Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

1970: La tragedia dei desaparecidos brasiliani durante la finale della Coppa del Mondo
1970: La tragedia dei desaparecidos brasiliani durante la finale della Coppa del Mondo
1970: La tragedia dei desaparecidos brasiliani durante la finale della Coppa del Mondo
E-book138 pagine2 ore

1970: La tragedia dei desaparecidos brasiliani durante la finale della Coppa del Mondo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Tranquillo impiegato di banca, Raul è ciò che si definisce un buon cittadino: un ragazzo appassionato di calcio, devoto al suo lavoro e completamente estraneo a tutto ciò che ha a che fare con la politica. Questo, almeno, fino al giugno del 1970, quando, alla vigilia della finale dei Mondiali di calcio, mentre una strana euforia patriottica avvolge il Brasile, Raul viene scambiato per un militante comunista. Tratto in arresto, senza che nessuno sappia che fine ha fatto, Raul viene gettato in una cella in attesa che confessi qualcosa che lui non può affatto sapere. Un’ignoranza che non gli risparmierà le sevizie che la dittatura riserva ai suoi oppositori, ma che lo costringerà a fare i conti con quella che resta la pagina più buia mai vissuta dall’intero popolo brasiliano.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2022
ISBN9788867183685
1970: La tragedia dei desaparecidos brasiliani durante la finale della Coppa del Mondo

Correlato a 1970

Ebook correlati

Articoli correlati

Recensioni su 1970

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    1970 - Henrique Schneider

    Capitolo 1

    Porto Alegre — 21 giugno 1970, domenica — Poco dopo le dieci di mattina — Solstizio d’inverno e giorno della finale della Coppa del mondo

    Il sole, il chiarore.

    Questa cecità.

    Durante tutti i giorni di prigionia – non sapeva dire quanti– Raul aveva pensato al sole con nostalgia e speranza. Erano stati giorni bui – forse lo erano ancora – e pensare al sole che era là fuori, lontano, in un qualche luogo proibito e impossibile, dalla cella senza finestre in cui era stato gettato, era un modo triste per soffrire meno e cercare di non impazzire. Pensava al sole come a qualcosa che avrebbe rivisto il giorno dopo – perché questo significava anche credere che quel giorno sarebbe arrivato. Il sole visto in un cielo azzurro, con gli uccelli a volare in silenzio o in un allegro frastuono, sopra una città colorata o a campi verdi e vivi – paesaggi da calendario, qualunque cosa diversa dalle pareti umide e sporche in cui era confinato. Il sole come simbolo, qualcosa di bello ad attenderlo, una volta finito l’incubo di quell’errore e arrivato il momento di uscire. Il sole.

    Questo sole che adesso lo accecava, mentre si sfregava gli occhi lentamente e cercava di capire dove si trovava.

    Lo avevano tirato fuori dal cubicolo a spinte, senza preoccuparsi degli ematomi e delle ferite, ridendo come se stessero festeggiando, e dicendogli appena, tra una risata e l’altra, che c’erano novità che lo riguardavano. Lo avevano condotto nella stessa saletta dell’ufficio da cui era entrato, giorni prima (quanti?), porta e finestre chiuse, dopodiché gli avevano messo in testa un cappuccio di tessuto nero, senza fori, che puzzava di morte e che scendeva floscio e caldo fino al collo, occultandogli completamente la vista. L’uomo che gli aveva infilato il cappuccio in testa si era limitato a dire di non pensarci nemmeno a toglierlo, ma non era necessario – nonostante le mani e i piedi fossero liberi, Raul era paralizzato dalla paura e dall’impotenza, dall’incertezza su ciò che poteva rappresentare quella novità. Si limitò a restare immobile in quella nuova oscurità, sostenuto dalle forze risibili del suo corpo indebolito, in attesa di qualcosa che non conosceva, fino a che una mano brusca lo afferrò per il braccio e lo trascinò in direzione della porta.

    «Ciao, stronzo», sentì qualcuno dire e tutti risero.

    Raul venne depositato sul sedile posteriore di un’auto e si rese conto che due uomini si sedevano accanto a lui, uno alla sua sinistra e uno alla sua destra. Nei sedili anteriori, altri due uomini – lo capì dalla concitazione delle voci.

    «Adesso andiamo a fare un giretto», disse una voce indefinita, mentre si sentivano gli scoppi del motore di un’auto in accensione. Fu allora che Raul si accorse che era un giorno freddo.

    «Che ore sono?», si azzardò a chiedere, con un tono debole, dolorante.

    «Le nove e qualcosa», rispose una delle voci.

    «Di mattina o di sera?», Raul si incoraggiò a continuare.

    «Di mattina. E chiudi la bocca, birbante», rispose la stessa voce.

    Mattina, pensò Raul. Tempo di sole – e tornò a sorridere, con un certo sforzo, sotto il cappuccio. Adesso, c’era da aspettare quello che doveva accadere, lasciare andare la macchina senza sapere dove e abbandonarsi al conforto benefico di quel sedile, nel silenzio possibile, limitandosi a rispondere alle domande per quanto poteva, e se poi avessero smesso di picchiarlo, tanto meglio. Tanto meglio, ripeté – e si sentì interamente avvolto dal dolore, ferite aperte in tutto il corpo, ferite che facevano male in un modo diverso e che, nella migliore delle ipotesi, avrebbero richiesto un’eternità per guarire.

    Notò il rumore dell’auto in movimento e pensò che potesse essere una Chevrolet Opala. Mi piacciono le Opala, pensò. Per un lungo periodo, nessuno disse nulla; Raul tentò di mantenere il silenzio, farsi invisibile, nella speranza impossibile che nessuno dei quattro energumeni gli prestasse attenzione. Un silenzio con un che di malvagio, l’aria che si respirava male attraverso i finestrini aperti dell’automobile, un vento invernale ad abbattersi sul cappuccio maleodorante. Fino a che l’uomo alla sua destra gridò: «Porca merda, che puzza! Chi è stato il maiale?».

    I quattro risero, ma nessuno si fece avanti.

    «Sarà stato il comunista!», gridò lo stesso uomo, divertito, dando un buffetto sulla testa di Raul. Un buffetto debole, quasi uno scherzo, ma uno scherzo che sembrava ricordargli che, in qualsiasi momento, le cose potevano farsi nuovamente serie.

    «Comunista e scoreggione!», aggiunse un altro.

    Comunista, pensò Raul. Comunista lui, che non si era mai immischiato in politica – dalla banca a casa e da casa alla banca, tutti i giorni, la sua routine immutabile da lunedì a sabato (e pensò nuovamente alla madre, al dolore che doveva averla travolta negli ultimi giorni).

    «Senti un po’, birbante, stai attento», disse la voce proveniente dal posto di guida. «Ancora non sappiamo cosa faremo con te. Se ti liberiamo o se ti buttiamo giù da un dirupo. Adesso guidiamo un altro po’ e poi decidiamo, hai capito?».

    Gli altri risero e Raul preferì pensare che fosse una specie di scherzo. Non rispose nulla, non sapeva cosa dire.

    «Capito, zecca?», e l’uomo alla sua destra gli diede un altro scappellotto in testa, ora più forte; non scherzava più.

    «Sì», rispose Raul, con tono quasi impercettibile.

    «Sì come?», continuò la stessa voce.

    «Sissignore», si ricordò Raul, nuovamente umiliato.

    «Ah, molto meglio!», si rallegrò l’uomo. «Ma senti, lascia che ti dica una cosa importante, fai bene . Mi stai ascoltando?»

    «Sì…», una botta. «Sissignore».

    «Se fossimo brava gente, e penso che lo siamo, forse nessuno ti farà fare un volo. Magari tra un po’ ti lasciamo andare. Ce ne andiamo in giro ancora un po’, facciamo una passeggiata e ci godiamo il sole di questa mattina, poi ti liberiamo e ce ne andiamo tutti a casa a vedere la partita, in tranquillità. Hai capito?».

    Che partita? Si chiese Raul, senza dire nulla.

    «Ho capito, sissignore», rispose.

    «Dai, ragazzi, buttiamo giù la zecca! Così facciamo prima!», gridò l’altra voce dal sedile anteriore, e nel suo tono non sembrava affatto scherzare.

    «Vediamo, Raposo 1, vediamo… Dobbiamo obbedire agli ordini», rispose quello che sembrava essere il capo dell’operazione. Capo e autista.

    «Basta fargli qualche buco sulla schiena e dire che aveva tentato di scappare. Scrivi così nel rapporto».

    «Non è previsto alcun rapporto, Raposo».

    «Allora è ancora più semplice», ringhiò l’uomo.

    «Vediamo, vediamo…», poi, riportando la sua attenzione su Raul: «Senti ragazzo, presta attenzione a quello che ti dico adesso. Forse, e dico, forse, tra poco ti rilasciamo. E se dovesse andare così, ci sono due cose che il signor comunista deve sapere bene, ok?»

    «Sissignore».

    «Bene! Molto bene! È così che si parla!», e l’uomo rise, insieme ad altri due, senza che Raul riuscisse a sentire la risata di Raposo. «Il fatto è questo: è ancora mattina. Se ti lasciamo andare, sarà tra poco. Allora, ecco che cosa farai, resterai a gironzolare qui intorno e tornerai a casa solo quando sarà buio, capito? Anche perché tu non sai nemmeno in che città siamo. Ma è semplice: non tornartene a casa tua prima delle nove di sera. Non azzardarti a farlo prima. Continua a girare, passeggia, mangiati dei popcorn, conta i sassi sul marciapiede, ma non andare a casa. Non pensarci nemmeno, non metterti in testa di fare cazzate, perché noi ti controlleremo. Ti tengo d’occhio, sempre. Hai capito bene?»

    «Sissignore».

    «Adesso ripeti. A che ora puoi tornare a casa?»

    «Solo alle nove di sera, signore».

    «Molto bene».

    L’uomo commentò con gli altri: «Queste zecche, quando vogliono, le capiscono le cose. Ma allora perché non collaborano, perché vogliono soltanto rovinare il paese? Vallo a capire!», e, girandosi, schiaffeggiò il naso di Raul, che gemette a bassa voce.

    «E un’altra cosa, ancora più importante: tutto quello che sta succedendo non è mai successo! Non sei mai stato sequestrato! Mai! Tra poco sarai libero, ti comporti bene, te ne resti in giro per la città fino a sera. Hai tutto il tempo del mondo per pensare a una bella storia che spieghi la tua scomparsa. Inventati che volevi entrare in una setta, che stavi dietro a una figa, ma niente prigione! Hai capito? Hai capito?», e l’uomo gridava, fuori di sé.

    «Ho capito, sissignore», le parole di Raul erano ancora più sussurrate; i giorni di prigionia gli avevano insegnato che, quando la voce dell’altro aumentava, la sua doveva diminuire. E adesso pensava, con una certa tranquillità, che quegli uomini lo avrebbero davvero liberato. Non fosse stato così, non lo avrebbero riempito di istruzioni. Lo avrebbero liberato di lì a poco, era chiaro, il resto era teatro. E un’altra volta Raul sorrise, una gioia breve e occultata dal cappuccio.

    «Cos’hai capito?»

    «Ho capito che questo non è mai successo, signore».

    «Questo cosa, figlio mio?», quell’ironia.

    «La mia prigionia».

    L’uomo sul lato destro gli diede una sberla in faccia.

    «Com’è che parli di prigionia se non c’è stata alcuna prigione?», poi gli diede un altro schiaffo, un po’ più leggero, quasi divertito. «E questo è per esserti scordato di chiamarmi signore…».

    «Chiedo scusa, signore», il volto rosso, senza saperlo, l’umiliazione dietro gli occhi bendati. «Ho capito che non sono mai stato sequestrato, signore».

    «Ah, bene. Così va meglio. Dunque, ripetiamo: quali sono le due raccomandazioni?»

    «Torno a casa solo alle nove di sera, signore. Non sono mai stato sequestrato, signore».

    «Proprio così. E non dimenticarti: anche se ti liberiamo, sappiamo esattamente dove prenderti di nuovo. Verrai liberato, ma non te ne andrai. Hai capito?», e ripeté quello che aveva detto, sembrava orgoglioso della costruzione della frase.

    «Sissignore».

    «Questo figlio di puttana non la smette di ripetere sissignore!», gridò l’uomo dal sedile anteriore. «Non sa dire altro? Mi sta irritando!», e l’uomo diede un altro schiaffo in testa a Raul, che questa volta gemette ad alta voce, non riuscendo a trattenere i singhiozzi.

    «Calma, Raposo, calma! Il dottore ha detto di stare calmi! Vacci piano, oggi c’è la partita!».

    Ma chi se ne frega della partita, pensò Raul.

    «Va bene, va bene», l’uomo sul sedile anteriore sembrò calmarsi.

    «È solo che questi comunisti mi fanno una rabbia, sempre a ripetere la stessa cosa…».

    «Guarda che ti

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1