La Città del Mare - Strade dell’Esterlick – Volume Primo
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Anteprima del libro
La Città del Mare - Strade dell’Esterlick – Volume Primo - Giovanni Ronci
Giovanni Ronci
la Città del Mare
Strade dell’Esterlick – Volume Primo
Youcanprint
Self-Publishing
Indice
Indice
Colophon
Continente di Agartheirion
PROLOGO
1. Appunti Storici
ATTO I
2. Solitudine
3. Notturno
4. Mayran
5. Esternal
ATTO II
6. Skent
7. Ezerlas
8. La Città del Mare
9. Incontri
ATTO III
10. Partenza
11. Sottoterra
12. Ladri
13. Sul fiume
14. Attrazione
ATTO IV
15. Ordiev
16. Fardelli
17. Liberazione
18. Accoglienza
19. Scintille
EPILOGO
20. Agonia
Copyright © 2012
Youcanprint Self-Publishing
Via Roma, 73 - 73039 Tricase (LE)
Tel. 0832.1836509
Fax. 0832.1836533
info@youcanprint.it
www.youcanprint.it
Titolo | La Città del Mare
Sottotitolo | Strade dell’Esterlick – Volume Primo
Autore | Giovanni Ronci
Illustrazione di copertina | © Cristiano Lissoni
ISBN | 9788867516407
Prima edizione digitale 2012
Giovanni Ronci
Via F.lli Bandiera, 38
61011 Gabicce Mare (PU)
Cell: 335 8404417
Email: panterware@gmail.com
Facebook: http://www.facebook.com/giovanni.ronci
Twitter: http://www.twitter.com/giovanni_ronci
Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.
Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941
Continente di Agartheirion
PROLOGO
1.
Appunti Storici
Il tremolare della fiamma sulla candela rendeva la stanza sinistra, lugubre, proiettando ombre inquietanti sulle spesse mura di pietra. In quella scena severa, l’unico rumore veniva dal costante scorrere della penna del vecchio. Quello strisciare sibilante e asciutto, fosse stato parola avrebbe avuto una voce rauca, profonda, impietosa: la stessa voce che ripeteva, senza trasparire emozioni, alcuni passaggi, pezzi di frasi e pensieri.
Derrick è stato trovato morto. L’uomo riconosciuto come il capo della gilda dei ladri era abbracciato alla sua donna. Sono stati trovati, impalati, da una lancia di ferro acuminata. È il quinto omicidio negli ultimi otto giorni.
Il re delle trappole ucciso da una trappola, concluse amaramente con un accenno di sospiro. Tossì, come a schiarirsi la voce. Ricominciò a parlare, seguendo con un dito ossuto il filo della frase e commentando la notizia con la sua voce sommessa.
Scriveva tutto ciò che udiva o che gli veniva riportato, organizzando gli eventi in libri che poi catalogava all’interno della biblioteca cittadina, collegata allo studio da uno stretto cunicolo. Prese a sfogliare il tomo all’indietro, per riguardare gli ultimi eventi.
Ne sono certo. Queste non sono solo coincidenze. Da quando il governatore è scomparso, i mercanti non hanno avuto più limiti. Sarebbero capaci di fare qualsiasi cosa per il potere.
Mugugnò.
Eppure anche loro stanno pagando un prezzo piuttosto alto. Decisamente alto…
Sfogliò un altro paio di pagine, soffermandosi ad analizzare gli eventi. Eccola, ricordavo bene. Questa è di cinque giorni fa: uno degli arcimaghi azzurri trovato morto, accoltellato alle spalle. Questa gente riesce ad arrivare a un arcimago senza farsi notare. Possibile che non sia scattata alcuna trappola? Come sono entrati nel palazzo azzurro senza farsi vedere? Come sarà possibile fermarli? Sbuffò preoccupato.
Sfogliò un’altra pagina, e un’altra ancora, continuando a ripetersi: Un membro anziano della corporazione dei mercanti, anche lui accoltellato. Due guardie bianche con il cranio sfondato. Derrick e la compagna. Fece un’altra piccola pausa, incrociando le braccia, pensoso.
Tornò all’ultima pagina, barrò il cinque e scrisse un sei, piccolo, un po’ in alto.
«Chissà quante volte dovrò correggere ancora» si disse, solleticandosi il labbro inferiore con la morbida penna d’oca.
«Una gilda segreta violata proprio nel cuore. Il figlio adottivo che ammazza il padre e la sua compagna, colpevole già stabilito e in fuga. Non vorrei essere nei suoi panni. Mm… Troppe notizie certe sulla bocca di tutti» esclamò allargando le mani. «Bah! Non riesco a trovare una logi...» ma non riuscì a finire la frase.
Due pugni violenti sul portone di legno scossero il vecchio, destandolo dalla sua profonda concentrazione.
Stava rispondendo seccato quando la porta si aprì. Il rumore lo fece sobbalzare dalla sedia ma non appena riconobbe l’ospite, un sorriso gli increspò il volto rugoso.
«Vecchio! Vecchio! E allora questa porta?!» esclamò sorridendo l’uomo appena entrato. Altri due sonori pugni nello stipite robusto, dal lato interno, strapparono un sorriso a entrambi. Il nuovo venuto si lasciò poi andare in un lungo sospiro liberatorio, accomodandosi su una sedia ampia e comoda. Aveva la faccia tirata e preoccupata, nonostante il fare scherzoso. Si chiamava Garreth.
Mentre le malandate ossa dello storico cercarono di raddrizzarsi, il nerboruto militare gli rivolse nuovamente la parola: «Chiedo scusa per i modi e per l’orario, Storico, c’è una questione urgente. Abbiamo un altro morto ammazzato, un mercante, un buco dietro la testa e il cranio svuotato, come per le guardie, la settimana scorsa.»
Smise di parlare, fissando assorto un punto nel vuoto, poi riprese: «Stesso identico sistema. Mi incenerisca un fulmine se dietro a tutto questo non c’è la stessa mano!»
Si accarezzò pensoso il mento e proseguì sommessamente: «Magari dopo andremo a vedere assieme. A ogni modo… Immagino abbiate sentito della morte di Derrick vero? Che ne sapete?»
Il vecchio indicò il libro, facendosi da parte. Il soldato si alzò agilmente dalla sedia e si avvicinò al tavolo.
«Mm. Bene, state già relazionando la cosa. Ottimo. Mi raccomando, dovizia di particolari. Ne avrò bisogno. Nessuno ha visto i cadaveri, naturalmente, anche se in città non si parla d’altro. Pensate che anche questa morte sia collegata alle altre avvenute?»
Il vecchio prese fiato per parlare, inspirò, ma l’altro proseguì con irruenza: «Che fine hanno fatto gli eroi di un tempo? Quando li cerchi non ci sono mai» si lamentò.
«Sono un po’ di fretta ora. Ripasserò domani, o più tardi. Potremmo andare a vedere il morto, anche se credo ci sia ben poco da vedere. Tenete orecchie e occhi aperti, carissimo.»
L’uomo sorrise malinconicamente e si allontanò, lasciando lo Storico con una faccia attonita, ancora scossa per le notizie e la brusca interruzione. L’umore del vecchio si fece leggermente più cupo, nonostante fosse abituato a descrivere morti, scontri ed eventi nefasti.
Il capitano delle guardie gli piaceva, era onesto e amava leggere gli appunti storici che scriveva con così tanto impegno. Ricordava ancora il giorno in cui venne proclamato: proveniva dai campi di addestramento del Vallo, lontano a nord. Non aveva mai visto la città, pur avendone sentito parlare. Si erano rintanati nello studio e avevano passato ore interminabili, come da desiderio di Garreth, per leggere libri, appunti in quantità e per conoscere tutta la storia e la meraviglia della Città del Mare, nome con cui era conosciuta ai più Porto Garahnd.
Il capitano si era in seguito sdebitato con una bottiglia di vino elfico – di una squisitezza unica. –
«Dovrei appuntarmi la provenienza di quella bottiglia, prima di dimenticarla» sussurrò tra sé.
Lo Storico si sedette nuovamente sul grande trono in legno, ripensando a quel vino spettacolare. Riprese a sorridere e anche a scrivere, cercando di essere prolisso di particolari, per non deludere l’amico Garreth.
ATTO I
2.
Solitudine
È per colpa delle regole scritte che gli uomini tendono a diventare peggiori. Ho conosciuto tante persone, le migliori non avevano regole, e parlavano poco, per quello ti facevi domande su ogni cosa dicessero. Pensare, prima di agire.
Derrick D. Lougan
Dal libro dello Storico, sezione «Di chi vive nella Città del Mare»
Giorno 12 del mese dei raccolti, nell’anno del Martello.
Lungo la sponda est del fiordo di Esterlick, correva un piccolo sentiero in terra battuta, scavato dal tempo e da piedi nudi, suole e carri, per generazioni di Garahndere. Di tanto in tanto, su promontori che si affacciavano direttamente sullo specchio di mare, sorgevano piccoli templi, luoghi di raccoglimento, statue e totem di venerazione verso gli Dei. Avvicinandosi a queste piccole costruzioni, si aveva la sensazione che qualcosa di speciale fosse veramente presente, complice anche un panorama talmente magnifico da apparire divino.
A Syd sudavano le mani, era molto nervoso, il tormento interiore che provava dall'episodio dell'assassinio non lo lasciava mai solo, continuava a scavare in profondità, intrecciando memorie e ricordi di momenti passati, che non sarebbero più potuti tornare.
C’era mancato veramente poco. Ricordava ancora le urla degli altri membri della gilda. Lo avevano visto uscire dalla camera di Derrick. Si era fermato sulla porta, impietrito, paralizzato dal dolore e con lo sguardo fisso sulle mani, ancora lorde di sangue.
«Fermatelo! Ha ucciso Derrick! Fermatelo» avevano gridato. Quelle parole creavano un rimbombo assordante dentro la sua testa, confondendogli i pensieri. Ricordava soltanto a tratti la fuga nelle fogne. E quella sensazione di sporco cercando di strappare il corpo di suo padre e della sua compagna a quell’assurda trappola. Era solo una questione di tempo: lo avrebbero cercato, scovato e ammazzato.
Ti troverò bastardo, chiunque tu sia, ti troverò prima io, strinse la bocca e serrò i pugni.
Aveva già percorso diversi sentieri quando giunse infine alla meta prefissata. Era davanti a un vecchio portone sbiadito e rovinato, dall’aspetto roccioso e ruvido. Il legno era stato messo a dura prova dallo sferzare continuo dei venti costieri, completamente ricoperto da uno spesso strato di salsedine che ne aveva intaccato anche i robusti cardini di ferro.
Il portone cigolò con fatica, provocando uno stridio orrendo capace di lacerare la quiete di quel piccolo tempio dedicato a Vanyal.
Disturbato da quel rumore inopportuno, abbassò lo sguardo come a volersi scusare e, a piccoli passi, attraversò la porta e l’unica stanza, per poi sedersi a terra nell’angolo opposto, vicino all’altare di marmo bianco.
Da quella posizione riusciva a vedere i fasci di luce dai mille colori attraversare il vetro a mosaico. Era un’opera splendida, realizzata dai più grandi artisti della città, costituito da una serie di lastre colorate, apparentemente sistemate in ordine sparso e realizzate in diversi gruppi di colori. La proiezione luminosa permetteva di valutarne appieno la magnificenza: i toni di verde davano l’impressione di mostrare campi e colline. I blu disegnavano sagome morbide e ondulate, simili a corsi d’acqua e laghetti. I gialli andavano a definire una piccola casa: il simbolo di Vanyal, Dio del Silenzio.
Incrociò le mani, estasiato come sempre da quell’opera, e trattenne per un attimo il respiro, in religiosa, assoluta quiete.
Si sarebbe vergognato a farsi vedere mentre pregava, il suo ruolo e il suo rango all’interno della Gilda dei ladri gli imponevano comportamenti precisi. Non vi erano regole – ma proprio per questo nessuno si permetteva atteggiamenti particolarmente emotivi.
«Padre…» sussurrò tra sé mentre una lacrima gli segnò il viso. Derrick era morto, tradito e ucciso. Aveva bisogno di stare lì. Quel tempio aveva per lui un'attrazione forte, concretamente percettibile.
Tra quelle mura provava sempre una sensazione spirituale intensa, piena, come se una figura possente e benigna fosse lì presente e lo avvolgesse in un protettivo abbraccio. Si lasciava andare per ore a volte, attendeva il tramonto per vedere tutte le sfumature di luce filtrare attraverso i mosaici. Era uno dei pochi posti dove il suo tormento cessava, dove la quiete spodestava l'ansia, e dove a volte si ridestava dopo un piccolo sonno ristoratore, di quei sonni con sogni belli, liberi dagli incubi della sua vita irrequieta.
Momenti passati e memorie lontane s’intrecciavano nella sua mente, esplodendo solo in parte controllati, quasi sedati dalla sacralità del luogo e dall'azione di Vanyal, che Syd sentiva presente e che gli provocava uno sgorgare copioso di lacrime.
La presenza di uno degli Dei più sfuggenti e più potenti lo avvolgeva come una coperta calda, e il tepore che provava assomigliava tanto a quello di un corpo vicino. Così, lì dentro, tanti erano i volti che ricordava, tanti erano i ricordi che riaffioravano.
Nella sua vita c’erano state storie e amori, perlopiù attimi, intensi e disperati, in cui aveva scelto di non legarsi ad altre persone, in cui si era sentito costretto a fuggire, a lasciare le sue conquiste proprio perché i sentimenti che provava erano talmente forti e puri che mai si sarebbe potuto permettere che accadesse loro qualcosa.
Lui sapeva che sarebbe successo, prima o dopo. La sua vita era segnata, il mestiere che faceva sarebbe stato la sua condanna.
Si scopriva spesso a ripensare a visi ormai lontani, a immaginare la sua vita se tutto fosse stato diverso, a cercare di indovinare cosa stessero facendo in quegli attimi le persone migliori che aveva conosciuto.
Di tanto in tanto, davanti ai suoi occhi, figure sinuose e sensuali prendevano forma tra i fasci di luce colorata che filtravano dalle finestre. Riconosceva quelle donne, era come se fossero lì ma quasi mai ne ricordava i nomi. Poi, tra le luci, riconobbe gli occhi del suo mentore e sospirò tristemente.
Derrick lo aveva allevato, era stato come un padre per lui, anzi meglio di un padre, poiché fu abbandonato dai suoi veri genitori. Bolliva di rabbia al ricordo dell’assassinio, vedeva ancora i due corpi abbracciati, le due anime innamorate, orribilmente infilzate. Qualcuno aveva sabotato il letto, e il loro peso aveva fatto scattare la trappola a molla. La lancia di ferro aveva trapassato entrambi in un unico movimento. Gli sembrava di sentirli ancora parlare. Continuava ad avere la sensazione che fosse proprio tutto sbagliato.
«Vanyal, com’è potuto accadere? Chi è stato?» disse rivolgendo lo sguardo verso i mosaici di vetro. Scoppiò di nuovo a piangere.
Mentre il tramonto lasciava spazio alla notte, vedeva le figure svanire e muoversi come a volerlo salutare. Aveva uno sguardo fiero, nonostante le lacrime. Poi il silenzio parve inspessirsi, farsi denso: i mille pensieri iniziarono ad abbandonarlo, e si addormentò esausto, protetto dalla quiete del Dio.
3.
Notturno
Il tempo accumulava minuti dopo minuti, lento ma inesorabile, nel silenzio vuoto di quella cella umida e buia, troppo stretta anche solo per i pensieri. Al tramonto, solo al tramonto e soltanto per pochi attimi, il sole filtrava tra le fessure delle mura fatiscenti. Era quella l'unica occasione di vedere qualcosa di diverso dal buio. Le mani tamburellavano stanche e intristite sui mattoni umidicci, ammuffiti. A volte si soffermavano a giocherellare con qualche scarafaggio ignaro. Un altro giorno di vita persa, ma proprio in quegli attimi definiti, nella sua mente, i pensieri trovavano nuove collocazioni, le idee riacquistavano spessore, e la repulsione per i piccoli animali si trasformava in ricerca di contatto con qualcuno di essi.
Erano mesi che non vedeva nessuno, a parte, raramente, i suoi carcerieri. Riusciva a tener conto del passare dei giorni soltanto grazie a quella lama di luce tra muro e soffitto, ma ora le giornate si stavano accorciando. Con l'inverno sarebbe scomparsa anche questa opportunità.
Ogni tanto sollevava le mani, le portava al viso smagrito, per accorgersi che la barba, incolta e lunga, aveva ormai nascosto ogni fattezza, e schiacciava tra le dita i parassiti che durante la notte lo andavano a ricoprire, come a volerselo divorare.
Il suo corpo, una volta possente, era allo stremo, alimentato giornalmente da poco pane, acqua e a volte – raramente – da riso o brodaglie varie, di poca sostanza e orrendo sapore.
Era stanco. Per non perdere lucidità si costringeva almeno a muoversi, nonostante la cella fosse così bassa da non potere nemmeno stare in piedi. Non voleva cedere, ma il tempo passava e il buio s’impadroniva dei sogni, annullandoli, portando la ragione verso il dirupo della follia, trasformando la saggezza in panico, la serenità in angoscia.
Il soffitto già basso, diventava il meccanismo di una trappola mortale, ogni giorno più vicina, ogni giorno più opprimente. Dalle altre celle giungevano saltuari lamenti, simili a rantoli. Le guardie che arrivavano calciavano con forza il portone metallico, provocando un frastuono che nel silenzio totale e nel buio perenne diveniva tuono. Un fragore capace di dilaniare ogni residuo di tranquillità accumulata attimo dopo attimo con tanta fatica.
L'unico essere che rivolgeva loro la parola – anche se nessuno l'aveva mai visto – era l'addetto al cibo, che era consegnato attraverso una doppia grata in un pertugio ricavato