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È solo questione di tempo
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È solo questione di tempo
E-book397 pagine8 ore

È solo questione di tempo

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Info su questo ebook

Chi può avere interesse a uccidere un giovane broker appartenente ad una delle famiglie più ricche e influenti della città proprio durante il ricevimento nella villa di un imprenditore dai pochi scrupoli?
È solo uno dei tanti interrogativi a cui Guido Manfredi, giovane avvocato del Foro di Bologna, dovrà dare risposta. Nel corso della sua ricerca di una verità apparentemente inafferrabile Manfredi, suo malgrado, prenderà parte a un gioco pericoloso in cui non esiste più nessuna regola e in cui la posta in palio sarà la sua stessa vita.
LinguaItaliano
Data di uscita9 mar 2020
ISBN9788866603429
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    Anteprima del libro

    È solo questione di tempo - Massimiliano Rossi

    Ibico

    PROLOGO UNO

    «Stanotte ho fatto un sogno».

    «Che tipo di sogno?»

    «Sempre il solito».

    «Me lo vuoi raccontare?»

    «Ma è sempre lo stesso…»

    «Non ti preoccupare, prova a raccontarmelo ancora una volta. Mi piace stare ad ascoltarti».

    «All’inizio sono seduto su una poltrona, al buio. Non faccio nulla, non mi muovo, respiro lentamente ma sto bene. Il tempo passa e non succede nulla. Piano piano, apparentemente senza motivo, subentra una sensazione di attesa, come se dovesse accadere qualcosa da un momento all’altro. Comincio ad agitarmi, il mio respiro si fa più rapido e il battito di un cuore che non è il mio pulsa nella mia testa. La camicia che indosso è tutta sudata. All’improvviso si apre una porta e un fascio di luce abbagliante m’investe. Per vari secondi non vedo più nulla. Sento dei passi che si avvicinano. Ho paura. Cerco di ripararmi gli occhi con le mani, ma è tutto inutile. Percepisco la presenza di qualcuno in piedi davanti a me. Sono sicuro che è lui. Comincia a parlare.

    È proprio lui.

    All’inizio la voce è quasi un sussurro. Poi diventa sempre più fastidiosa. Il tono sempre più aggressivo. Non capisco bene le sue parole, non sono neanche sicuro che parli la mia lingua, eppure ho la sensazione che dica cose terribili. Il ritmo e l’intensità del battito aumentano e la testa mi fa sempre più male. Porto le mani alle orecchie per non sentirlo, ma è tutto inutile. Lentamente le sue parole diventano più comprensibili ma non hanno senso logico. Parlano di morte, di sangue, di vendetta e di maledizione.

    In quel momento mi mette in mano qualcosa. Il tocco delle sue dita è gelido e mi provoca un brivido che mi fa trasalire. Non voglio essere toccato da lui!

    Continuo a tenere gli occhi chiusi mentre lui mi parla. Improvvisamente decido che devo far cessare in qualche modo tutto questo. In quello stesso momento mi rendo conto che tra le mani ho una pistola, anzi, la mia pistola. La impugno con entrambe le mani in direzione della voce.

    Lui comincia a ridere in modo volgare e sguaiato, sa che sono un vigliacco e non riuscirò mai a premere il grilletto.

    Sparo.

    Nella mia mente la stanza diventa rossa e scende il silenzio. Me lo immagino riverso sul pavimento in una pozza di sangue. L’idea mi fa stare subito meglio. Non ho più paura. Non mi sento più un vigliacco. Mi alzo e apro la porta da cui è entrato. Ho la sensazione che adesso nessuno potrà fermarmi. Supero la porta e precipito nel vuoto sempre più velocemente. Sento, sempre più lontana, la sua risata che mi accompagna nella caduta. Un attimo prima di sfracellarmi al suolo mi sveglio di soprassalto».

    «Riesci a dare un significato al tuo sogno?»

    «Io lo odio. Solo quando lui morirà, potrò stare meglio».

    «Sei sicuro che se lui muore tu ti sentirai meglio? Non sembra che il sogno abbia un lieto fine».

    «Comunque starei meglio di come sto adesso. Prima di addormentarmi passo ore seduto sulla poltrona del salotto con la pistola in mano a domandarmi se il giorno dopo avrò il coraggio di ucciderlo. Tutte le mattine lo aspetto sotto casa sua, lo osservo mentre fa colazione al bar sfogliando il giornale, lo seguo fino all’ufficio. In fondo è diventato parte della mia vita. È solo questione di tempo, o muore lui o muoio io».

    «E se invece moriste entrambi?»

    «Penso che, dopotutto, ne sarebbe comunque valsa la pena».

    PROLOGO DUE

    L’uomo si era seduto sull’unica sedia libera. Dall’espressione si capiva che avrebbe voluto essere da qualsiasi altra parte, ma evidentemente non aveva avuto scelta. Di proposito, nello spostare la sedia, aveva fatto più rumore del necessario.

    Nulla in lui sembrava degno di nota. Altezza, peso, tratti somatici, tutto seguiva un cliché assolutamente anonimo. Forse proprio per questo aveva raccolto i capelli in una specie di codino, ma l’espediente non sembrava funzionare più di tanto.

    L’uomo che era seduto già da qualche minuto dall’altra parte del tavolo non lo aveva degnato di uno sguardo, mentre teneva in mano dei fogli che in apparenza catturavano la sua attenzione. In realtà stava solo recitando. Sentiva su di sé lo sguardo perplesso del Codino. Probabilmente era l’ultimo uomo che questi si sarebbe aspettato di incontrare. Era comunque chiaro chi tra i due avesse il controllo della situazione. 

    A un certo punto, senza sollevare gli occhi dai fogli che continuava a tenere in mano, l’uomo senza codino decise che era giunto il momento di affrontare la questione. 

    «È ovvio che hai un problema».

    Il suo tono era di quelli che non si aspettano repliche. Infatti il Codino non disse nulla. Non aveva senso dire qualcosa. Tutto era pacifico: lui aveva un problema e non aveva la soluzione. Anzi, a dirla tutta, una parte importante del suo problema era proprio quell’uomo basso e pelato che aveva davanti e che sembrava divertirsi a tormentarlo.

    Dopo qualche secondo che gli parve un’eternità, vide il Pelato con aria annoiata appoggiare sul tavolo i fogli ricoperti di appunti incomprensibili e mettersi a cercare qualcosa in tasca. Gli parve di sentire un debole rumore metallico. Il Pelato, che ormai non gli staccava più gli occhi di dosso, appoggiò il pugno chiuso al centro del tavolo e, dopo qualche istante, lo aprì con un movimento lento e teatrale. Nel suo palmo comparve una pallottola di piccolo calibro di colore argento.

    Il Codino rimase come incantato per qualche secondo ad osservarla. La sua mente cercava di decifrare in pochi attimi una situazione assolutamente imprevedibile. Si trovava di fronte un nuovo problema o la soluzione del primo? Sollevò lo sguardo verso il Pelato, che continuava a fissarlo, mentre un insolito sorriso gli deformava il viso. In quel preciso momento si rese conto di non avere più dubbi. Eh sì, quel sorriso non faceva proprio pensare a un nuovo problema.

    CAPITOLO 1

    "Si terrà questa sera, nella splendida cornice del palazzo di Terralta, all’interno dell’omonima tenuta di proprietà del commendator Radogna, un’importante iniziativa a sfondo benefico. Infatti, l’intero ricavato verrà devoluto all’Associazione Free World, che si occupa dell’assistenza di persone in difficoltà. Sono molte le autorità locali che hanno confermato la partecipazione alla serata. Tra gli altri, giusto per fare qualche nome, si segnalano...

    Madrina della manifestazione sarà la famosa attrice Stefania Dallari, che a giorni comincerà le riprese del suo nuovo film, con la partecipazione, in qualità di protagonista maschile, di… Tale serata di gala, fortemente voluta dal commendator Radogna, che si è dichiarato emozionato e commosso per l’attenzione dedicata alla sua iniziativa dai vari organi di informazione e orgoglioso per il concreto aiuto che ne deriverà per molte persone bisognose…, segnerà ufficialmente la fine degli imponenti lavori di restauro dell’edificio. Nei prossimi giorni, infatti, sono previste una serie di iniziative culturali, tra le quali concerti di musica classica e da camera, conferenze e mostre d’arte contemporanea. Va ricordato inoltre che il castello, gravemente danneggiato nel corso dell’ultimo conflitto, risale nella sua struttura originaria alla prima metà del ‘200 e…

    La serata prevede, oltre alla degustazione di pietanze medievali, la rappresentazione di un omicidio e la ricerca del colpevole da parte di un imbranato ispettore che sarà coadiuvato da…"

    Da Bologna News del 20 marzo.

    Il salone in cui io e il mio amico Paolo Pinardi eravamo entrati era un concentrato di tutto quello che, nel bene e nel male, la società contemporanea può offrire. Un trionfo di luci, di colori e di suoni, un insieme promettente e deludente allo stesso tempo. La festa era appena cominciata e dava la sensazione che non sarebbe mai finita. Le donne si muovevano eleganti e frenetiche, quasi seguissero i passi di una danza sconosciuta al resto del genere umano. Era facile intuire che ogni minimo dettaglio era stato oggetto di un lungo e meticoloso studio da parte delle invitate. Gli uomini invece risultavano nel complesso meno interessanti e, anche se apparentemente erano molto diversi l’uno dall’altro, in realtà finivano tutti per assomigliarsi. Al di là delle apparenze, però, un’atmosfera di finzione pervadeva tutto ciò che ci circondava. Tutti erano in qualche modo eccessivi nei loro comportamenti, a cominciare dalla sorpresa che palesavano quando incontravano un amico o dall’indifferenza che mostravano quando il loro sguardo incrociava quello di un nemico. Tutti fingevano di essere qualcosa di diverso e di migliore di ciò che erano realmente e, anche se erano abili, non riuscivano a mascherare fino in fondo lo sforzo che tale finzione comportava. Avevamo appena fatto capolino nell’immenso salone, quando ci si parò davanti colui che, inequivocabilmente, era il padrone di casa. In effetti l’espressione del suo viso era diversa da quella degli altri. Del resto lui era il commendatore Radogna, una persona che, al di là di ogni ragionevole dubbio, per inclinazione naturale e per abitudine acquisita, era abituata a dare ordini. Prima di quella sera non l’avevo mai visto di persona, ma il suo era ormai uno dei volti più conosciuti della provincia e forse della regione. Una persona che, stando a quello che si sentiva dire in giro sul suo conto, era più temuta e invidiata che amata.

    Non era molto alto e l’assenza di capelli non contribuiva a rendere più accattivante il prodotto finale, ma il portamento, i suoi gesti e il tono della voce, erano propri di chi non aveva bisogno di curare la propria immagine per far capire che tipo di persona fosse. Comunque quella sera aveva deciso di interpretare la parte del perfetto padrone di casa - o meglio, viste le dimensioni e le caratteristiche della sua tenuta, di castello - che accoglieva con calore i suoi ospiti e quindi anche con noi era intenzionato a rispettare il copione. Era solo. Non sapevo dell’esistenza di una signora Radogna, ma se anche esisteva, era da qualche altra parte a fare chissà cosa.

    «Benvenuti, dottor Pinardi e avvocato Manfredi. Vi ringrazio di avere accettato il mio invito. La serata sta per cominciare e non sarebbe stato lo stesso senza di voi. Sicuramente il nostro ispettore avrà bisogno della vostra esperienza e competenza per risolvere il caso che si sta per presentare».

    Mentre diceva queste parole - una battuta probabilmente già utilizzata più volte nel corso della serata - le accompagnò con un cenno del capo, come a indicare il buffo ometto che, pochi metri dietro di lui, era intento a conversare con alcune signore di mezza età che lo sopravanzavano nettamente in altezza e in larghezza. L’ispettore sembrava proprio il sosia di Poirot, con la testa calva, vagamente a forma d’uovo, e due lunghi baffi finti. Era difficile aspettarsi qualcosa di serio da un tipo del genere.

    «Siamo noi che la ringraziamo dell’invito. È davvero un piacere fare la sua conoscenza», gli rispose Paolo, facendo finta di essere stato davvero invitato e di non essere invece lì per dare risalto a una manifestazione sponsorizzata da uno dei maggiori inserzionisti del giornale per cui lavorava.

    «E poi credo proprio che se l’ispettore mantiene anche solo la metà di quello che il suo aspetto promette, sarà incredibilmente bravo», dissi io a ruota, cercando di recitare dignitosamente la parte dell’ospite grato per un invito imprevisto e già convinto - come da contratto - che tutto quello che avrebbe visto o sentito nel corso della serata sarebbe stato semplicemente fantastico.

    «Ma mai brillante quanto lei, avvocato Manfredi. Ho avuto modo di seguirla durante il processo a carico di quel poveretto di Franco Galbiati - mio amico da sempre - il quale, ogni volta che m’incontra, non perde occasione di ricordarmi quanto lei è stato bravo a salvarlo da un’accusa infondata, per la quale rischiava seriamente di restare in carcere il resto della vita».

    Evidentemente Radogna riteneva che per interpretare adeguatamente la sua parte, dovesse anche adulare i suoi ospiti facendoli sembrare migliori di quanto non fossero. Nel mio caso, però, ero ragionevolmente sicuro che non esagerasse a proposito della gratitudine di Franco Galbiati nei miei confronti.

    Era stato il mio processo perfetto.

    All’inizio, in base alle prove a suo carico presentate dall’accusa, nessuno avrebbe scommesso un euro sulla sua innocenza. Poi una serie di circostanze fortunate e alcune carenze nell’indagine avevano ribaltato l’esito del processo, che si era concluso con un’assoluzione (con formula dubitativa, ma tanto bastava). Quel processo mi aveva dato una visibilità e una fama che per un avvocato trentacinquenne non erano facili da ottenere. Ora avevo il problema di mantenerle e, se possibile, di incrementarle. Ma non avevo intenzione di affrontare e risolvere la questione proprio quella sera.

    «La ringrazio, commendatore, è sempre una grande soddisfazione quanto si contribuisce, nel proprio piccolo, a far trionfare la giustizia».

    Mentre proferivo queste parole, il commendatore mi lanciò uno sguardo come per appurare se, in quanto avvocato, l’espressione "contribuire a far trionfare la giustizia" fosse stata da me usata in senso ironico. O forse conosceva abbastanza bene Franco Galbiati e quindi faceva fatica a convincersi che la sua assoluzione potesse avere qualcosa a che fare con la giustizia.

    Dopo aver scambiato qualche altra inconsistente battuta sui nostri rispettivi piaceri - il suo di averci come ospiti e il nostro di essere lì - venimmo finalmente congedati, giusto in tempo per essere intercettati da Leonardo Pasut, il presidente dell’Associazione Free World.

    Non lo conoscevo personalmente ma anche lui era un personaggio molto noto e non c’era evento dedicato a persone in difficoltà a cui egli non si sentisse in dovere di intervenire. Le cause per cui si batteva erano, in generale, perfettamente condivisibili ma - almeno per quella che era la mia opinione - spesso utilizzava uno spirito da crociata che risultava controproducente. Anche dal vivo, l’esigua simpatia che provavo nei suoi confronti non era destinata ad aumentare, anche perché egli tendeva a rivolgersi al suo interlocutore tenendogli la mano stretta fra le sue in una morsa da cui era impossibile liberarsi.

    Non appena si rese conto che Paolo era lì proprio per scrivere un articolo sulla serata, non lo lasciò andare prima di ricevere ampie rassicurazioni sul fatto che il ricevimento era bellissimo e che il suo giornale avrebbe messo in risalto la perfetta organizzazione dell’evento da parte della sua associazione.

    Riguadagnata faticosamente la nostra libertà ci dirigemmo al reparto aperitivi, dove prendemmo al volo la prima bevanda colorata offerta da un cameriere in livrea bianca.

    «Allora, cosa ne pensi?», mi fece Paolo, mentre il suo languido sguardo, tanto per cambiare, indagava la generosa scollatura di una delle giovani invitate alla festa.

    «A quest’ora non sono più in grado di pensare», gli risposi guardandomi intorno e cercando di capire se ci fossero delle persone che già conoscevo, anche solo di vista.

    «Questo lo so. Ma puoi fare commenti su quello che hai intorno senza starci a ragionare troppo. Dai, Guido, rilassati, siamo qui per divertirci», insistette Paolo, mentre il suo sguardo continuava a seguire la giovane di prima, che si stava lentamente allontanando dal nostro punto di osservazione.

    «Ok, ecco il mio personale ordine di preferenze per la serata: la location, lo spumante, la gente, il boss e, ultimo e staccatissimo, Pasut».

    In un angolo della sala, letteralmente circondata da una folla composta indistintamente da uomini e donne, c’era Stefania Dallari, attrice un tempo accreditata di una certa fama ma ormai sul viale del tramonto, che, evidentemente emozionata per l’attenzione di cui era oggetto in quel momento e a cui non era più abituata, dispensava sorrisi e battute a destra e a manca.

    «Il problema, caro Guido, è che lavori troppo e ti fai sfuggire il senso profondo della vita, l’unica cosa che conti davvero in questo mondo senza regole. Apri le orecchie e ascolta la perla di saggezza che sto per dispensarti gratuitamente: Presta molta attenzione ai dettagli, che tanto le cose importanti si mettono a posto da sole. Nella sostanza: osserva e impara», dicendo così lasciò il bicchiere ormai vuoto su un tavolino al suo fianco e si avvicinò, con fare scenografico, a una ragazza che si trovava a qualche metro da noi in compagnia di un uomo. Per la precisione, la ragazza dimostrava un’età tra i venticinque e i trent’anni, mentre l’accompagnatore non ne dimostrava meno di quaranta.

    Evidentemente Paolo e la ragazza si conoscevano già e si salutarono calorosamente. Lei, semplicemente uno schianto, sembrava essere davvero contenta di vederlo. Non mi pareva di averla mai vista prima, anzi ne ero sicuro. Non ero ancora così rimbambito da potermi sbagliare su un particolare del genere. L’accompagnatore della ragazza, invece, tanto brutto quanto azzimato, fu molto meno desideroso di salutare Paolo e si mise a scrutarlo come se fosse uno scocciatore.

    Mentre stavo valutando se unirmi all’allegra combriccola o recitare la parte di chi aspetta che siano gli altri a manifestare il desiderio di stare in mia compagnia, mi sentii afferrare per un braccio.

    «Guido, anche tu qui? Non ci posso credere… Vuoi risolvere anche il caso di questa notte? Attento, però, questa volta hai una concorrenza qualificata e numerosa: prima ho visto il colonnello dei Carabinieri e il questore, per non dire poi che ci sono io…»

    Era l’avvocato Davide Sani: broker, finanziere, figlio di un ricco imprenditore e tante altre cose ancora. In realtà ero io che ero sorpreso di vederlo. Le ultime notizie sul suo conto, peraltro datate e poco affidabili, dicevano che ormai lavorava a Londra in un grande studio legale e finanziario ed era sempre più raro vederlo dalle nostre parti. Era stato sempre molto sicuro di sé e il suo modo di atteggiarsi poteva risultare moderatamente antipatico. Tutto ciò, secondo alcuni suoi amici, impediva di apprezzare la sua profonda correttezza. Però io non ero mai stato davvero suo amico e quindi, non avendo avuto modo di intuirne la profonda correttezza, ero soltanto uno dei tanti a cui Davide Sani risultava moderatamente antipatico. Bisogna però riconoscere che quando tuo padre è tra le cinque persone più ricche della regione, è facile risultare - anche senza un vero motivo - poco popolare. Sani era comunque una persona seria che, pur provenendo da una delle famiglie più in vista della città, sin dai tempi dell’università si era sempre impegnato e sicuramente si meritava le soddisfazioni che stava ottenendo.

    «Vorrà dire che quando vi sarete stancati di giocare e vorrete sapere chi è l’assassino, me lo verrete a chiedere con il cappello in mano», ridemmo entrambi con una complicità che in realtà non avevamo mai avuto neanche quando, molti anni prima, ci frequentavamo saltuariamente.

    Mentre stava pensando a cosa ribattere, si accorse che il suo telefono cellulare stava vibrando e si allontanò in direzione dell’ampia vetrata che dava sul giardino con un cenno di circostanza come a dire: "il dovere chiama". Contemporaneamente si sentirono un grido soffocato e un bicchiere che s’infrangeva sul pavimento. Come previsto dal copione, la festa si prendeva una pausa e lo spettacolo aveva inizio.

    Uno spettacolo che, contrariamente a ogni aspettativa, sarebbe diventato indimenticabile.

    CAPITOLO 2

    La mia attenzione si rivolse alla scena del "delitto". La Dallari era adagiata, in una posa un po’ troppo studiata per risultare credibile, su un ampio divano rosso con il braccio sinistro che pendeva da un bracciolo. L’ampio spacco della gonna consentiva, probabilmente non a caso, una generosa visuale delle gambe. Per terra era visibile ciò che restava del bicchiere tenuto in mano fino a qualche attimo prima dall’attrice. Il contenuto, di un colore non facilmente definibile, era riverso sul pavimento. Le persone che, inizialmente sorprese, si erano fatte intorno per cercare di capire cosa fosse successo, si erano infine disposte in un ampio semicerchio in attesa degli eventi. I loro volti, dopo una prima fase di incertezza, si erano poi rapidamente rasserenati, come se solo dopo qualche momento si fossero ricordati che il programma della serata prevedeva la realizzazione di un efferato omicidio da parte di un misterioso assassino.

    Dopo qualche istante si vide farsi largo tra la gente l’ispettore, che immediatamente prese possesso della scena come solo un consumato attore poteva fare. I suoi movimenti erano rapidi e sembravano rilevare, non solo agli occhi del profano, una notevole autorevolezza. In questo caso, contrariamente a quello che si verifica nella realtà, la sua richiesta di avere un medico venne esaudita con un tempismo che evidentemente sottintendeva un precedente accordo. Il sanitario, dopo una rapida visita, dichiarò, con aria solenne, che purtroppo la grande attrice era deceduta. Contemporaneamente si vide la grande attrice accogliere con il gesto delle corna la notizia, sollevando l’ilarità generale tra gli spettatori.

    Imperturbabile, l’ispettore cominciò a evidenziare i motivi per cui si trattava di un omicidio realizzato mediante la somministrazione di un potente veleno. In suo aiuto era nel frattempo sopraggiunto un imbranato collaboratore che aveva il compito di apparire talmente stupido da far sembrare un genio l’ispettore. L’obiettivo veniva infatti immediatamente raggiunto, in quanto l’aiutante aveva cominciato a elaborare varie teorie, una più strampalata dell’altra, per cercare di ricostruire la dinamica dell’omicidio. Egli mostrava sin da subito - accompagnato dai sorrisi divertiti degli astanti - il raro dono di sottovalutare gli indizi importanti e di esaltare gli elementi irrilevanti.

    Lo spettacolo era davvero divertente e la mia attenzione ne era completamente assorbita, tanto da dimenticarmi completamente di Paolo e di tutto quello che avevo intorno. A un certo punto, però, venni richiamato alla realtà da un’intrigante voce femminile: «Avvocato Manfredi, lei che di omicidi se ne intende, cosa ne pensa? È davvero possibile che sia stato uno spasimante respinto a mettere il veleno nello spumante della Dallari?»

    Mi girai verso la voce e vidi al mio fianco la splendida ragazza che Paolo era andato a salutare poco prima. Da vicino risultava, se possibile, ancora più attraente: capelli castani di taglio medio, occhi di un verde talmente chiaro da sembrare, almeno alla luce artificiale, quasi gialli e un’irresistibile espressione da ragazzina capricciosa che sembrava promettere avventura e trasgressione. Non l’avevo mai vista prima, non avevo la più pallida idea di chi fosse e di come potesse sapere il mio nome. In quel momento comunque la cosa non sembrava importante e cercai di risponderle qualcosa che avesse un minimo di senso logico.

    «Ammesso che io sia uno che se ne intende di queste cose, al mondo d’oggi tutto, o quasi, è sempre possibile. Certo che, in linea generale, se uno squilibrato decide di uccidere l’oggetto del suo desiderio, di solito non utilizza un mezzo insidioso come il veleno. In questi casi l’assassino, trattandosi, nella maggior parte dei casi, di omicidi commessi d’impeto e senza una vera e propria premeditazione, utilizza una pistola o un’arma da taglio. Comunque direi di lasciare da parte i titoli e di chiamarmi semplicemente Guido».

    «Benissimo, io sono Stella».

    Io sono Stella. Non avevo dubbi: il nome era assolutamente adatto alla persona. Anche lei, come Paolo, era una giornalista ed essendo stata assunta pochi giorni prima da un’emittente televisiva locale, si era trasferita a Bologna per motivi di lavoro. Resistetti soltanto pochi istanti alla tentazione di controllare se avesse all’anulare fedi o anelli che potessero avere un qualche significato. Aveva soltanto un anello, di platino o d’argento a giudicare dal colore, al pollice della mano sinistra. Non sembrava indicare qualcosa di pericoloso rispetto alle intenzioni che, in una parte recondita della mia mente, cominciavano a prendere forma.

    «Ovviamente di te mi ha parlato Paolo».

    Mi sussurrava mentre mi guardava con fare vagamente ammiccante. Smorfiosa. Cercavo di non esaltarmi troppo e di mostrarmi interessato a lei nella giusta misura.

    «Ti occupi di qualche settore in particolare?»

    «Di solito presento tre volte alla settimana l’edizione serale del telegiornale. Secondo il direttore sono una che buca lo schermo», mentre lo diceva, fece un gesto come a significare che il direttore non era uno che ci capiva molto, «ma in realtà in una piccola emittente locale bisogna interessarsi un po’ di tutto. Se lavorassi in una città più grande e potessi scegliere, probabilmente farei soltanto cronaca nera».

    In realtà anch’io ero un appassionato del genere, nel senso che, quale avvocato penalista, proprio grazie ai fatti di cronaca mi guadagnavo il pane. Era però inusuale che proprio la cronaca nera potesse interessare una ragazza così carina ma, per quanto mi riguardava, non avevo nulla da obiettare al riguardo. Mentre la guardavo negli occhi mi venivano in mente tante domande che avrei voluto farle per sapere tutto di lei, ma ovviamente non era quello il momento giusto. Almeno per ora quelle domande avrei dovuto tenerle per me.

    «Beh, qui non è come vivere a Los Angeles, ma di fatti strani se ne verificano molti, più di quanto uno potrebbe pensare per essere una città, per certi versi, di provincia…»

    «E allora, speriamo proprio di essere fortunati…», fece lei con un sospiro.

    Nel frattempo l’ispettore proseguiva brillantemente nella sua indagine. Grazie al suo inimitabile fiuto investigativo aveva rinvenuto nella borsetta della Dallari una lettera che si apprestava a leggere e che, da quello che si intuiva, sarebbe stata fondamentale per la soluzione del mistero. La Dallari era stata già portata via tra gli applausi degli ospiti. Il collaboratore dell’ispettore non aveva ancora pienamente rinunciato al suo tentativo di depistare le indagini e non perdeva occasione per dare il suo personale contributo alla soluzione del mistero.

    «Certo che è davvero bravo!», disse Stella avvicinandosi fino quasi a sfiorarmi. Non capivo esattamente a chi dei due si riferisse, ma ormai mi andava bene tutto. Istintivamente avevo deciso di non contraddirla in alcun modo.

    Stavo per dire qualcosa, quando una delle porte-finestre che si affacciavano sul giardino si spalancò improvvisamente e un uomo e una donna in preda al panico irruppero sulla scena. I loro lineamenti erano stravolti e la cosa era ancora più impressionante per chi, come me, li ricordava solo qualche minuto prima mentre ridevano allegramente nel salone della festa.

    Fu l’uomo a gridare: «C’è un cadavere nel giardino…»

    L’ultima parola era stata pronunciata a voce molto più bassa e con un’intonazione quasi come se si aspettasse che nessuno lo avrebbe preso sul serio. La mano destra era sporca di qualcosa che ricordava il sangue. La donna si accasciò su un divano simile a quello su cui fino a pochi istanti prima la Dallari aveva recitato la parte del cadavere.

    La maggioranza delle persone che affollava il salone accolse la notizia con divertimento ritenendo che fosse collegata all’indagine sull’omicidio della Dallari. Istintivamente, infatti, gli sguardi di tutti si spostarono sull’ispettore, nell’attesa che questi assumesse il comando delle indagini e ci conducesse alla soluzione dell’ormai duplice delitto. Però la sua reazione non fu quella che tutti ci aspettavamo. Sembrava piuttosto un attore di teatro che, nel mezzo della rappresentazione, vedeva salire sul palco un personaggio non previsto che cominciava a fare e a dire cose non scritte sul copione. L’espressione del suo volto era quella di chi ha perso la battuta ed è ormai destinato a uscire di scena.

    Del resto, a guardare con attenzione, l’espressione terrorizzata dei volti dell’uomo e della donna lasciava pochi dubbi sul fatto che avessero effettivamente assistito a qualcosa di estremamente grave.

    Fu il questore che, dismessi i panni dell’invitato e memore dei lunghi anni passati a dirigere la squadra mobile in una questura del Sud, prese per un braccio l’uomo e, stando bene attento a non sporcarsi il vestito, chiese di essere accompagnato sul luogo dove si trovava il cadavere. Il colonnello dei Carabinieri li seguiva da vicino, mentre Radogna cercava disperatamente di distogliere l’attenzione dei suoi ospiti da quello che sperava fosse solo uno spiacevole imprevisto di breve durata. A un suo cenno le porte che davano sul giardino si chiusero e un complesso musicale, della cui presenza fino a quel momento non mi ero neanche reso conto, cominciò a intonare una bachata a tutto volume.

    Stella ed io ci guardammo.

    «E ora cosa facciamo?», fu la prima cosa che mi venne da dire.

    «Stai scherzando, vero? Hai dimenticato che sono una giornalista? Vieni con me!»

    Nel dire queste parole mi prese per mano e mi trascinò in direzione opposta a quella presa dal gruppetto guidato dal questore. Avevo il vago sospetto di sapere cosa avesse in mente e anche se controllare un cadavere nel parco non era esattamente la prima cosa che avrei voluto fare con lei, era il tipo di ragazza che avrei seguito ovunque. Uscimmo dall’entrata principale del palazzo e, percorsi almeno cento metri, girammo a sinistra seguendo un vialetto parzialmente illuminato che sembrava fare il giro completo dell’edificio. Il giardino, ma si poteva tranquillamente dire il parco intorno alla villa, era bellissimo e splendidamente tenuto. Erano alternati con mano sapiente alberi di alto e medio fusto con cespugli di fiori. Nell’aria, oltre al profumo della primavera imminente, si coglieva l’inconfondibile odore dell’erba appena tagliata. Stella, indifferente alle suggestioni bucoliche, era al telefono con qualcuno dell’emittente televisiva: «Gianfranco, sono io, Stella. Sembra che ci sia un morto nel giardino della tenuta di Radogna. Sto andando a controllare. Tieni in preallarme una squadra. Ti faccio sapere come evolve la

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