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E-book313 pagine4 ore

Biglietto di sola andata

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Info su questo ebook

Le vite del commissario capo Erica Franzoni e del vicequestore Antonio Maffina sono sconvolte da una serie di efferati delitti che portano tutti la stessa firma. Chi si cela dietro la maschera che terrorizza i viaggiatori della linea Genova-Torino? Quali avvenimenti hanno sconvolto la mente del piccolo Michelino? E perché la stessa Erica diventerà il bersaglio delle telefonate del serial killer? Un thriller emozionante e ricco di colpi di scena pubblicato già anni fa nei Gialli Mondadori.
LinguaItaliano
Data di uscita4 gen 2014
ISBN9788875639471
Biglietto di sola andata

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    Anteprima del libro

    Biglietto di sola andata - Annamaria Fassio

    PARTE PRIMA

    (da febbraio a fine maggio 2000)

    Solo l’esperienza estrema induceva nell’individuo

    mutamenti radicali nella sua struttura psicologica.

    Bruno Bettelheim, La fortezza vuota

    1

    A scoprire il cadavere fu Tancredi, anche se poi Lorenzo e Biscardi si presero tutto il merito, e in televisione finirono loro e non Tancredi, che per tale motivo non rivolse mai più la parola agli amici...

    Era un vecchio di circa settant’anni. Giaceva contorto sulla massicciata, subito dopo la stazione di Arquata Scrivia, in un tratto dove i sambuchi e le acacie avevano formato una sorta di giungla rigogliosa e selvaggia. Più oltre si poteva vedere il tracciato dell’alta velocità tagliare di netto la campagna.

    Tancredi vide prima una scarpa, poi un’altra, poi un piede di un colore rosso-viola, dove il bianco delle ossa si confondeva con il giallo sporco di un calzino. Un rimasuglio di calzino sul quale si arrampicavano nere schiere di formiche.

    – Ehi, guardate un po’ qua! – aveva sussurrato come in soggezione davanti a quel corpo che la sera imminente riempiva di ombre. Il crepuscolo stendeva i suoi colori da cartolina sulle rotaie e dieci metri più a valle lo Scrivia scorreva placido e inquinato come ogni giorno. – Guardate un po’ qua. – Ora la voce di Tancredi si era alzata stridula. Aveva voglia di mettersi a piangere, di vomitare, di correre da sua madre, di scomparire. Invece era rimasto impalato a guardare il cadavere gonfio di gas. Un liquame nero e spesso usciva da due osceni buchi neri che dovevano essere stati gli occhi.

    Si chiamava Alessandro Dallorto, aveva settantatré anni, abitava appena fuori Asti, in una zona residenziale sulla statale per Torino. Viveva solo, era vedovo da almeno una decina d’anni e per tale motivo nessuno l’aveva cercato né si era curato di denunciare la sua scomparsa. I documenti erano stati trovati in una tasca interna della giacca, insieme a pochi spiccioli e alle carte di credito.

    Tancredi prima, Lorenzo e Biscardi poi giurarono di non aver toccato nulla né di aver visto alcun oggetto di fianco al cadavere.

    E perché poi avrebbero dovuto trovare qualcosa? Alessandro Dallorto era morto già da un pezzo quando era stato rinvenuto dai tre ragazzini.

    Suicidio? Omicidio? Rapina?

    Tutto era possibile, e per una settimana Dallorto era stato in prima pagina, insieme alla guerra in Palestina. In quei giorni Tancredi era stato convocato spesso in commissariato, almeno tre volte, poi sua madre si era stufata e l’aveva spedito dai nonni a Pavia. E così Lorenzo e Biscardi erano rimasti soli a raccontare di quel pomeriggio in cui risalendo la ferrovia si erano imbattuti nel povero Dallorto.

    – Era tutto rosicchiato dai vermi – continuava a ripetere Biscardi.

    Lorenzo faceva di sì con la testa; s’infilava un dito nel naso e annuiva ripetendo: – Tutto rosicchiato dai vermi.

    Da Voghera arrivò anche una parente della vittima. La donna si presentò all’Ospedale Nuovo di Alessandria accompagnata da due agenti della Polfer. Era una mattina fredda e nuvolosa e la donna (anche lei si chiamava Dallorto) si strinse nella corta giacchetta di lana.

    – Non è un bello spettacolo – l’avvisò il medico sollevando il lenzuolo.

    – Mica so se è lui... Mica so se è Alessandro – sospirò lei facendo una smorfia. E fu tutto. Era il 15 febbraio.

    2

    In casa stava squillando il telefono. Antonio Maffina, primo dirigente della Squadra mobile di Genova, lo sentì nel momento in cui arrivò sul pianerottolo, dove una finestra lunga e stretta gettava una luce smorta sulle mattonelle sbrecciate del pavimento. Era una domenica di marzo ventosa con accenni di sole in un cielo slavato e pallido.

    – Dottore, mi scuso – disse la voce nasale dell’agente semplice Padovani. – Un’emergenza. Abbiamo mandato una macchina a prenderla. Dovrebbe essere lì a minuti.

    Maffina sentì il suono della sirena nel momento in cui chiudeva la comunicazione.

    In via Diaz c’erano almeno cinque macchine con i lampeggiatori accesi e un andirivieni di agenti in divisa. L’autista che aveva prelevato Maffina non si era sbilanciato più di tanto: c’erano stati tafferugli allo stadio, ma nulla d’importante, i soliti esagitati della domenica. – Il puttanaio, dottore, è successo a Castelletto. Da non crederci... Un quartiere così per bene!

    Pier Francesco Tofano si era sempre considerato un uomo fortunato: penalista di successo, una solida famiglia alle spalle, una moglie che era stata Miss Liguria nei gloriosi anni Sessanta, due figlie, Federica e Alma, che sembravano il ritratto da giovane della madre. Abitava in corso Solferino, in un superattico di duecento metri quadrati, e a Genova era stato uno dei primi, se non il primo, a servirsi di domestici di colore. Una vita fortunata, pensava spesso Pier Francesco. Amava molto la vita, la sua professione, scopare con la moglie nonostante tutti quegli anni alle spalle, dare del tu ai potenti della città.

    Tutto questo si spezzò una domenica di marzo. Erano le sei di sera quando Pier Francesco Tofano uccise un domestico, le figlie Federica e Alma, e poi si barricò nella camera da letto insieme alla moglie e al fucile a canne mozze.

    Il questore Luzzi aveva chiamato in sede i dirigenti e i commissari (oltre a Maffina erano presenti Pisani, Lucenti e Viacava) e parecchi agenti del NOCS, e ora se ne stavano tutti ammucchiati intorno alla sua scrivania in attesa di istruzioni. Quelli del NOCS, in bomber nero, passamontagna e giubbotto antiproiettile, avevano un viso impenetrabile, come a voler rimarcare la loro diversità.

    – Il portinaio ha un mazzo di chiavi, naturalmente. Lo ha già consegnato ai nostri agenti – stava dicendo Luzzi.

    – Chi c’è laggiù? – chiese Maffina.

    – La Franzoni. È brava, no? – Il questore spiegò che era stata Erica a ricevere la segnalazione. Erica era da pochi mesi commissario capo. Aveva superato il concorso a pieni voti ma, nonostante fosse abilissima nel negoziare e nel rilasciare interviste equilibrate ai media, la sua carriera stentava a decollare.

    – La Franzoni ha chiesto subito rinforzi. Dobbiamo studiare una linea d’azione, e alla svelta. – Luzzi guardò l’orologio. – La telefonata è arrivata non più di venti minuti fa. Siamo ancora in tempo a fermare quel folle o no?

    Maffina si strinse nelle spalle. – Chi ha chiamato?

    – I vicini del piano di sotto. Hanno sentito le urla delle ragazze e subito dopo gli spari.

    – Quanti spari?

    – Non lo sanno.

    – Come non lo sanno?

    – È un tormentone. Qualcuno ha parlato di due spari, altri di tre.

    – E la Franzoni che dice?

    – Ha già chiamato i pompieri e la Croce, naturalmente, e ha allertato gli ospedali.

    – Quante persone ci sono in casa?

    Luzzi scosse la testa. – Non lo sappiamo con esattezza. Le figlie, la moglie, probabilmente qualche domestico...

    Maffina spense la sigaretta con un gesto brusco. – Dobbiamo trovare qualcuno disposto a entrare in casa, capace di negoziare. Non voglio lasciare Erica da sola.

    – È un ottimo elemento, ma tra il dire e il fare... – E il questore gli lanciò uno sguardo eloquente.

    Dieci minuti dopo erano davanti alla casa di Tofano. Sul marciapiede si era radunata una folla consistente; c’era pure un sacerdote che guardava ansioso le grandi vetrate dell’edificio. Alcuni pompieri si stavano arrampicando lungo una scala. Nonostante fosse ancora chiaro, potenti riflettori illuminavano la facciata del palazzo dove gli stucchi e i decori Liberty sembravano ingigantiti.

    – Ho dato io l’ordine – disse Erica senza nemmeno salutare. Il suo viso era pieno d’ombre.

    Maffina notò che aveva il giubbotto antiproiettile slacciato. – Il giubbotto – disse facendo un gesto con la mano.

    Erica lo allacciò automaticamente, il viso proteso verso l’alto, i piedi che battevano nervosamente sul selciato. – Ora che siete arrivati possiamo tentare anche dalla porta. – Indicò i vigili del fuoco che avevano quasi raggiunto la terrazza. – Da quella parte si affacciano tutte le stanze di rappresentanza, almeno così mi ha detto il portinaio.

    – Speriamo che Tofano sia in qualche altra stanza.... Io salgo con loro. – Maffina alzò lo sguardo verso l’attico, dove una selva di piante esotiche si stagliava contro le ombre della sera.

    Fu in quel momento che sentirono altri spari.

    Sembravano tutti morti quando Maffina riuscì a entrare in casa. Le due ragazze giacevano a pochi metri una dall’altra nel bel salone le cui finestre si affacciavano sulla terrazza. La più giovane delle due, seppe poi che si chiamava Alma, aveva cercato di fuggire e probabilmente non era morta subito, vista la scia di sangue che si era lasciata alle spalle. In cucina, riverso in una pozza di sangue, c’era un domestico. Tofano gli aveva sparato in pieno viso. Infine Maffina trovò la moglie di Tofano in camera da letto. Il penalista l’aveva legata alla spalliera del letto, l’aveva sodomizzata con una bottiglia rotta (i frammenti di vetro erano sparsi in ogni dove) e infine le aveva sparato alla testa.

    Poi aveva ricaricato l’arma e aveva cercato di farla finita.

    Il pronto soccorso del Galliera era intasato di giornalisti, poliziotti e personale paramedico. Maffina si fece largo tra la folla cercando, per quanto possibile, di passare inosservato. Finalmente intercettò Erica. – E allora? Hai saputo qualcosa?

    – È ancora vivo. L’hanno portato in sala operatoria proprio adesso.

    – Cosa dicono i medici?

    – Non si sbilanciano.

    Maffina si guardò intorno. – Non vedo Luzzi.

    – È giù all’obitorio insieme a Beneventi. Volevano dare un’occhiata alle vittime.

    – Perché tanta fretta?

    Erica si passò una mano sugli occhi. Parlò con voce raschiante. – Non lo so e nemmeno voglio saperlo. Non dimenticherò mai quella scena, mai! Che mestiere di merda, il nostro.

    E Maffina non seppe cosa risponderle.

    3

    Gli anfibi nuovi le avevano procurato una grossa vescica sul calcagno. Un piede appoggiato alla vasca da bagno, l’altro saldamente ancorato al tappetino di spugna, Erica osservava con aria critica la pelle rossa e infiammata. C’era anche del pus, una macchiolina gialla e spessa venata di rosso.

    – Merda! – imprecò. Prese del cotone e dell’acqua ossigenata e incominciò a pulire la ferita; poi applicò il Cicatrene e mise il cerotto. Zoppicando andò in camera da letto alla ricerca di un paio di calzini puliti. Infine rimase in maglietta e mutandine, ferma davanti allo specchio a guardarsi con aria critica. Ultimamente era ancora dimagrita e sul viso erano comparse nuove rughe, soprattutto intorno agli occhi e alla bocca. I punti dolenti.

    – Dovrei scopare di più – disse a voce alta. Fece una smorfia allo specchio. – E dovrei smetterla di parlare da sola come una demente. – Altra smorfia che le deformò i lineamenti. Scrollò due o tre volte la testa con forza, sino a quando i capelli non incorniciarono il viso come piaceva a lei. Gel sulla frangia e su un ricciolo vicino alla tempia. Dall’armadio scelse un paio di pantaloni elasticizzati e una maglia verde militare. Si guardò con aria critica, buttò via la maglia e prese una camicia bianca con il colletto di pizzo.

    – Non sono tagliata per fare soldato Jane – disse alla propria immagine. La camicia era di una stoffa morbida e leggera e le illuminava il viso. Infilò la Beretta nella borsa, prese una felpa e uscì di casa.

    Il treno di Daniele sarebbe arrivato solo di lì a un’ora.

    Appoggiato alla cancellata di ferro, Maffina osservava la gente ciondolare lungo corso Galileo Ferraris con la svogliatezza tipica di chi non ha nulla da fare. Nonostante il cielo fosse coperto, era una giornata calda e afosa, come spesso capita a Torino a maggio. Era domenica e lui aspettava Annalisa, ma come sempre lei era in ritardo. Finalmente comparve da via Magenta, camminando spedita com’era sua abitudine. Indossava una lunga gonna di seta indiana e si era tagliata i capelli. Al posto della treccia sfoggiava un caschetto liscio e compatto che a Maffina ricordò quello della Valentina di Crepax.

    – Come sono contenta che tu sia venuto! Finalmente una domenica insieme – disse Annalisa quando fu davanti a lui. Poi la sua bocca si tese in un sorriso, ma gli occhi rimasero seri e assorti.

    Anche Michelino quella domenica guardava la strada. In piedi sulla sedia, con i vetri ermeticamente chiusi perché sua madre aveva paura che cadesse, il bambino osservava il flusso dei passanti che curiosavano tra le bancarelle dei robivecchi, sciamando lungo Borgo Dora come un esercito di disciplinate formiche.

    Michelino guardava la strada e sognava il mare...

    Il cielo della pianura non è un cielo normale: la sua consistenza è diversa, com’è diverso il passaggio delle nuvole. Talvolta sembra che ti frani addosso, altre è lontano e la sua presenza è qualcosa di astratto. Altre, infine, è come assente, nascosto da un gran biancore che sembra annullare le distanze.

    Quella domenica di maggio il cielo sopra Felizzano si negava agli sguardi. La campagna era affogata sotto la calura precoce, e dalle strade a monte della stazione si alzava una nuvola di polvere bianca. Tutto era silenzioso e addormentato.

    Un paese di morti pensò Paola Carpi attraversando la piazza e infilandosi nella piccola stazione, dove due vecchie aspettavano il treno sedute sull’unica panca disponibile.

    Paola rimase in piedi. Era una donna ancora giovane, di corporatura robusta, con un viso largo e piatto da orientale. Indossava una gonna grigia e una lunga camicia che cercava di nascondere, senza troppo successo, i fianchi abbondanti. Paola guardò l’orologio della stazione (il treno era già in ritardo) e poi si protese lungo il binario, casomai le riuscisse di scorgere qualcosa.

    Quando lo squillo insistente della campanella annunciò l’arrivo del treno, Paola sorrise e si aggiustò la camicetta sui fianchi.

    – La luce in Morbelli è tutto – stava dicendo Maffina ad Annalisa. Erano seduti nella piccola caffetteria della GAM, davanti a due tazze di caffè. Annalisa si gingillava con il cucchiaino e l’ascoltava in silenzio. Maffina fumava e intuiva che stava parlando a se stesso. – C’è qualcosa di magico e nascosto nella sua pittura. Qualcosa che m’inquieta... Mi piacerebbe sentire il tuo parere – disse guardandola.

    Annalisa finì di bere il suo caffè. Quando parlò la voce conteneva a stento l’amarezza. – Questo quadro l’abbiamo visto una dozzina di volte, Maf. Non ti sembra di esagerare?

    Lui la fissò imbarazzato. – No, perché?

    Annalisa si strinse nelle spalle. – A me sembra una pittura morbosa e crepuscolare... Non è da te, Maf. Cosa ti succede?

    Lui le prese la mano in silenzio.

    Prima di Baldichieri il treno incominciò a rallentare sino quasi a fermarsi. Appoggiata al finestrino, Paola Carpi guardava la campagna deserta sotto quel cielo bianco e inclemente.

    Forse verrà a piovere pensò scartando una caramella. Torino sotto la pioggia doveva essere molto decadente, si disse. Sorridendo tra sé, pensò che lei era un po’ come la donna descritta da Pavese in quella poesia che le piaceva tanto... Si chiamava Deola, la ragazza? Di certo era uno spirito libero come lei, di certo avrebbe amato quella sosta in aperta campagna, in mezzo a colori che la foschia rendeva smorti e...

    Paola capì di non essere più sola.

    Il paesaggio per un attimo le ondeggiò davanti, le sembrò che per uno strano scherzo le si precipitasse incontro. Paola era una donna robusta e lottò a lungo, tirando calci e graffi dove capitava. Ora le mancava l’aria e faceva fatica a respirare; anche lo sguardo si era offuscato, ed era come se una spessa nebbia rossa fosse dilagata nello scompartimento.

    Si dibatté ancora alcuni secondi prima di restare immobile, lo sguardo vitreo spalancato su qualcosa che non poteva più vedere.

    Il quadro che aveva irritato Annalisa s’intitolava Un Natale al Pio Albergo Trivulzio e Morbelli l’aveva dipinto nel 1909.

    Maffina e Annalisa rientrarono nella sala e si misero davanti al dipinto cercando entrambi di guardarlo con gli occhi dell’altro. Rappresentava una stanza spartanamente arredata con panche messe in fila una dietro l’altra. Attraverso la distribuzione del colore, Morbelli era riuscito a dilatare lo spazio, dando l’idea della vastità e della solitudine. Un vecchio era appoggiato al muro e un altro sembrava dormire su una panca. Il corpo di quest’ultimo era scomposto, la testa rovesciata all’indietro, oscenamente abbandonata a un sonno simile alla morte. Una lama di luce guizzava sulle panche e tagliava il quadro in due.

    Questa luce è perfetta considerò Maffina. Guardò Annalisa cercando di capire quale fosse stato il senso profondo della loro discussione.

    – Non voglio perderti, Annalisa – disse piano.

    Lei sorrise.

    Michelino vide sua madre lasciare via delle Orfane e infilarsi nel piccolo archivolto che portava alla loro casa. Quando sentì la chiave girare nella toppa, corse tutto contento nell’ingresso. – Quand’è che mi porti al mare? – domandò tuffando il viso nella gonna della mamma.

    4

    – Il tuo look è aggressivo – osservò Daniele con una smorfia.

    – Ho messo su la camicetta bianca. – Erica cercò senza successo di sorridere.

    – A me sembra lo stesso un abbigliamento aggressivo – insisté Daniele. Il suo sguardo si perse sulle murate del grande veliero dove si diceva che Polanski avesse girato Pirati. – È la nave del film? – domandò con aria distratta.

    Erica si strinse nelle spalle. – Così dicono.

    Per un po’ rimasero in silenzio guardando il flusso dei passanti e sorseggiando gin tonic. Si era alzato il vento e le imbarcazioni ondeggiavano piano. Era tutto un tintinnare, come se qualcuno da qualche parte si divertisse a far risuonare invisibili conchiglie.

    – L’avvocato Maggioni ha aperto un nuovo studio – stava dicendo Daniele. I suoi occhi erano puntati su quelli di Erica. – Uno studio molto grande, in piazza Castello. Cerca un socio, lo sapevi?

    Lei scosse la testa.

    – Un socio giovane disposto a occuparsi della parte penale. Si potrebbe combinare qualcosa, no?

    – Combinare cosa? – Erica distolse lo sguardo. S’infilò la felpa e accese una sigaretta. – Combinare cosa, Daniele? – ripeté. – Io ce l’ho già un lavoro. Qui. A Genova. – Scandì le ultime tre parole, che rotolarono tra loro come pietre. Guardò la lunga fila di persone ferme davanti all’Acquario. Il piede aveva ripreso a farle male e cercò di sfilarlo dal mocassino. – A me piace il mio lavoro. Non tormentarmi più, per favore. – Ma sapeva che quello era appena l’inizio di una lunga serie di lamentele e rimostranze. – Oh, merda! – disse piano.

    Daniele scrollò la testa.

    Si lasciarono senza darsi un altro appuntamento. Erica accompagnò Daniele a Principe e rimase con lui sino all’arrivo del treno. Nessuno dei due aveva voglia di parlare perché qualsiasi cosa avessero detto in quel momento sarebbe risultata fasulla. Si scambiarono un bacio distratto, come vecchi sposi senza più entusiasmo, tuttavia continuarono a fare ciao con la mano sino a quando il treno non sparì nella galleria.

    Solo allora Erica lasciò la stazione.

    Con un senso crescente di panico, l’ispettore Vincenzo Pergolizzi della Polfer di Asti guardò il corpo della donna buttato di traverso tra i due sedili. Il treno era fermo alla stazione di Baldichieri, su un binario morto che finiva in un campo di granoturco.

    Erano le cinque del pomeriggio e stava piovendo.

    – Anche la pioggia ci voleva. – Pergolizzi guardò il viso gonfio e bluastro della donna, dove un pezzo di lingua grigia usciva dalle labbra screpolate e sporche di sangue. La donna doveva aver lottato prima di morire, perché la camicia era strappata e una scarpa era finita addirittura nel corridoio.

    – Chi è stato a trovarla?

    – Il controllore. – L’agente Gatti si schiarì la voce. – Doveva essere successo da pochissimo, perché il corpo era ancora caldo.

    Gatti era un ragazzone di trent’anni dal viso paffuto da bambino, e con uno sguardo languido che piaceva molto alle donne. Era entrato nella Polfer di Asti appena finito il liceo e da poco tempo era passato di grado. Fissò il suo superiore che aveva preso a tamburellare nervosamente sul vetro della porta. – Io non lo farei... No, dicevo, per le impronte, sa... – E lasciò la frase in sospeso.

    Maledicendo la propria sbadataggine, Pergolizzi chiese notizie della vittima.

    – Per ora sappiamo solo che si chiamava Paola Carpi e che abitava a Felizzano. Hanno trovato la patente vicino al cadavere; i carabinieri stanno rintracciando i parenti. Potrebbero arrivare da un momento all’altro.

    Chi non arrivava, invece, era il giudice. Pergolizzi e Gatti si predisposero a una lunga attesa.

    Il corpo di Paola Carpi venne rimosso alle 19. Pergolizzi guardò due agenti infilare la donna in un saccone di plastica grigia e spessa. Sul binario c’era sempre più gente: perdigiorno che allungavano il collo e sussurravano piano tra loro. Era arrivata anche la Rai e alcuni ragazzini si spintonavano per venire ripresi.

    – Vogliamo sloggiare, eh? – Pergolizzi sbraitò per alcuni minuti, rosso e accaldato, prima di rendersi conto che la sua era una battaglia senza speranza. Lasciò Gatti a parlare con i giornalisti e tornò ad Asti.

    Quando Gatti rientrò, trovò il suo superiore chino sul computer. Lo schermo era zeppo di tabelle e diagrammi e Pergolizzi usava il mouse come fosse una pallina da ping pong.

    – Così incasinerà tutto – osservò Gatti con aria di superiorità.

    Pergolizzi non rispose e continuò a far scorrere il mouse. Finalmente alzò lo sguardo. – Ti aspettavo più tardi.

    Gatti fece spallucce. – Mi ha dato uno strappo Dighero.

    – Dighero? E perché?

    – Ciondolava in

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