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La Gualchiera di Fabriano
La Gualchiera di Fabriano
La Gualchiera di Fabriano
E-book357 pagine4 ore

La Gualchiera di Fabriano

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Info su questo ebook

Fabriano, 1330. Guglielmo Visconti, braccato dagli sgherri del cugino Azzone, signore di Milano, aveva trovato rifugio presso l'eremo di Montefano quando il vescovo di Camerino decide di inviarlo a Fabriano per scoprire cosa si cela dietro la morte di uno stimato mastro cartaro.

Calandosi in una realtà in bilico tra il governo del podestà e la prepotenza dei Chiavelli, decisi a porre la loro signoria sulla città, si trova coinvolto in tumulti

e scontri di piazza, alimentati anche dal fervore religioso dell'Inquisizione intenzionata a combattere dall'interno il ghibellinismo dei fabrianesi, fino alla

scoperta della verità.

Tra storia e finzione, personaggi straordinari animano un romanzo in cui rivive un affascinante affresco dell'Italia medievale.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2013
ISBN9788891115065
La Gualchiera di Fabriano

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    Anteprima del libro

    La Gualchiera di Fabriano - Gianni Perticaroli

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    La Gualchiera di Fabriano

    - Una Cronaca Medievale -

    Gianni Perticaroli

    Titolo | La Gualchiera di Fabriano

    Autore | Gianni Perticaroli

    Immagine di copertina a cura dell’Autore

    ISBN | 9788891115065

    Prima edizione digitale 2013 

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

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    A Luciana e Sandro,

    per avermi indicato le strade del mondo

    La Gualchiera di Fabriano

    Gianni Perticaroli

    Copyright © 2013

    Utente Normal Utente 3 2 2013-06-08T07:35:00Z 2013-06-08T07:36:00Z 89 66833 380951 3174 893 446891 14.00 800x600

    INCIPIT

    Quando nella mia mente ha preso forma l’idea di redigere queste cronache per prima cosa ho disposto sullo scrittoio tutto il necessario. Risme di carta di Fabriano già piegata in quinterni, alcune penne d’oca, il taglierino per appuntirle, il calamaio e la fiaschetta con l’inchiostro, la mollica di pane per cancellare gli errori appena fatti con l’inchiostro ancora fresco e anche il cialandro per lisciare la carta e per levare via qualche errore a inchiostro ormai asciutto. Nella mente avevo un progetto chiaro, in apparenza facile da realizzare. Mi sarebbe bastato prendere una penna e porre sulla carta la mia vita in tanti episodi successivi. Era come se li vedessi nella mia mente già completi e scritti fino all’ultima lettera. Avrei potuto narrarli per ore senza interruzione almeno finché la mia voce avesse retto.

    Invece per giorni, sono riuscito unicamente a tracciare ghirigori e disegnare scarabocchi, indeciso su come iniziare. Qualche volta sono persino arrivato a scrivere qualche paragrafo, ma mi sono affrettato a gettare il foglio nel camino poiché mi appariva lontano da ciò che desideravo raccontare. E tutto perché non riuscivo a decidermi con quale episodio cominciare.

    Ogni evento è importante per chi l’ha vissuto, anche le sciocchezze. Anzi, talvolta sono proprio queste ad apparirci nei nostri ricordi più nitide dei fatti rilevanti. L’insieme degli uni e delle altre compone l’intricata matassa dell’esistenza di ciascun individuo e non è davvero facile scegliere un evento quale punto di partenza da cui iniziare a raccontare poiché ci sembrano tutti a loro modo degni di tale ruolo.

    In pochi erano a conoscenza del mio progetto. Anzi, a ripensarci bene, ne avevo fatto parola soltanto con un monaco dell’eremo di Montefano che fu mio amico e confessore finché rese l’anima all’Onnipotente.

    Fu proprio lui a darmi lo spunto per iniziare a scrivere e a fissare sulla carta la storia della mia vita. Della mia seconda vita. Questo devo precisarlo.

    Sono stato un soldato, ho combattuto per la gloria d’imperatori, nobili e signori, ho impugnato la spada e mi sono lordato le mani del sangue di nemici e traditori. Mi sono abbeverato alla fonte della gloria e mi sono saziato di onori ma ho conosciuto anche il sapore amaro della sconfitta e il disonore della fuga.

    Accadde così che uno dei fili della matassa della mia esistenza si strappò ed io fui costretto a cambiare vita. Fu una scelta che in principio mi parve dolorosa ma di cui, in seguito, non mi sono mai pentito. Della mia vita di soldato non scriverò nelle cronache se non per rendere il racconto più chiaro o per spiegare fatti e cose che altrimenti risulterebbero incomprensibili.

    E questo lo dissi chiaramente al monaco il quale mi fece capire come in realtà avessi già in punta di penna la soluzione alla mia indecisione.

    «Un uomo che desideri narrare la storia della sua vita normalmente inizia il suo racconto con il momento in cui lascia la confortante sicurezza del grembo materno. Per te, invece, sarà il momento della tua rinascita a una nuova vita» mi disse.

    Così iniziai a scrivere.

    Decisi di cominciare le mie cronache con un episodio di cui non fui protagonista e che mi fu raccontato ma che segnò l’inizio della mia nuova vita.

    È il prologo alle cronache e anche alla storia di un uomo nuovo.

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    PROLOGO

    Fabriano, mese di settembre nell’Anno di Nostro Signore 1330

    Ruggero Sanucci azzardò qualche passo incerto fuori dalla taverna dei Cicchetti. Il vino di Egidio era delizioso, ma non tardava a rivelare i suoi effetti quando se ne beveva più del dovuto.

    «Non dovresti bere tanto. Sei ancora molto giovane» disse rivolto a Claudio Gionantoni, il figlio diciottenne del suo datore di lavoro, il cartaro Alberico. Anche lui barcollava rischiando pericolosamente di finire con le terga a terra.

    «Non sono poi tanto giovane come dici. Sono abbastanza forte per lavorare tante ore quante te e poi non tarderò a prendermi una moglie» ribatté cercando di mostrarsi stizzito. La sua voce, però, sembrava più che altro un sommesso gorgoglio.

    «Non avere fretta. E poi non dovrebbe sposarsi tuo fratello per primo? Ha quasi ventiquattro anni ed è ora che si trovi una moglie.»

    «Lorenzo non ne ha voglia. Corre dietro a troppe gonne perché qualcuna lo possa prendere sul serio» disse. Le sue parole di disappunto non si trasformarono in un aperto biasimo soltanto perché il vino lo aveva reso molle.

    Intanto si erano lasciati alle spalle la piazza del mercato e un passo incerto dopo l’altro oltrepassarono anche la chiesa di San Nicolò.

    «Non dovresti andare di là?» chiese Claudio al suo compagno di bevuta, indicando una strada alla loro destra.

    «No, preferisco accompagnarti. Nello stato in cui ti trovi potresti non riuscire a trovare la strada di casa. E poi tuo padre mi ammazzerebbe se dovesse accaderti qualcosa. Mi darebbe la colpa per averti portato sulla cattiva strada.»

    «Ti ho già detto che non sono un bambino.»

    «Ed io sono soltanto un uomo prudente» ribatté Sanucci.

    L’aria fresca delle prime ore della notte aveva già avuto un effetto benefico su di lui. La testa non gli girava più e non era rimasto che un sibilo che gli faceva ronzare le orecchie di continuo. Era una conseguenza per aver alzato il gomito. La conosceva e aveva imparato a sopportarla senza grande fatica.

    Per Claudio, invece, quella doveva essere la seconda o la terza sbronza in tutta la sua vita e non sembrava proprio che l’aria fresca avesse dissipato i fumi del vino. Se non lo avesse sorretto sarebbe caduto senza riuscire a rialzarsi finché non si fosse ripreso. Non poteva permettere che gli accadesse qualcosa. Non adesso, perlomeno. Messer Gionantoni stava per mettersi parecchi quattrini nelle tasche e non voleva privarsi della possibilità che qualcosa finisse anche nelle sue. Certo, mastro Gionantoni era un buon padrone e alcune volte lo sentiva amico, tuttavia non era andata come avrebbe voluto, ma era comunque deciso a sfruttare ogni opportunità. Era stufo di guadagnare soltanto dieci lire anconetane per il suo lavoro di ponitore nella bottega di Gionantoni. E per di più senza vitto. Persino un conciatore di cuoio guadagnava quasi quanto lui e, magari, con il vitto incluso.

    «Prudente o no, non voglio che mi faccia da balia. Ora prendi la tua strada e vattene a casa tua» controbatté il giovane Gionantoni.

    «D’accordo, non ti accompagnerò fino a casa. Però devo andare alla bottega di tuo padre per accertarmi che vada tutto bene.»

    «Ma non l’hai già fatto stasera? Ti ho dovuto aspettare dai Cicchetti. Neanche fossi una bella donna.»

    Sanucci non replicò. «Ora ti lascio. Sei pronto?»

    «Sì.»

    Sanucci sfilò lentamente il suo braccio da sotto quello del giovane. Claudio dapprima rimase in piedi immobile poi fece un passo, quindi un altro, ma prima che facesse il terzo, Sanucci gli aveva già afferrato il braccio un’altra volta per impedirgli di cadere a faccia avanti.

    «Stavi cadendo.»

    «No, me la stavo cavando benissimo.»

    «A me non sembrava. Vuoi riprovare?»

    «Sì. E non azzardarti a riprendermi il braccio.»

    «Come vuoi. Se sbatterai la faccia per terra saranno fatti tuoi» disse.

    Fece due passi, il terzo cominciò a traballare, il quarto era piegato in avanti, ma poi rimase in piedi e riuscì a camminare a passo spedito come sospinto da una forza misteriosa. L’inerzia lo spingeva in avanti come una mano invisibile. La sua risata si perdeva nella notte silenziosa.

    «Stai attento» gli gridò Sanucci e poi rimase a osservarlo mentre svoltava nella strada che l’avrebbe portato a casa sua. Ormai non era lontano. Peggio che gli potesse capitare era di dormire per qualche ora all’aperto non lontano dall’uscio di casa.

    Sanucci oltrepassò uno dei ponti sopra il Castellano e si diresse verso la gualchiera di Gionantoni. Ormai era completamente sobrio. Non poteva andarsene a casa prima d’aver controllato una cosa.

    Il fetore del sudiciume rilasciato dagli stracci in macerazione lo colpì, avvertendolo che ormai era quasi giunto a destinazione. Non si era ancora abituato a quella puzza, nonostante lavorasse con il cartaro da molti anni ormai.

    Alla luce di una torcia accesa poco distante gli parve che fosse tutto in ordine.

    Un rivolo d’acqua usciva dalla gualchiera e defluiva nel Castellano. Durante la giornata, durante la lavorazione, talvolta s’ingrossava fino a diventare un torrentello.

    Un momento. Il colore dell’acqua aveva un tono scuro… Era strana.

    S’inginocchiò. Il Castellano mormorava calmo a pochi passi da lui. Mise una mano sotto il rivolo e raccolse una manciata d’acqua color bronzo. O almeno così gli parve.

    Si alzò e si avvicinò alla torcia.

    «Dio misericordioso» esclamò.

    Non era color bronzo. Era rosso, un rosso intenso e minaccioso. Nonostante il fetore, gli parve di poter sentire l’odore di ruggine. L’odore del sangue.

    Rovesciò la mano e gettò via le poche gocce come se la sua mano si fosse scottata. Cercò di ripulirsela sui pantaloni.

    Poi tornò alla gualchiera e questa volta vi entrò. Era successo qualcosa là dentro, si disse mentre accendeva lo stoppino di una torcia.

    Una luce giallastra si diffuse nella gualchiera.

    Stava sudando benché quella notte di inizio autunno fosse molto fresca. Gli parve che anche il sibilo alle orecchie fosse scomparso.

    «C’è qualcuno?» chiese.

    Un rumore sommesso lo fece sobbalzare.

    Fu tentato di tornare fuori, ma resistette alla tentazione.

    Poi lo vide e un urlo gli morì in gola.

    Il corpo di Alberico Gionantoni giaceva straziato nella vasca di contenimento della pila a magli.

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    CAPITOLO I

    Fuccio Marcellini, medico personale del vescovo di Camerino, stava riponendo nella sua borsa gli attrezzi dopo averli attentamente ripuliti. Io ero sdraiato sul tavolo e mi diede un’occhiata, ma non si sentì di dirmi nulla. Aveva fatto tutto quanto gli era stato possibile, ma non poteva essere sicuro che l’intervento fosse riuscito nel migliore dei modi.

    Avevo aperto gli occhi e osservavo il medico. Notai che i suoi movimenti non erano per nulla rilassati e non sembrava a suo agio. Gli occhi, poi, vagavano nella stanza ed evitavano di incrociare il mio sguardo. Lo interpretai come un cattivo segno. Percepii un’altra presenza nella stanza. Da un angolo Fratello Simone, il priore dell’eremo di Montefano osservava la scena. Il religioso del monastero dei silvestrini aveva l’aria assorta e forse un po’ preoccupata. A ogni buon conto, aveva fatto tutto quanto in suo potere per aiutarmi. Il medico del vescovo non lasciava quasi mai il suo prezioso assistito per un tempo tanto lungo e, grazie alla sua richiesta, era giunto al monastero già la sera precedente.

    «Continuerò a zoppicare, dottore?» domandai mentre tentavo di rialzarmi.

    Il medico, sentendosi interpellato, ebbe un sussulto che quasi gli fece cadere a terra uno dei suoi preziosi attrezzi.

    Finalmente volse il suo sguardo verso di me. «Messer Visconti, l’intervento sembra riuscito, ma è presto per dirlo» rispose. Il suo tono era decisamente scettico.

    «Mi state dicendo la verità o nelle vostre parole c’è solo pietà per uno storpio?» volli sapere.

    «Oh, non siete storpio. Finora zoppicavate leggermente e perciò il mio intervento di certo non avrà peggiorato il vostro stato a meno che non mi consideriate un pessimo medico» disse con un sorriso. Poi si rivolse al priore. «Comunque sia possiamo sempre sperare in un miracolo di Dio.»

    Il religioso gli scoccò un’occhiata torva. Non avrebbe mai pensato che il medico dello stimato vescovo potesse parlare in modo tanto scanzonato di Nostro Signore. «Lasciate stare Dio e auguriamoci che voi siate riuscito nel vostro intento.» Si rivolse poi a me. «Abbiamo pregato Nostro Signore perché voi possiate riacquistare l’uso della vostra gamba. Confidiamo nella sua infinità bontà.»

    Annuii e mi rialzai mettendomi a sedere sul tavolo operatorio.

    Non era storpio, solo una leggera zoppia. Così mi aveva detto il medico.

    Dio aveva creato l’uomo con due gambe per un Suo fine e per lo stesso fine aveva voluto che camminasse, corresse, saltasse in modo armonico e ordinato senza traballare come se fosse sempre sul punto di cadere. L’armonia, l’ordine che Dio aveva dato al Suo Creato di cui anche il genere umano ne faceva parte.

    Avevo saputo usare bene le mie gambe. Ero stato un combattente che, grazie alla forza del mio braccio, alla perizia nell’uso delle armi e alla rapidità dei miei movimenti, avevo fatto una brillante carriera militare.

    Ero poco più che un gracile ragazzino quando mi ero unito all’esercito di mio zio Marco e nel giro di pochi anni ne ero diventato uno dei più fedeli e affidabili luogotenenti. Sin dalle prime battaglie che avevo combattuto ad Alessandria e a Vercelli avevo dimostrato il coraggio che possedevo e l’ardore che mettevo nelle mie azioni. Con il tempo, inoltre, il mio fisico si era irrobustito ed ero diventato un combattente forte e temibile e abbinavo l’uso della forza all’acume dello stratega. Questo molti dicevano di me.

    Ero un combattente leale e giusto e mi ero sempre premurato di uccidere solo per obbedire agli ordini del mio comandante o per aver salva la vita in battaglia. E, naturalmente, per la gloria dei Visconti e di Milano.

    Il mio futuro si annunciava, perciò, radioso e carico di onori e di trionfi, ma poi tutto mi era stato strappato per aver giurato fedeltà a Marco.

    Quando nel giorno dell’Ascensione della Vergine Maria dell’anno 1329, rientrammo a Milano, mio zio Marco Visconti era osannato e onorato dai cittadini, acclamato dal contado e accolto con gioia dalle milizie che tante volte aveva condotto in vittoriose battaglie. Azzone, figlio di Galeazzo I, Vicario imperiale di Milano, di recente nomina da parte dell’imperatore Ludovico il Bavaro grazie ad un abbondante corrispettivo in fiorini, aveva visto in lui un nemico ambizioso e pericoloso e aveva perciò deliberato di farlo uccidere.

    Qualche giorno dopo il rientro in città, Marco ricevette una richiesta di incontro da parte di suo nipote Azzone. Nella missiva recapitatagli v’era indicato il luogo ed il giorno dell’incontro, il giorno quinto del mese di Settembre.

    Da qualche giorno, però, mio zio era fuori di sé dalla rabbia per aver scoperto tradimenti e macchinazioni alle sue spalle e intuii anche che il suo animo era martoriato dalla recente scomparsa della donna che amava.

    Con questo stato d’animo, accolse la richiesta di Azzone di un incontro per cercare di spiegarsi e finalmente di chiarirsi per il bene di Milano.

    Il giorno prestabilito si recò al Broletto Nuovo e mi chiese di accompagnarlo. Non volle nessun altro con noi per dimostrare che non aveva timore di quell’incontro e per palesare la fiducia che aveva nel nipote per recuperare un rapporto compromesso da anni di rancori e rivalità.

    Quando vi giungemmo, ci indicarono dove il vicario imperiale ci aspettava e là ci recammo.

    Azzone ci stava attendendo affacciato a una finestra, dando le spalle all’uscio. Non appena varcammo la soglia, si voltò e allargò le braccia come un padre che accoglie un figlio dal rientro da una lunga separazione.

    Questo era un segnale ma non lo capimmo e mio zio si diresse fiducioso verso il suo carnefice.

    La porta alle nostre spalle si chiuse con uno schianto e alcuni uomini con le cotte di maglia e armati di spade e pugnali uscirono dai loro nascondigli.

    Fummo aggrediti.

    Io mi posi dinanzi al mio mentore e patii i primi colpi. Fui ferito all’addome e alle braccia e due sgherri si accanirono contro di me con ferocia. Un fendente mi colpì dietro il ginocchio. La gamba cedette all’istante e rovinai al suolo. Mi ridussero in tal modo all’immobilità e non riuscii più a correre in soccorso di Marco.

    Lo ferirono al fianco, alle spalle e all’addome. Vedevo le lame calare con crudeltà sul corpo di mio zio che pur si difendeva riuscendo a colpire e disarmare due degli assalitori. Ma il numero ebbe il sopravvento su di lui e il suo sangue cominciò a lordare il pavimento. Le forze gli vennero meno.

    Si addossò a una parete, ormai vinto. Ansante e sconfitto fissava suo nipote con disprezzo mentre gli sgherri lo immobilizzarono.

    Azzone fece un sorriso beffardo e poi gli si avvicinò. Lo fissò per un istante poi gli cinse il collo con le mani e strinse con forza finché Marco morì.

    Poi per scempio trascinò il suo corpo e lo gettò dalla finestra come fosse un fantoccio di nessun valore.

    Fu poi il mio turno. Mi preparai a subire la stessa sorte ma non fu così.

    «Puoi andare. Ti darò un certo vantaggio, ma poi ti farò inseguire e se ti troveranno verrai ucciso. Ora vattene, non perdere tempo» mi disse con un laido sorriso. Era certo che non sarei riuscito a scampare alla morte.

    Feci appello alle mie ultime forze residue e mi rialzai. Faticavo a stare in piedi ma fuggii prima che i sicari finissero il lavoro in quella sala.

    Benché ferito, riuscii a scappare. Mi nascosi e i sicari di Azzone non riuscirono a trovarmi. Sapevo che però non sarei riuscito a fuggire a lungo se fossi rimasto in città perciò decisi di lasciare Milano.

    Ferito, vagai come un fuggiasco nei villaggi che fino a qualche giorno addietro mi avevano acclamato ma che ora temevo che mi avessero voltato definitivamente le spalle. Nel mio vagare mi unii a una carovana che proveniva da Avignone e procedeva verso Roma. Un monaco benedettino in cammino con la carovana si prese cura di me. Mi curò le ferite e mentì per evitare che la guardia e i soldati di Azzone che pattugliavano il territorio mi facessero prigioniero.

    «Spero che Nostro Signore perdoni le mie menzogne» aveva detto il monaco.

    «Lo farà, Fratello Tommaso. Voi avete mentito per il bene di un fratello cristiano. Tuttavia, gradirei che non mentiste sulle condizioni della mia gamba.»

    «Non l’ho fatto.»

    «E per quale motivo non riesco a camminare?»

    «Perché ci vorrà del tempo prima che le ferite si rimarginino» mi rispose.

    «Le ferite guariranno, lo so. Ma riuscirò a camminare? Il mio ginocchio smetterà di essere rigido come fosse fatto di granito?» gli avevo chiesto.

    «Me lo auguro» aveva risposto il monaco che poi aveva innalzato una preghiera al Cielo.

    La carovana proseguì il cammino in direzione sud. Passò da Mantova e da Bologna, lungo le vie dei pellegrini. Fece tappa a Loreto poi risalì verso nord, proseguì per Caselfidardo, Matelica, San Severino, dopodiché avrebbe raggiunto Fabriano e poi Sassoferrato, l’ultima tappa prima di raggiungere la Via Flaminia che correva verso Roma.

    Io rimasi con i miei compagni di viaggio poiché non avevo intenzione di tornare a casa. Non potevo farvi ritorno. Preferivo che la mia famiglia pensasse che ero morto. Non volevo mostrare loro lo stato in cui ero ridotto. Zoppo, povero come un mendicante e senza più alcuna ambizione. Nessuno, nemmeno la donna che mi si era promessa in sposa, mi avrebbe riconosciuto. Ero soltanto l’ombra dell’uomo che ero stato.

    Nei pressi di Fabriano, Fratello Tommaso, era stato colto da un malore e aveva messo fine al suo peregrinare. Trovò rifugio presso il monastero fondato da Silvestro Guzzolini di Osimo in Montefano dove fu accolto dai suoi confratelli. Ancora una volta decisi di rimanere con lui e, a mia volta, trovai ospitalità nell’eremo dei silvestrini benedettini.

    Era il primo giorno dell’anno 1330 di Nostro Signore.

    A un mese di distanza dall’intervento del medico chirurgo del vescovo di Camerino, camminavo nei dintorni del monastero saggiando la resistenza del mio ginocchio. Non lo sentivo più rigido e tentai addirittura un paio di piegamenti senza risentire alcun dolore.

    Preferivo non mostrarmi particolarmente ottimista, eppure mi parve che la gamba avesse ripreso a funzionare. Non volevo dire che avesse ripreso completamente le funzionalità di un tempo – per quello ci sarebbero volute settimane – ma perlomeno camminavo senza zoppicare e senza provare alcun genere di fastidio.

    Mi chiesi se fosse merito del medico oppure del tanto invocato miracolo dell’Onnipotente.

    Dopo aver passeggiato, sedetti su un muretto basso di pietra e lasciai vagare il mio sguardo nella vallata sottostante. Fabriano si estendeva poco al di sotto. La costruzione della nuova cinta muraria procedeva velocemente e al suo completamento mancavano ormai soltanto pochi tronconi. Nell’arco di poche settimane sarebbe stata ultimata. Da lassù riuscivo a distinguere il profilo delle vecchie mura di Castelvecchio e del Poggio, anche detto Castelpodio, i due insediamenti fortificati dalla cui unione era nata la città, della prima cinta muraria e di alcune chiese. Ne conoscevo il nome poiché Fratello Tommaso me l’aveva indicato, ma non avevo mai avuto il piacere di visitarle benché mi trovassi al monastero già da molti mesi. A dire la verità non avevo mai varcato le porte della città.

    «I progressi sono evidenti» disse il priore che mi era giunto accanto.

    «Non vorrei si trattasse di un’illusione passeggera, ma concordo con voi.»

    «Perché tanto pessimismo?»

    «Perché ci sono già capitato. Un medico… Forse dovrei dire un ciarlatano, mi aveva applicato un unguento che mi permise di camminare senza dolore per alcune

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