava preparando. Dopo aver ricevuto un paio di insulti andai a levarmi la divisa, a nascondere la pistola.

    Entrai in doccia, veloce. Non volevo togliere tempo alla mia bambina, visto che avevo fatto tardi in ufficio e l’avevo vista poco.

    Tornai con il pensiero al lavoro, ai problemi della giornata. A quelle telefonate. La mia idea, consolidata nell’ultimo periodo, era che il lavoro venisse in secondo piano.

    Avevo passato anni sulla strada, molti anni operativi. C’erano stati momenti stupendi, e altri terrificanti. Ma la caratteristica principale di quegli anni era l’egoismo intrinseco della mia occupazione, che come una droga assuefacente mi aveva ammaliato e costretto a pensare solo al lavoro. Solo alla caccia ai criminali.

    Sotto sotto non ero cambiato, avevo le stesse capacità e le stesse inclinazioni, ma avevo trovato nella famiglia uno stimolo diverso. Soprattutto quando era nata Francesca: da quell’istante mi ero sentito parte di qualcosa.

    In tempi passati, dopo gli input di quelle telefonate, mi sarei gettato a capofitto nell’argomento. Avrei chiamato a destra e sinistra con l’arroganza e la brama di poter indagare sul caso.

    In tempi passati.

    Mentre mi asciugavo pensai alla bambina dell’incidente, alle parole del mio superiore. Da quanto mi aveva detto sembrava che quel fatto fosse collegato con un’altra bambina morta.

    Pensai.

    Una decina di giorni prima, abbastanza lontano da me seppur nella stessa provincia, era scomparsa una bambina di quattro anni. Non ne ricordavo il nome, ma avevo ben presente la foto che avevano diffuso a tutti gli uffici di polizia e carabinieri per le ricerche. Fotografie inutili, visto che un paio di giorni dopo ne era stato trovato il corpo senza vita in una fabbrica abbandonata, poco lontano da dove era scomparsa.

    Una vecchia struttura facilmente accessibile, dove i bambini spesso giocavano, così avevano scritto i giornali.

    Un incidente, avevano scritto i giornali.

    Parole lette frettolosamente in qualche bar, frettolosamente per evitare di farmi avvolgere dalla tristezza di quelle macabre notizie.

    Mi guardai in faccia mentre mi spalmavo di crema idratante la fronte. Stavo invecchiando, mi stavo appesantendo, ingrigendo. Mi guardai, e scrollai la testa: il lavoro era in ufficio, e lì doveva stare.

    Scesi le scale e mi appollaiai sul divano, intento a guardare la bimba che fissava i suoi cartoni nello schermo del salotto.

    Dopo cena guardammo ancora un po' di televisione, cartoni animati ovviamente. Stavo diventando un esperto del tema, mio malgrado. Quando ero stato un bambino i cartoni duravano dieci minuti, prima del telegiornale, o qualche ora nel primo pomeriggio. Ora canali esclusivi dedicavano intere giornate al genere. Ma la differenza abissale era il contenuto: un tempo i cartoni avevano un senso scialbo, al massimo rappresentavano una morale ultima che portava a capire la differenza tra giusto e sbagliato, tra saggio e stupido. I cartoni moderni invece erano istruttivi, con interazioni e esclamazioni studiate per educare i nanerottoli durante la visione.

    Nulla di strano nel sentire mia figlia urlare il nome di un colore in inglese. O un numero.

    I tempi erano proprio cambiati.

    La guardai salire le scale con un orsacchiotto in mano, facendosi aiutare nella scalata dalla madre.

    Quando Sveva scese nuovamente ero in coma, occhi semichiusi fissi su un film insipido. Chiacchierammo un po’ della nostra giornata, delle spese. Dell’asilo.

    Quattro

    Nei giorni successivi sbirciai i quotidiani locali con circospezione, attendendo di trovare qualche notizia su quell’indagine. Non venne pubblicato nulla, chi di dovere stava indagando in silenzio.

    Mi piacevano le indagini, mi piaceva scervellarmi alla ricerca di soluzioni intricate. Avevo abbandonato quel mondo per la famiglia, sebbene fossi conscio di aver lasciato indietro una parte di me.

    Nonostante questo, senza il bisogno di convincermi o di impormi rigidamente la scelta, ero contento di quel cambiamento.

    La vita dello sbirro ha svariate sfaccettature, tutti le immaginano ma solo chi ha prestato servizio in quei panni ha idea di cosa si stia parlando. Perché se vuoi fare lo sbirro, e sottolineo se vuoi, la parola che più ti suonerà nelle orecchie sarà una: sacrificio.

    Nella carriera avevo avuto occasione di vedere di tutto, gente arruolata per passione, per avventura, per comodo. Gente che cercava semplicemente un posto di lavoro. Inizialmente avevo pensato che quella motivazione fosse determinante, ma l’esperienza mi aveva dimostrato che non aveva importanza il motivo per cui un soggetto sceglieva quella carriera, importava piuttosto quello che uno voleva diventare.

    Una scelta iniziale che veniva smussata o acuminata dagli eventi, dagli inseguimenti, dagli arresti, dalle delusioni. Dai rospi ingoiati. Dalla solitudine e dalle ingiustizie.

    E mentre il mondo va a rotoli lo sbirro è lì presente, unico testimone costante delle disgrazie e delle brutture della vita.

    Costante.

    Lo sbirro che rileva gli incidenti stradali con pezzi di cadavere, che assiste il bambino finito tra le grinfie del pedofilo, che raccoglie il giovane morto di overdose. Che ascolta le parole della vittima di stupro.

    Lo sbirro che assiste nel suo invecchiare alle schifezze dell’universo. Lo sbirro che spera in un mondo migliore. Lo sbirro che contempla i limiti della razza umana.

    Quello era stato il mio trascorso, il mio cammino evolutivo.

    Il calore della famiglia mi aveva ridato delle emozioni dimenticate, come vedere un fiore germogliare tra i rifiuti.

    Era passato qualche anno da quando avevo abbandonato l’élite, da quando avevo smesso di occuparmi di grosse indagini. Quando avevo conosciuto Sveva vivevo un periodo folle, quasi patologico. Facevo l’infiltrato, e il peso psicologico scaturito da quell’esperienza era stato forte. Nonostante tutto, dopo la mia prima esperienza in quell’ambito, avevo continuato a farlo in altre operazioni, finché Sveva mi aveva convinto a mollare.

    Per convinto intendo che aveva raccolto i cocci della mia esistenza e me li aveva messi davanti agli occhi. La amavo anche per questo, perché senza presunzione o incazzature, aveva avuto la tenacia di non abbandonarmi al mio destino.

    Ero rimasto ancora impiegato in quell’ambiente, ma non più come infiltrato. Poi, con l’affermarsi e ampliarsi della nostra famiglia, avevo cambiato aria. Tutto graduale, tutto senza strappi.

    Ogni tanto sentivo i colleghi che erano ancora lì, fratelli che mentre mi raccontavano le loro avventure dicevano che ero stato saggio a levarmi di torno. Eppure loro erano rimasti lì.

    Appena ero stato assegnato al nuovo incarico, dove mi trovavo, i miei nuovi superiori mi avevano chiamato a rapporto. Avevo un buon curriculum, sebbene diverse macchiette punteggiassero la mia storia di sbirro: un trasferimento obbligato per condotta inappropriata, e qualche richiamo per i miei modi poco ortodossi di trattare con i colleghi, di ogni grado.

    – Negri, considerando le sue esperienze, qui si rilasserà di sicuro. Visti i suoi pregressi potrebbe valutare i reparti investigativi di zona, ma veda lei. Solo, le rammento che lavorare in divisa e con queste funzioni di comando impone, diciamo, una certa metrica, un certo tratto.

    Avevo annuito cortese, dicendo che per un po’ avrei preferito evitare il mondo investigativo.

    Annuire: di solito funzionava.

    I miei superiori erano intenzionati, ovviamente, a farmi rendere il più possibile. Perché per loro, giustamente, la dedizione alla causa è la priorità. Non si erano chiesti perché avessi mollato, non era un loro problema.

    Sarei diventato anch’io come quei vecchi sbirri in divisa, con i capelli sempre regolati, la rasatura perfetta e il dopobarba scadente? Uno di quelli rassicuranti ma ancorati a un antico sistema, a uno statalismo che avevo sempre ritenuto poco efficace per combattere la delinquenza?

    Sì, forse lo sarei diventato. Ma non mi interessava, avevo trovato la risposta, e la trovavo ogni sera quando a casa mia figlia mi correva incontro. Potevo accettare benissimo la barba fatta e l’anestetizzazione.

    A quel punto era passata una settimana da quelle telefonate, e pensavo erroneamente di essermela scansata indenne.

    Squilli.

    Senza darmi il tempo di rispondere uno dei miei raccolse la telefonata. Qualche istante, seguito da un lontano cenno di assenso.

    Risposi.

    – Negri, che stai facendo? Tutto in ordine?

    Il comandante era rilassato, ma era ovvio che dietro l’angolo c’era la fregatura.

    – Sai per quella cosa, l’incidente, sì, il procuratore vuole riceverti. Non ha specificato il tenore della cosa. Su suggerimento dei piani alti ci sarò anch'io, giusto per vedere. Ci vediamo alle due, domani, e andiamo. Mi raccomando, niente scenate, andiamo calmi e vediamo.

    Un buon modo per far precipitare l’andamento di una giornata. Venni assalito da una vaga preoccupazione. Non era un buon segno quell’appuntamento in procura, soprattutto considerando che il magistrato aveva chiamato il mio capo per invitarmi.

    Forse, pensai, voleva chiarire per bene il concetto, magari umiliandomi davanti a tutti. Oppure, dopo aver valutato gli elementi che avevano, in particolare il mio lavoro, aveva deciso di indagarmi imputandomi qualche omissione. Quest’ultima variante era pessima, avrebbe comportato una spesa folle in termini di avvocato.

    – Cazzo.

    Ci pensai. Ero convinto di non aver fatto nessuna omissione. Presi la pratica e la rilessi, cercando di trovare qualche falla, ma niente. Magari il magistrato si era indisposto per il mio comportamento, decidendo di indagarmi sulla base di qualche sua semplice supposizione. Se così fosse stato le accuse sarebbero sicuramente cadute, ma i soldi per le spese legali li avrei comunque scuciti.

    – Fanculo.

    Cinque

    I viaggi in macchina con i superiori erano sempre noiosi. Nei reparti investigativi le cose andavano diversamente, il vestire in borghese, le esigenze di anonimato e di ridurre ogni cosa al suo senso più pratico permettevano di evitare i formalismi della vita in divisa.

    Sotto il colletto stretto e la cravatta mi sentivo costipato, arbitrariamente obbligato a comportamenti da etichetta.

    – Negri, sai che ci sarà anche Ruggeri. Se il procuratore dovesse provocarti, spero di no, evitiamo di fare figuracce. Siamo tutti nella stessa squadra in fin dei conti.

    Guardavo fuori dal finestrino, mentre le gocce di pioggia rigavano il vetro alla rinfusa. Come era abituale, una volta in procura, ci fecero aspettare mezz’ora prima di riceverci. Ruggeri mi aveva dato la mano, salutandomi. Ancora non sapevo cosa aspettarmi, ma l’idea di finire nei casini per causa sua non mi piaceva. Era stato un codardo.

    Il procuratore arrivò, seguito dal suo fidato segretario. Non lo avevo mai conosciuto di persona, visto che le materie che trattavo riguardavano amenità di poco conto. Il dottor Solari era sulla sessantina, alto un metro e novanta, slanciato e composto, calvo. Ben vestito, decisamente. Si sedette lentamente e ci indicò delle sedie. Erano due, ed essendo il più basso in grado dovetti stare in piedi.

    Un uomo accorto mi avrebbe invitato a prendere una sedia nell’ufficio accanto. E visto che un procuratore è certamente un uomo accorto, pensai che fosse la sua prima manifestazione di ostilità nei miei riguardi.

    – Chiarisco un punto agli antipodi di questa discussione: nessuno dubita del vostro operato né lo giudica in maniera negativa. Tuttavia, se mi permettete, qualche linea di acume, ahimè, sembra esservi mancata. Esaminando i vostri scritti, ed esaminando le due situazioni di cui parliamo, qualche quesito che un anziano magistrato si è posto poteva anche venirvi. O è forse normale che due bambine della stessa età muoiano di disgrazia perdendo entrambe il braccio sinistro?

    Silenzio. Mentre i suoi occhi rimbalzavano nei nostri sguardi imbarazzati. Ognuno di noi avrebbe dato una risposta diversa.

    Il mio superiore avrebbe detto che tecnicamente era stato un problema di raccordo tra gli uffici, ma che era nostra intenzione rimediare con immediata lena. E per nostra significava che i suoi sottoposti non avrebbero dormito fino a indagine conclusa.

    Ruggeri avrebbe detto che era oberato di lavoro, e che la valutazione sull’incidente non spettava a lui. Magari avrebbe anche detto che le fasi lunari non erano propizie.

    Io avrei detto che Ruggeri era un coglione, e che lo avevo invitato a dare un’occhiata alla cosa, mentre del secondo fatto non ero ovviamente a conoscenza.

    Silenzio.

    Rimanemmo in silenzio.

    L’ufficiale sospirò delle scuse collettive per la distrazione, dicendo che era stata una svista. E aggiungendo, come da mia previsione, che era nostra intenzione rimediare con immediata lena.

    – Allora, Ruggeri giusto? La mia idea è che dovete scavare, e scavare bene. Perché in tutta la mia carriera ho osservato che cose così, che si ripetono in così poco tempo, sono rare. E allora, prima che si finisca tutti in pasto alla stampa che si sa, sono fastidi, prima di questo fughiamo ogni dubbio sulla questione. Ecco, la incarico di questo. E lei, Negri, capisco che dalla sua posizione queste cose non le tratta e magari non le ha mai trattate, ma visto che il primo fatto è occorso nei suoi ambiti può dare qualche ausilio, magari mostri bene l’area al suo collega. E niente pubblicità sull’argomento. Attendo aggiornamenti. E ora, se mi potete scusare…

    Il nostro ufficiale, composto e formale, si alzò di scatto. Diede la mano al magistrato e ci fece cenno di uscire. Era probabilmente deluso del fatto che il procuratore non lo avesse interpellato, né avesse avuto direttive da impartirgli. Ma del resto, nessuno lo aveva invitato, era lì per tutelarmi, almeno a suo dire.

    Tirai un respiro di sollievo, felice di non essere uscito con un avviso di garanzia tra le mani.

    La bassa opinione di me, esternata dall’uomo quando mi aveva giudicato inesperto in materia, era fastidiosa. Eppure non me ne fregava un cazzo, non avevo interesse a dimostrare nulla a nessuno.

    – Negri, qui la situazione non mi piace. Che facciamo? Ci facciamo trattare così, all’angolo? Insomma, magari mettiti d’accordo con Ruggeri. Magari dividetevi un po’ di lavoro. Anzi, fammi sentire al provinciale che dicono. Queste figure non ci fanno bene.

    Tipico. Le figure. L’etichetta.

    Dietro queste espressioni, dietro questi ragionamenti, fa sempre eco il sostantivo carriera. Una delle prime lezioni che si imparano in questo tipo di lavoro.

    C’è sempre qualcuno che deve fare carriera, scivolare come uno sciatore nella greve discesa, facendo slalom tra le notizie della stampa, gli scandali, i delitti irrisolti. Cercando di non sfiorare nessuno degli ostacoli disseminati lungo il percorso.

    Dal lato opposto, a valle, ci sono quelli che il lavoro lo vivono in quanto tale. Quelli che cercano di fregarsene e risalgono la ripida salita con un unico obiettivo: catturare i colpevoli. Gente nell’ombra, che generalmente fa poche chiacchiere. Sbirri.

    Il mio comandante era pensieroso. Il sottile cicchetto del magistrato imponeva una reazione servile e rapida per ritornare nelle sue grazie. Malgrado ciò, Ruggeri dipendeva da un altro capoccia, quindi il mio comandante diretto non poteva decidere un cazzo, non poteva imporre la sua autorità, non aveva voce sull’area investigativa.

    Io, sinceramente, ero sollevato e silenziosamente entusiasta. Potevo tornare alle mie vecchiette truffate dal falso tecnico dell’acqua.

    – Negri, io dico al provinciale che siamo a disposizione. Poi, decidano loro, più di questo.

    – Giusto, comandante.

    – Ma scusa, se mi permetto. Ma quella cosa, quando ha detto che non hai mai fatto esperienze in quell’ambito, correggimi, quando ha detto così, perché non hai replicato? Non credo che Ruggeri abbia fatto

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