Tempo dell'altro ieri
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Anteprima del libro
Tempo dell'altro ieri - Corinna Praga
AUTUNNO
Il nido
Se ti capita di salire oltre il giro grande della strada che sale alle case sparse dalla via Aurelia e dal mare, trovi ancor oggi, alla tua sinistra, la lunga scala in piedi sulla collina, e il suo sfondo, lassù, è sempre il cielo.
Una prima rampa, la più vecchia, mostra i segni di un’accurata costruzione di tipo padronale; poi i gradini rivelano disordinatamente, sotto le numerose toppe di cemento, la cura precaria che in genere è rivolta alle cose di tutti, quella specie di abbandono che i Comuni riservano alle creature di periferia. Proprio questo abbandono, però, e questa incuria riescono a nobilitare con una patina di vecchiezza lei che, nei suoi ottant’anni di umile impasto grigio, mai ha osato paragonarsi alle rosse, care e vecchie crêuze della Liguria romantica.
Lassù è stato il nostro primo mondo.
Appollaiati sugli ultimi gradini, come il mozzo accoccolato nella coffa, abbiamo osservato nascere il sole e spuntare le gemme dell’eucaliptus, abbiamo giocato e pianto nella gioia delle prime amicizie. E abbiamo visto passare, simile a un turbine che viene dal mare e furioso si abbatte sulla campagna innocente, l’ondata di pazzia che travolse il mondo, e gli uomini cadere come foglie staccate dal ramo e gettate dal vento negli angoli, cose finite.
Salendo i gradini t’illude lo stesso odore selvatico d’alloro e di sole. Ma i tronchi cresciuti degli alberi e l’opaca galleria di foglie denunciano che il tempo è passato, che ogni cosa è diversa pur rimanendo uguale, come sei diversa tu, anche se il cuore ti dice di no, e rivive l’autunno quando tuo padre ti ci accompagnò per la prima volta. Ero sola con lui perché Fiore, che ancora non si reggeva in piedi, impediva a nostra madre di fare sopralluoghi alla casa che presto avremmo abitato. La scala in salita mi pesava e l’occhio faceva la spola tra il velluto rosso del vestito e il gradino più alto per valutarne la distanza. Inutilmente, perché dovevo seguire la mia mano, imprigionata in quella paterna tra l’anello e il bastone che mi facevano male.
Arrivati al nostro varco, che poi sarebbe stato chiuso con il cancello, mio padre si fermò a guardare la sua casa, quella campagna
che aveva accarezzato in sogno sin da bambino. Sotto le impalcature era visibile il calcestruzzo grigio pallido, rotto dagli occhi vuoti delle finestre e ombreggiato dalle volte delle loggette. Le aperture dei tre piani non avevano ordine preciso e si differenziavano per la diversa grandezza: quelle sotto il tetto, a levante e a ponente, che spuntavano dagli abbaini molto più larghe che alte, mi sembrarono palcoscenici in attesa di una recita di burattini. Tutta la costruzione aveva qualcosa di raccolto, adagiata com’era nel grande taglio della roccia viva che aveva segato le fasce da sud a nord, permettendo anche al comignolo più alto di ripararsi sotto la cresta del monte dal tiro della tramontana. Sul dietro, una passerella in cemento armato, appoggiata alla fascia più alta, come è uso sulle alture genovesi, consentiva ingresso autonomo all’ultimo piano, destinato a divenire un appartamentino indipendente. Gli altri due costituivano una casa unica e vi si entrava dai due pianori a terreno per due grosse porte, in anticamera e in cucina.
– Per prima cosa bisognerà raccogliere le olive! – disse mio padre entrando nella sua terra. – Attenta a non calpestarne neppure una! Ogni oliva dà la sua goccia e tante gocce riempiono una giara!
Camminava guardingo sotto le piante, a passi lunghi e testa bassa, e con il bastone scostava dal sentiero i piccoli frutti neri e rugosi che mi faceva ammucchiare vicino alla casa.
Gli chiesi quando fossero nate quelle olive che a me sembravano tanto vecchie. Mi rispose che vecchi erano gli alberi, di cent’anni o forse duecento. I frutti gonfiavano ogni autunno e sul legno del tronco si aggiungeva un segno di cerchio a testimoniare un anno in più.
– Più vecchi di Napoleone? – domandai.
– Più vecchi di Napoleone!
Avevo sentito dire che tanto tempo indietro, prima ancora che nascesse il bisnonno marinaio con i bottoni d’oro che sorrideva dal quadro sotto la pendola in saletta, un uomo Napoleone era passato nei nostri paesi, a cavallo, con il cappello a due punte e le mani infilate nel gilé.
Si era interessato di tante cose e tante cose avevano preso il suo nome cosicché, con l’andar del tempo, quel nome era divenuto simbolo di tutto ciò che era vecchio e che bisognava cambiare: certe strade, dicevano, le divise dei Carabinieri e persino i letti dell’ospedale di Pammatone.
Questi olivi, ora, erano più vecchi di lui e sicuramente vivevano già su quel campo quando qualcuno aveva perso la moneta con lo stemma dell’uomo a cavallo che il Pin aveva ritrovata nello scavo.
Il Pin era il capomastro costruttore della casa ed ogni domenica s’incontrava con mio padre per accordarsi sui lavori. Anche quel giorno ci aspettava e lo riconobbi per i capelli bianchi sul collo e la corta barbetta simile a quella del Mazzini che pensa, ritto in piedi, sul piazzale che porta il suo nome. Era un ometto quadrato, nascosto in un giaccone di panno scuro con l’interno di pelo bianco, e non doveva certamente essere alto, contenuto com’era in un paio di pantofole a scarponcino e una paglietta color sacco sulla testa. In più, aveva le tasche assai piene, che si gonfiavano enormemente all’altezza dei fianchi. Forse portava con sé gli strumenti del lavoro, a giudicare dal metro snodabile giallo che spuntava da una bottoniera mal chiusa.
– Saluta bene il signor Giuseppe!
Mio padre era legato ad un cerimoniale sempre identico, e pensando che io non avessi imparato mai abbastanza la sua lezione, me la suggeriva in ogni occasione. Fu così, fino a che ebbi vent’anni.
Quella volta, però, la mia tiritera guadagnò il suo premio.
– Ammia che bella figgetta! – e il Pin, aperta la tasca chiusa, vi infilò dentro la mano, ne rimescolò il contenuto scuotendosi tutto, e tirò fuori una caramella trasparente che sembrava vetro, avvolta in una cartina che cricchiava sotto le dita.
Cominciò allora per me un’amicizia, rafforzata di domenica in domenica dal valore della consuetudine. Il Pin mi accompagnava all’interno della casa, mi faceva salire sulle assi a pioli che costituivano l’embrione delle scale, sorreggendo affettuosamente il mio peso insieme alla mia paura. Un giorno, presso la loggetta del primo piano, mi sollevò fino all’altezza del davanzale.
– Ammia un po’, da chì, o mâ, comme o l’é grande! Ciù ti ti monti, ciù le o manda lontan l’orizonte! – A me, quel mare, sembrò uguale al mare della spiaggia, con la differenza che questo era incorniciato da due promontori scuri: verso ponente, sulla vetta, due palme ed una casa rossa; a levante un castelletto bianco tuffato nel verde dei pini.
– Sciò Renato, dobbiamo chiudere l’intercapedine a terreno. Cosa vuole che ci muriamo dentro?
Papà gli mise in mano una moneta piccola da molte lire, di quelle che suonavano d’argento, insieme con un foglietto di carta.
Poi andammo tutti a seguire l’operazione.
– Perché gettano via i soldi nel muro?
Papà taceva, seguendo la veloce cazzuola del muratore che schiaffava la malta sopra i mattoni di chiusura.
– Il biglietto chi lo deve leggere? – insistei.
– Lo leggerà quello che butterà giù la casa. Così saprà chi eravamo noi e, dalla moneta, capirà chi comandava al nostro tempo.
– E perché quello deve buttare giù la nostra casa, se adesso è appena nuova?
Mio padre, un’altra volta, non diede risposta. Aveva gli occhi fissi sull’orizzonte marino, come se laggiù fosse la porta del futuro, oltre la quale gli uomini della Terra non possono guardare, pur avendone gran desiderio.
– Lasciare un nostro segno per quelli che verranno è usanza molto vecchia, antica come il mestiere del massacàn – mi confortò il Pin – ma questa casa è solida, è stata costruita bene, e durerà più di quanto dureremo noi!
Ed ebbe ragione. Quando la casa fu pronta e noi venimmo ad abitarla, il Pin non era ad aspettarci, come sempre, sotto l’olivo grande.
– Gli è venuto un colpo – disse il figlio Genio, che era anche il suo vice. – Se n’è andato in fretta, dopo due giorni. Perché soffrire tanto?
Io non capii quel discorso che nessuno si preoccupò di spiegarmi. Ma neppure cercai più il Pin, anche perché le stanze nuove furono subito piene di noi e delle nostre robe.
Fui messa a dormire al secondo piano, insieme alla nonna, nella camera con la loggetta verso il mare. Nella stanza c’erano due grandi letti di ferro smaltato in bianco, separati da un comodino con il marmo che amplificava il sonoro batter del tempo di una vecchia sveglia. Fiore, invece, era stato sistemato nella spaziosa stanza dei genitori, presso la finestra a ponente, sulle fascette coltivate dal nostro vicino Bernardo Ino. Ma per lui, che chiudeva gli occhi insieme alle galline, ciondolando testa e tovagliolo nella pappa di orzo bruciato, non aveva minima importanza dove si trovasse il letto per dormire. E, sistematicamente, piantava un capriccio sopra il vapore di quella scodella dal colore e dal profumo di cioccolata.
– Guarda che, se non la mangi tu, la do a tua sorella che non aspetta altro, e tu fili a letto senza cena!
La mamma, di solito, andava per le spicce, e in fatto di punizioni manteneva sempre quanto aveva minacciato. In tal caso, però, il mio desiderio di assaggiare quella cena di privilegio andò costantemente deluso e mi riuscì difficile, per tutto il resto del tempo, non giudicare ingiustizia quell’uso di due pesi e due misure.
Imparai, da allora, che non tutto, nella vita, poteva essere così semplice e così logico come sembrava a me, e la storia di quel piatto negato a chi lo desiderava e inflitto a chi lo rifiutava, mi fu unità di misura per valutare quanto sia relativa la verità e la giustizia nel mondo.
Restavo seduta a bocca aperta a guardare, di là della finestra ad inferriate che ci separava dalla campagna, l’ultima luce del giorno scappare lontano, oltre l’orto di Bernardo Ino, per andare a nascondersi dietro la casa rossa delle due palme.
– C’è uno sporco, là!
– Non è uno sporco. È un animale che viene a cercare la luce per snidare i moscerini che gli serviranno da cena. Si chiama geco.
Lo sporco era fedelissimo, tutte le sere, all’appuntamento con la sua e la nostra cena, e per lungo tempo segnò un appuntamento fisso e atteso della giornata.
Cose nuove ed interessanti ce n’erano molte, da scoprire ed osservare tutt’intorno. Ma io non ebbi subito il coraggio per una esplorazione solitaria e mi spinsi fuori solo dopo che Fiore fu in grado di venire con me. La sua presenza, quella mano grassoccia e sempre incollata alla mia, mi rendevano più sicura, con la fiducia che viene dall’essere obbligati a prendersi cura di qualcuno o di qualcosa.
– Dovrai insegnargli a non cadere. Tocca a te occuparti di lui! – aveva detto la mamma il giorno in cui eravamo saliti sul poggio tondeggiante, appena sopra il nostro tetto, dove la lunga scala finiva in una fascetta di saggine. Più oltre ricominciava il bosco di olivi e un sentiero stretto strisciava bianco tra i tronchi per tornare a salire ancora, di sasso in sasso, in un mondo che certamente confinava con il cielo.
La mamma, seduta sopra un roccione di antico conglomerato rinverdito di giovane muschio, regolava una macchina fotografica a soffietto. Aveva i calzini bianchi sotto i sandali di pelle opaca ed un giaccone coi bottoni lucidi gettato sul vestito di casa.
– Reggilo in piedi per un po’. Poi, quando te lo dico, lascialo solo e scappa via!
– E se cade e si fa male?
– Non deve cadere! È tempo che trovi il suo equilibrio. Dobbiamo spingerlo noi, se non vogliamo che ci diventi tardivo!
E fotografò Fiore in piedi, contro il vento che gli liberava la fronte dalla corta frangetta. Solo, tra gli steli ormai secchi delle saggine.
La libertà e l’indipendenza piacquero subito al bambino che spesso spariva nell’orto e ritrovavamo appoggiato alla rete del pollaio, ad osservare il passeggio singhiozzante delle galline. Quando imparò, alzandosi sulla punta dei piedi, a rimuovere la spranga di legno che assicurava la porticina, prese l’abitudine di entrare nel gabbione ed infilare senza timore le mani nel nido per portarne via le uova calde, magari di sotto al sedere di una chioccia impermalita.
È ben vero che ognuno di noi ha indole precisa e personale fin dalla più tenera età. Io, di qualche anno maggiore, ho temuto a lungo la vicinanza degli animali, preferendo lasciare tra me e loro qualche solido riparo. E puntualmente, quasi per un istintivo spirito di rivalsa, quelli