Dotto'
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Non era facile e lo sapeva bene, ma secondo Luca non era un’impresa impossibile: tutto stava nel trovare un punto di equilibrio.
E invece si trovò a misurarsi con un meccanismo fragile, imprevedibile e maledettamente complicato.
Da una parte trovare un’intesa con il peggiore dei sindacalisti, un tipo rimasto agganciato alla polvere bianca, ma fanatico come lui dei testi dei Gang, dall’altra l’arrabattarsi tra riunioni, scioperi a tradimento e orari allucinanti per trovare il suo spazio da dedicare all’allenamento per il triathlon, rituale sacro per chi vuol fare un Ironman.
Il finale è come la prima onda forte nella frazione di nuoto, soverchia ogni tattica, ogni aspettativa.
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Anteprima del libro
Dotto' - Luca Malusardi
XVI
I
Il messaggio arrivò forte e chiaro, come un gancio alla mascella.
«Dotto’ a parlare chiaro se fa presto», lo interruppe in tono perentorio quello che sembrava il capobranco, «se ci volete ascolta’ possiamo continuare a parlare, se invece volete fare come dite voi, poi non vi venite a lamentare».
«Ma dico io», continuò quello riccio, che sembrava Abatantuono, «ma voi pensate veramente di venire qui e dirci una cosa così grave con tale leggerezza?».
«Ma sa cosa le dico?», rincarò la dose, «ma perché non ci portate qui il giapponese, che ci metta la faccia lui».
A quelle parole, l’intera stanza si rianimò, quasi fosse scattato il segnale. Come un’onda che prende forza e consistenza velocemente, per schiantarsi contro le sue orecchie.
«Ecco, giusto!».
«Vogliamo lu giapponese!».
«Non viene mai qui!».
«Mo’ gliela facciamo vedere noi, che cavolo è!».
«Sto cazz’e muso giallo!».
Capì di aver perso il controllo della riunione, ubriaco di voci, di sguardi, di parole, quasi stordito da quell’urlare. Gli occhi cominciarono a ruotare da una parte all’altra del tavolo, persi.
Erano all’incirca quindici sindacalisti, ormai esasperati, anzi incazzati neri. Presentarsi a loro e servire subito sul piatto l’inattesa notizia della ristrutturazione era stata un azzardo. Settanta esuberi buttati lì sul tavolo, con una noncuranza ai limiti dell’insolenza. Se ne stava rendendo conto in tutta la sua gravità adesso, in piena mazzata di ritorno.
Ora era lì, esposto al fuoco ostile di tutti i rappresentanti dei lavoratori. Già, perché quelli, al di là del nome così accademico e altisonante, rappresentavano davvero quelle settanta persone, quelle settanta famiglie, quei settanta esuberi, per usare i freddi termini burocratici.
Maledette logiche industriali, imprecò Luca, alla fine era ancora una volta lui a metterci la faccia e parare il culo a quelli che avevano deciso tutto. Finalmente il tipo con lo sguardo da ribelle irlandese prese la parola, riuscendo a emergere sopra quel casino: «Dotto’, non possiamo rimanere indifferenti di fronte a un atteggiamento simile da parte dell’azienda e lo dico cercando di mantenere la calma. Convocheremo quanto prima un’assemblea e informeremo i lavoratori. A questo punto lasceremo a loro la decisione».
Quelle parole rimasero sospese nell’aria, cariche di tensione e di rabbia trattenuta a stento.
Sapeva bene cosa voleva dire: se la fabbrica si incendia, non saremo certo noi a fermarla. Ormai aveva abbastanza esperienza per misurare le parole. Ormai aveva abbastanza esperienza per sapere quello che sarebbe seguito.
Prese la parola quello sulla destra, quasi un sollievo, in quel silenzio irreale.
«Dotto’ le è capitata una bella patata bollente, a lei come a noi che mo’ dobbiamo gestire sto casino. Io davvero faccio a lei il mio in bocca al lupo», poi riprendendo fiato e guardando gli altri, aggiunse, «e mi auguro che crepi».
Tornò un silenzio imbarazzato e a lui sembrò che si fosse oltrepassato il limite.
Anche chi aveva parlato ebbe la stessa impressione.
«Intendevo il lupo, non lei, sia chiaro Dotto’».
La risata generale fu qualcosa di liberatorio, per loro e per lui. Forse c’era ancora margine.
Lasciò la stanza frastornato, erano degli ossi duri, inutile illudersi. Si capiva lontano un miglio che conoscevano bene la fabbrica e la sua storia. Del resto, quando l’avevano assunto lo avevano messo in guardia: il suo predecessore se ne era andato, con la pressione fuori controllo e il fegato a pezzi.
Aprì la porta della palazzina e il vento sferzante lo investì in pieno, scompaginando la sua agenda, la sua memoria.
Era arrivato lì a tarda sera. Per non dare nell’occhio. Stabilimento metalmeccanico, consunto dagli anni e dall’olio, tute blu indistinte da sveglia alle quattroemmezzo e turni di notte a ciclo alternato. Sentiva gli sguardi addosso mentre gli mostravano le linee di montaggio, il processo, le impregnazioni, il laboratorio e bla, bla, bla. Opportunità di crescita, ambiente internazionale e bla, bla, bla.
Si ricordò di come quella sera vagasse stordito dall’odore di olio delle paciasse, così forte, così aggressivo.
Alla fine, si era lasciato convincere dal mare. Dopo una notte di indecisione e ripensamenti, l’aria del mattino, morbida, mista all’odore di salsedine gli arrivò in faccia dritta, dolce, carezzando il tormento.
Aveva deciso. Si rimise in gioco un’altra volta. Ancora un’altra fabbrica, ancora altre notti insonni, ancora altri direttori di produzione.
Ancora un altro giro.
II
Salì le scale, facendo i gradini a due a due, fino ad arrivare al lungo corridoio della Direzione, era tardi ormai e la luce di quel budello aveva qualcosa di spettrale a quell’ora. La porta del Direttore era aperta, entrò senza bussare.
«Allora? Com’è andata con quelli là?», esordì il Direttore, a metà tra il beffardo e il minaccioso. Sapevano entrambi che non sarebbe stata una passeggiata.
«Come ci aspettavamo, ingegnere», bluffò Luca, «ora faranno un’assemblea e vediamo che ne esce».
«E che ne uscirà secondo lei? Sentiamo», ribatté secco il Direttore.
Quel sentiamo
attraversò lo spazio in maniera violenta. Percepì l’ostilità dell’impazienza. Cercò di dominarsi, era ancora in prova.
«Mah, inutile farsi illusioni», rispose altrettanto seccamente, «probabilmente se ne usciranno con uno sciopero tosto».
Il Direttore staccò le mani dalla tastiera e lo fissò da dietro gli occhiali per un momento interminabile.
«Vedo che ha capito bene dove si trova», commentò continuando a guardarlo.
«Vada pure, informo io Il Grosso
», aggiunse, volgendo di nuovo lo sguardo verso il computer.
Si sentì un filo sollevato e lasciò spazio alla stanchezza molle. Quella di fine giornata.
Fece per congedarsi, ma la stilettata arrivò da dietro le spalle.
«Non sarà certo contento della situazione», sibilò gelido.
Si infilò nella macchina e accese subito il riscaldamento. Quella sera il vento era freddo. L’autoradio gli tenne compagnia, insieme ai sedili avvolgenti. Guidava guardando il mare sulla destra, la scia bianca delle onde nel buio gli dava un senso di calma.
Abbassò la musica, che quella sera gli sembrava così vuota, fece un bel respiro e lasciò che quell’aria gli inondasse i polmoni. Solo silenzio e rumore delle onde in lontananza, ritmico, ipnotico.
Rallentò sempre di più, fino a scalare in prima. Gli ritornò addosso lo sguardo gelido del direttore, le parole decise dei sindacalisti, il loro tono di voce, diretto, violento.
Arrivò a casa, si infilò subito le scarpe da corsa e la maglietta termica.
Aveva bisogno di correre, aveva un bisogno fisico di correre adesso. Avrebbe cominciato lento poi più intenso, fino alle ripetute. Niente di meglio per sfasciarsi di stanchezza.
Infilò il rettilineo del lungomare, pronto a sentire il vento sferzante, le gambe cominciarono a muoversi lentamente, quasi una camminata veloce. Diede uno sguardo ai battiti, ancora bassi.
Sentì il corpo sciogliersi a poco a poco, fondersi nel ritmo della corsa. Più fluido, più naturale. Cominciava a sentirsi scorrere, scivolava nella sera e nella sua oscurità, sentiva solo i suoi passi e il suo respiro, niente cuffiette questa volta. Il ritmo delle onde gli entrò in circolo, una falcata, un’ondata, una falcata, un’ondata.
Il Direttore, i suoi occhi freddi dietro gli occhiali, la montatura leggera e allo stesso tempo austera.
Il vento gli buttava la sabbia sui piedi, odore di mare, odore di spazi ampi.
Il budello del corridoio.
Il corpo è più leggero, spingono le gambe, si gonfia il collo, recupera. Rallenta. Riprende a correre.
Poi buio di fine corsa, cani randagi e impauriti sul lungomare, coppie in penombra in angoli remoti. Qualcuno aspettava in macchina, luce impaziente di cellulari che attendono messaggi.
Scivolò di fianco silenzioso. Poi doccia bollente, di gambe stanche e soddisfatte. Si cucinò qualcosa e si stese sul divano, stiracchiando i muscoli. Ora era un po’ più lontano da quella giornata, finalmente.
Lasciò risuonare la chitarra di Roberto Ciotti nel buio, le immagini del deserto illuminarono lo schermo.
Il Montepulciano avvolse i suoi pensieri, dolcemente.
Si svegliò nel pieno della notte, i suoi occhi miopi stropicciarono le 4.30 sul display del cellulare.
Capì subito che sarebbe stata un’altra notte di divano e soffitti vuoti. Troppo sveglio per riaddormentarsi. Troppi casini per dormirci sopra.
Le immagini arrivarono subito, spietate. Gli occhi gelidi di Delli Preti, «Non saremo certo noi a fermarli», la frase alle spalle, «Non sarà certo contento», l’impazienza dell’alba, gambe stanche ma testa perfettamente lucida.
Provò a stendersi sul letto, fresco, soffice, ma appena chiudeva gli occhi rivedeva le mattonelle dei corridoi della fabbrica e l’odore di olio si faceva più acuto.
Pensò come la notizia degli esuberi si stesse spargendo tra le linee. Immaginò le reazioni. In un lampo improvviso realizzò che sul turno di notte stavano scrivendo il comunicato sindacale che avrebbe trovato al mattino. La fabbrica non si ferma mai, neanche lui poteva fermarsi.
«It’s very challenging, do you feel ready?», l’ultima frase che il Presidente giapponese gli aveva rivolto alla fine del colloquio, in quell’inglese d’oriente, gli ritornò addosso insieme al vento che entrava dalla finestra. Quel giorno il boss giapponese, ribattezzato Il Grosso
, aveva concluso la frase con un sorriso di affettata cortesia. L’offerta era buona e lui si sentiva pronto per vivere al mare, un po’ meno per un’altra odissea sindacale. Stavano aspettando il pollo, probabilmente.
Il cielo si fece sempre più chiaro, virando verso il rosa. Colori convinti, ben diversi da quelli sbiaditi delle terre sabaude in cui era stato fino ad allora. Arriva l’alba o forse no, a