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Liguria criminale: 10 casi insoluti di cronaca nera
Liguria criminale: 10 casi insoluti di cronaca nera
Liguria criminale: 10 casi insoluti di cronaca nera
E-book105 pagine1 ora

Liguria criminale: 10 casi insoluti di cronaca nera

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Info su questo ebook

Dieci omicidi insoluti in Liguria, in un arco di tempo di quasi vent’anni. Dieci casi giudiziari che hanno attraversato un pezzo di storia importante della nostra regione, dal luglio del 1978 allo stesso mese del 1996. Eventi tragici che hanno scosso l’opinione pubblica e segnato la vita delle persone che, a vario titolo, ne sono state coinvolte. Ma soprattutto dieci storie umane che raccontano altrettante vite spezzate, spesso nel fiore degli anni, come per esempio il caso di Nada Cella, l’ultimo racconto, uccisa ad appena 24 anni.Tutti questi omicidi hanno un denominatore comune: l’assassino (o gli assassini) non sono mai stati trovati e sono ancora in libertà. Nessuno sta pagando per la morte di Nada Cella, Maria Berruti, Giuseppina Ierardi, Donatella Manunta, Gabriella Bisi, Luigia Borrelli o per i morti rimasti senza nome trovati a Sant’Ambrogio di Zoagli, in una grotta sotto la scogliera di Nervi, sul greto dei rio Torbella a Rivarolo o nel bosco del Boia a Pietralavezzara. Ma un delitto è davvero insoluto quando nessuno ne parla più. Finché la memoria sussiste, il caso non si può definire davvero chiuso.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ott 2013
ISBN9788875639181
Liguria criminale: 10 casi insoluti di cronaca nera

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    Anteprima del libro

    Liguria criminale - A. Casazza e M. Mauceri

    Prefazione

    Anonimi uffici, camere da letto e cucine, abitacoli di auto e prati inondati dal sole dell’estate, boschi ingrigiti dall’umidità e tuguri del centro storico, angoli di periferia deturpati dal degrado, scogliere imbiancate dagli spruzzi delle onde. Spazi rassicuranti in cui la vita scorre tranquilla e zone in cui, giorno dopo giorno, nulla sembra accadere in un perpetuarsi muto del tempo, senza storia e senza scossoni. Dieci scenari qualsiasi che, improvvisamente, vengono illuminati in un modo diverso, che impongono di essere osservati sotto un altro profilo. Non più case e macchine, radure e passeggiate a mare, ma luoghi differenti da tutti gli altri: luoghi in cui è stato perpetrato un delitto, in cui qualcuno ha reciso il filo che legava qualcun altro alla vita con fredda determinazione, con rabbia e violenza, con disperata follia. Dieci storie di uomini e donne che hanno riempito le pagine dei giornali, suscitato curiosità e angoscia, lasciando dietro di sé un reiterato mistero: quello legato a un nome. Il nome dell’assassino.

    Quelli che abbiamo raccolto in questo volume sono dieci delitti insoluti perpetrati in Liguria nell’arco di tempo che va dal luglio del 1978 al luglio del 1996. Non sono gli unici omicidi che, in questi diciotto anni, non hanno trovato soluzione. Perché, con buona pace della letteratura di genere, il delitto perfetto è nella realtà assai più frequente di quanto non si creda. Ci sono, nella storia criminale della Liguria del dopoguerra, decine di casi avvolti nel mistero e archiviati. Fascicoli pieni di riscontri, interrogatori e analisi della polizia scientifica sui quali la polvere si è andata accumulando sino a nascondere perfino la scritta: caso insoluto.

    Ma un caso è davvero insoluto solo quando nessuno lo ricorda più. Quando nessuno si ricorda più della vittima, della sua storia e delle circostanze in cui è stata strappata alla vita. I dieci delitti che abbiamo deciso di (ri)raccontare meritano di essere ricordati perché, per ragioni del tutto differenti, il mistero che ognuno di questi casi nasconde, chiede con più forza di altri di essere svelato. Il rischio, nel rievocare episodi così angoscianti, è da una parte quello di rinnovare il dolore dei parenti e degli amici delle vittime e, dall’altra, quello di riportare alla ribalta personaggi legati alle indagini perpetuando il disagio di essere rimasti coinvolti in vicende che, alla fine, li hanno visti del tutto estranei ai fatti. Non c’è, da parte nostra, alcuna intenzione né di rimestare nel torbido di vicende spesso scabrose, né di alimentari nuovi sospetti su chicchessia. Ci siamo limitati a riportare i fatti così come si sono svolti e come sono stati descritti sui giornali in base alle indagini. Di cinque di questi casi ci siamo poi occupati direttamente nel corso degli anni in cui abbiamo lavorato come cronisti di nera al Secolo XIX.

    A chiudere, un vivo ringraziamento va a Giuseppe Lanzavecchia, archivista del Secolo XIX, senza il cui aiuto questo libro non avrebbe visto la luce, e alle nostre mogli, Daniela e Orietta, che ci hanno sopportato e stimolato accollandosi l’incarico di attentissime critiche e correttrici di bozze.

    Andrea Casazza, Max Mauceri

    I

    LA DONNA DEL BOSS

    L’auto è incuneata fra il pianale di un rimorchio e una rete metallica sostenuta da tubi innocenti, nascosta sotto il ponte del raccordo elicoidale della sopraelevata, in piazzale San Benigno. La campata di cemento armato del ponte in quel punto non supera i tre metri di altezza e dà alla scena un contorno claustrofobico. È l’8 luglio del 1978, sono le 8,30 del mattino ma fa già caldo, molto caldo. Attorno è un tappeto di sporcizia: sacchetti della spazzatura semiaperti e maleodoranti, cassette della frutta spaccate, mattoni rotti e detriti vari, fogli di giornale e cartacce, un vecchio televisore con lo schermo rotto. La macchina è una Fiat 850 beige targata ge 380001 con le fiancate ammaccate. L’assassino ha appoggiato sul cofano posteriore due sacchetti pieni di detriti. Lo ha fatto, probabilmente, con l’intenzione di impedire ai passanti di guardare all’interno dell’abitacolo e ritardare così il più possibile la scoperta del delitto. In realtà sono proprio quei due sacchetti di pietrisco ad attirare l’attenzione di una coppia di portuali che ha appena terminato il turno di lavoro. Abbiamo pensato a uno scherzo – racconteranno poco dopo alla polizia – e ci siamo avvicinati per guardare. Ma, una volta accanto all’auto, il sorriso già abbozzato che sta loro fiorendo in viso si spegne nel giro di una frazione di secondo. Quello che vedono è tutt’altro che uno scherzo.

    All’interno di quell’850 beige, supino sul sedile destro reclinato, c’è il corpo senza vita di una donna. È seminuda. Ha la maglietta arrotolata sullo stomaco, i calzoni sfilati da una gamba e le mutandine strappate. Attorno al collo, una corda elastica azzurrina, di quelle che si usano per fissare i bagagli al portapacchi. Sull’auto non c’è alcun documento che ne consenta il riconoscimento. Agli uomini della Buoncostume, in ogni caso, non ne occorrono. Quella donna la conoscono, e da parecchio tempo. Ierardi Giuseppina, nata a Genova il 14-4-1954, prostituta, uccisa per strangolamento..., scrive l’agente di turno e la carta del verbale si impasta del sudore che gli copre la mano.

    Giuseppina Ierardi, 24 anni di bellezza non ancora sfiorita. Alta, un corpo da modella, lunghi capelli biondi e occhi castani in grado di arrivare sino al cuore. La più bella prostituta di corso Italia, com’è conosciuta nell’ambiente. Giuseppina Ierardi, un passato non dei più limpidi ma neppure fra i più burrascosi, un carattere deciso, per qualche verso difficile. E un presente che la lega al grande giro della delinquenza organizzata della Genova di quegli anni. Giuseppina, la bella Giuseppina, è la donna di un boss, lo sanno tutti. La donna di Gilbert Antoine Lattanzi, 39 anni, il capo del clan dei marsigliesi insediato sotto la Lanterna.

    Il medico legale, professor Mauro Celesti, da una prima ricognizione sul cadavere, scopre un grosso ematoma alla nuca. Con ogni probabilità la donna è stata colpita con forza e tramortita prima di essere strangolata. L’oggetto usato dall’assassino, ipotizza il dottore in base alla conformazione delle lesioni sulla nuca, doveva essere piatto e pesante, ma senza spigoli vivi perché il colpo non ha lasciato una ferita profonda. Non ci sono segni di violenza tali da far ritenere che la donna sia stata violentata. È molto probabile che Giuseppina Ierardi sia stata uccisa in auto e non che vi sia stata trascinata già priva di vita, perché non ci sono tracce sul corpo o sui vestiti che possano far pensare a quest’ultima eventualità. Difficile invece dire dove sia avvenuto il fatto. Se lì, all’ombra di quell’elicoidale che si avvolge sotto la mole svettante della Lanterna, o in un altro punto, magari in corso Italia, dove la donna faceva la vita, e quindi trasportata e abbandonata in piazzale San Benigno. La Fiat 850 risulta essere stata rubata la notte di due giorni prima in Circonvallazione a monte. Nell’abitacolo la polizia trova due confezioni di carne in scatola: una vuota, l’altra ancora intatta. Il proprietario della macchina, rintracciato e interrogato al riguardo, dice di non averle mai viste, che non sono certamente sue. Dei due reperti si occupa subito la Scientifica a caccia di impronte che possano aiutare a scoprire l’assassino. Ma segni evidenti di impronte digitali sono visibili anche sullo specchietto retrovisore dell’auto.

    Anche la borsetta della donna viene ritrovata poco dopo. L’assassino l’ha lanciata o lasciata cadere, allontanandosi, a una cinquantina di metri di distanza dall’auto. Dentro ci sono: una carta di identità strappata, una patente ancora nella sua custodia, chiavi, rossetto, un necessarie per il trucco e cianfrusaglie varie. Non ci sono soldi, ma nessuno degli investigatori sembra disposto a prendere sul serio l’ipotesi di un delitto per rapina. Quel delitto ha tutte le caratteristiche di un regolamento di conti. Ha i contorni di un inquietante messaggio lanciato all’uomo della vittima: Gilbert Antoine Lattanzi, il boss dei marsigliesi.

    Nel passato di Giuseppina Ierardi c’è ben poco da scavare. Scappa di casa a 16 anni, viene ripresa ma lei non vuole saperne di vivere con i suoi in salita dell’Orso, nel quartiere di Marassi. L’unico vero precedente custodito negli archivi della polizia è una denuncia per furto ai grandi magazzini.

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